A più voci per la memoria: una sala piena, un dialogo necessario e la sfida di resistere all’oblio

Un incontro partecipato, nato dal passaparola, per trasformare la memoria in consapevolezza e impegno. Una sala piena, voci diverse, un dialogo necessario contro l’oblio e il ritorno dell’odio.

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foto di Andrea Vagnoni

Posti a sedere finiti. Il Comune di Ascoli Piceno (che ringraziamo) ci ha concesso gratuitamente la prestigiosa Sala dei Savi, a Palazzo dei Capitani, nella centralissima piazza del Popolo. “Riusciremo a riempirla?”, ce lo siamo chiesti, con apprensione, e abbiamo temuto di no. D’altronde, non sono molte le realtà della società civile che ci hanno sostenuto: l’associazione Blow Up, la libreria Prosperi e, in extremis, La Fenice della Rete degli Studenti Medi. Pochi gli organi di stampa che ne hanno dato notizia. Eppure, “A più voci per la memoria”, così avevamo intitolato l’evento, ha funzionato grazie al passaparola. Si è trattato di un bel dialogo collettivo, momento di riflessione condivisa per trasformare in consapevolezza e impegno il ricordo dell’ottantesimo anniversario dell’entrata dell’Armata Rossa ad Auschwitz, che ha rivelato al mondo l’orrore del genocidio nazista. L’organizzazione da parte di ithacaeditoriale.it, con il prezioso contributo di Daniela Albertini, ha permesso in poco tempo di riunire armoniosamente personalità con retroterra diversi (con più tempo sarebbero state anche di più, le idee non ci mancavano!), nella giusta compresenza di esperienza e gioventù.

Io stasera ho scoperto due pepite, davvero, due pepite. Sono i due colleghi più giovani, qui accanto a me, con Marisa ci conosciamo da tempo e abbiamo fatto tante cose insieme, ma qui… Qui vedo le basi per non fermarsi, per rilanciare. Tra l’affluenza di pubblico e chi può coltivare con passione queste istanze”. A parlare, sul finale, è Antonio D’Isidoro, già docente di Letteratura italiana contemporanea all’università di Macerata e si rivolge a Michelle Marafini, laureanda in Filosofia presso la medesima università e a me, Giorgio Tabani, docente di Storia e filosofia e giornalista; mentre Marisa è l’artista e docente Marisa Korzeniecki.

Con la Rete degli Studenti Medi abbiamo introdotto il pomeriggio: “La memoria non è un rito, è una responsabilità. Ricordare la Shoah significa riconoscere i segnali dell’odio ovunque si ripresentino, anche oggi, anche ora. Se la storia ci insegna qualcosa, è che il silenzio è complicità: dire ‘mai più’ non basta, dobbiamo avere il coraggio di non essere indifferenti. Che senso ha ricordare il passato, se chiudiamo gli occhi davanti alle ingiustizie del presente? La scuola ci insegna che la conoscenza è libertà. Sta a noi usarla per prendere posizione, per denunciare, per resistere all’oblio”.

La bravissima (e apprezzata) Grazia Giovannozzi ha poi aperto con la lettura del testo di Furio Colombo che ha accompagnato la legge a sua proposta che ha istituito il Giorno della Memoria. Ed è tornata poi leggendo estratti di Primo Levi, Liliana Segre e poesie delle internate di Ravensbruck.

Grazia Giovannozzi

La tentazione dell’oblio (Antonio D’Isidoro)

“Non siamo nulla in assoluto, siamo ciò che ricordiamo di essere stati. Siamo, insomma, memorie personificate.” Così scriveva il sociologo Franco Ferrarotti, e mai come oggi queste parole suonano urgenti. Viviamo in un’epoca che ha scelto la velocità e l’amnesia, che appiattisce tutto sul presente e dimentica la lezione del passato. Ma un’umanità senza storia è impensabile. Distruggere la memoria di un popolo significa cancellarne l’identità, negarne l’esistenza.

Se la memoria è il fondamento della coscienza collettiva, la scuola ne è la custode. Eppure, assistiamo a una desertificazione culturale: biblioteche vuote, archivi dimenticati, ricerche trascurate. E mentre ci stordiamo con il rumore di un mondo senza direzione, perdiamo il legame con la nostra storia. Come può un’epoca che ha proclamato la fine della storia – come voleva Fukuyama – comprendere ciò che accade oggi?

Nel maggio 1990, a Carpentras, un cimitero ebraico venne profanato: 34 tombe distrutte, un cadavere impalato. L’Europa intera inorridì. Si capì che non era solo vandalismo, ma il ritorno di una tragedia che si credeva sepolta. E oggi? Oggi vediamo segni simili ovunque, e troppo spesso li archiviamo come episodi isolati. Ma la memoria non è solo ricordo: è strumento per leggere il presente e riconoscerne i pericoli.

Nietzsche metteva in guardia contro il rischio di un’ipertrofia della memoria, del vivere schiacciati dal passato. È vero: ricordare non significa restare immobili. Ma oggi il problema è il contrario. L’oblio è diventato una strategia: chi preferisce non guardare negli occhi il proprio passato spera di cancellarlo come un brutto sogno.

“L’oblio è il vero pericolo. Ricordare è un imperativo morale, non solo per gli ebrei. I campi di sterminio nazisti sono il grado zero dello sviluppo morale dell’umanità, dal quale è necessario ripartire”.

Ma il rischio non è solo dimenticare: è lasciare spazio all’odio. Oggi vediamo una società sempre più frammentata, dove il linguaggio dell’odio è entrato potentemente nella scena pubblica e internazionale. Il nemico viene costruito, la paura alimentata, il rancore normalizzato. E i social network diventano il detonatore di intolleranza, amplificando insulti, stereotipi, stigmatizzazioni contro individui e intere comunità. La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) ha evidenziato come la diffusione di discorsi d’odio – la denigrazione, l’incitamento alla violenza, le discriminazioni basate su razza, religione, orientamento sessuale – stia erodendo le basi stesse della democrazia.

“Il modo migliore per salvare la democrazia è eliminare finalmente l’idea del nemico”. Ma oggi non vediamo un movimento internazionale forte che porti avanti questo ideale. Anzi, il nazionalismo, la chiusura identitaria e la polarizzazione stanno occupando sempre più spazio. Il rischio è farci risucchiare in una cultura dell’odio e del nemico, una cultura che ci separa, ci mette gli uni contro gli altri.

Eppure, il passato ci insegna che esiste un altro modo. Václav Havel e i dissidenti della Carta 77 sfidarono il totalitarismo non con la violenza, ma con la forza del dialogo e del pensiero critico. Rivendicarono il diritto alla pluralità, al confronto, alla libertà di parola come strumenti di resistenza contro ogni forma di oppressione. Oggi, più che mai, dobbiamo farci portatori di questo spirito.

“Prima vennero per gli ebrei e non dissi nulla, perché non ero ebreo… Poi vennero per me. E non c’era più nessuno a protestare”. Questa celebre riflessione del pastore Martin Niemöller ci ricorda che il vero problema non è solo chi odia, ma chi resta in silenzio. L’indifferenza è il terreno su cui si costruiscono le peggiori tragedie. Per Gramsci, l’indifferenza è il peso morto della storia. Per Čechov, è l’ottavo vizio capitale. Per Papa Francesco, è l’inizio della disumanizzazione. E se oggi l’antisemitismo e il razzismo stanno crescendo, è perché molti scelgono di guardare altrove.

La memoria non è nostalgia. Non è una lastra fotografica da contemplare con rimpianto. È un processo attivo, un impegno quotidiano. Significa leggere il presente alla luce del passato, prendere posizione, rifiutare il silenzio.

Zagrebelsky scriveva: “Impariamo la democrazia, abbiamo cura delle parole, dialoghiamo realmente. Oggi la democrazia è fragile e indifesa, mentre il linguaggio dell’odio si rafforza. Non possiamo restare spettatori.

La storia non è solo il racconto delle guerre e delle conquiste, ma il filo che lega la nostra umanità. Senza memoria, ci trasformiamo in polvere, frammenti senza coerenza, come scriveva Eugenio Scalfari: “Se la memoria si spappola, anche la nostra identità sprofonda in un vuoto senza ritorno”.

L’oblio è una scorciatoia. Ma ricordare è una scelta, e una scelta necessaria. Perché senza memoria, il “mai più” diventa solo un’illusione.

L’arte davanti alla Shoah: immagini contro l’oblio (Marisa Korzeniecki)

“Sono stata invitata a parlare di quanto la Shoah abbia toccato le corde più profonde degli artisti.” Ma l’arte non è solo emozione, è memoria incisa nel colore e nella materia, è un grido che rifiuta il silenzio. Davanti all’orrore dello sterminio, gli artisti hanno dipinto, scolpito, impresso su tela e pietra il marchio di un crimine che non può essere dimenticato.
La parola Shoah significa “tempesta devastante”. Un vortice di morte che ha inghiottito milioni di vite. Se la storia scrive sui libri, l’arte imprime nella coscienza. È nata così una pittura della memoria, un atto di resistenza contro l’oblio.

Marc Chagall, con la Crocifissione in giallo (1942), trasforma la sofferenza ebraica in un’apocalisse cromatica: case in fiamme, volti blu di disperazione, Cristo con il tallit che diventa simbolo del martirio di un popolo.
Più spietato è Felix Nussbaum, che pochi mesi prima della deportazione ad Auschwitz dipinge Autoritratto con carta d’identità ebraica (1943). Lo sguardo di chi sa di essere già morto, la mano che stringe il documento della propria condanna, il muro chiuso alle spalle.
E poi c’è Charlotte Salomon, che con Vita? O Teatro? crea 1325 dipinti in cui intreccia immagini e testi per raccontare la sua storia. Un’opera monumentale, interrotta dalla deportazione: Auschwitz la inghiottirà a 26 anni, incinta.

In Italia, Renato Guttuso racconta la brutalità dell’occupazione nazista. Colpo di grazia (1944) è un’esecuzione in diretta: un soldato tedesco punta la pistola alla nuca di un partigiano inginocchiato. Occhi chiusi, vita finita. Nessun simbolo, solo la violenza nuda.
Dopo un viaggio in Polonia nel 1948, Giulio Turcato dipinge Le rovine di Varsavia, una serie di tele astratte in cui la distruzione diventa forma e colore. Non ci sono corpi, ma la città stessa è un campo di sterminio.
Anche Pablo Picasso lascia il suo segno. Dopo Guernica, il Carnaio (1945) racconta le fosse comuni dei lager: corpi ammassati, il bianco e nero della morte. Paul Éluard definì il quadro “innominabile”: l’orrore reso visibile.

Ma il nazismo non sterminò solo persone: cercò di uccidere anche l’arte. Per Hitler, l’Espressionismo, l’Astrattismo, come ogni forma di sperimentazione, erano “degenerati”: minacce alla purezza ariana. Nel 1937, a Monaco, organizzò una mostra per ridicolizzare artisti come Kandinsky, Klee, Picasso. Voleva cancellarli. Oggi le loro opere sono nei musei. Quelle dell’arte nazista, invece, giacciono dimenticate.

La Shoah nell’arte non è solo ricordo. È sfida. È monito. AleXsandro Palombo, nei suoi murales a Milano, trasforma Edith Bruck, Liliana Segre e Sami Modiano in personaggi dei Simpson, per avvicinare i giovani alla memoria.

L’arte non consola. Ma ci costringe a guardare. Perché finché esisterà un dipinto, una scultura, un graffito che racconta la Shoah, il silenzio non vincerà mai.

Dopo l’Olocausto: la filosofia davanti all’orrore (Michelle Marafini)

“Dopo Auschwitz scrivere una poesia è barbaro.” Così sentenziava Theodor Adorno, mettendo a nudo una ferita ancora aperta: come è stato possibile, nel cuore della civiltà europea, che l’Olocausto accadesse? La filosofia non è rimasta in silenzio davanti a questa domanda. Adorno, Hannah Arendt, Emmanuel Lévinas e Hans Jonas hanno cercato di rispondere, scavando nelle radici del male e nella responsabilità che ne deriva.

Adorno vede l’Olocausto come il frutto avvelenato della modernità. La razionalità strumentale, che avrebbe dovuto emancipare l’uomo, si è trasformata in un ingranaggio di morte. Non è un fallimento della civiltà, ma il suo lato oscuro: lo stesso pensiero che ha portato al progresso scientifico ha reso possibile la logica burocratica dello sterminio.

Hannah Arendt, con la sua teoria della banalità del male, ha mostrato che il male non è sempre il prodotto di mostri, ma può essere perpetrato da uomini comuni, incapaci di pensare. Eichmann, l’organizzatore della deportazione degli ebrei, non odiava le sue vittime: eseguiva ordini, senza interrogarsi sulle conseguenze. Il nazismo ha trionfato anche perché ha creato un sistema in cui non c’era più spazio per il pensiero critico.

Lévinas propone una tesi radicale. Per lui, la radice della violenza sta nel vedere l’altro come un oggetto da dominare. Il nazismo ha cancellato i volti delle vittime, riducendole a numeri. Eppure, proprio il volto dell’altro è il punto di partenza dell’etica. “Tu non ucciderai”, dice il volto di chi ci sta davanti. Non è una legge scritta, ma un richiamo immediato e ineludibile. L’altro non è un ingranaggio nella nostra comprensione del mondo, è un infinito che ci interpella. Egli ribalta così tutta la tradizione filosofica occidentale, da Kant a Hegel, che aveva posto al centro il soggetto pensante e la razionalità. Dopo Auschwitz, la filosofia deve ripartire dall’etica, dalla responsabilità incondizionata verso l’altro. Essere umani significa rispondere all’altro, anche prima di scegliere di farlo.

Hans Jonas amplia questa riflessione con il suo principio responsabilità. Se l’Olocausto ha mostrato cosa accade quando la tecnica e il potere non sono guidati dall’etica, la sfida del futuro è impedire che si ripeta. Jonas vede nell’uomo una responsabilità verso le generazioni future: la tecnologia, la politica, la scienza devono essere guidate da un’etica del limite, che protegga la vita invece di distruggerla. Il suo monito è chiaro: agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza della vita sulla Terra.

Oggi, la lezione di Lévinas e Jonas è più urgente che mai. Riconoscere il volto dell’altro e assumersi la responsabilità delle nostre azioni è l’unico antidoto alla disumanizzazione. Perché la responsabilità non è un’opzione: è ciò che ci rende umani.

Ravensbrück, il Lager delle donne (Giorgio Tabani)

“Nuda e tremante, mi riconosci?
Non ti do la mano perché non è più la mia”.
Maria Rutkowska, sopravvissuta

A Ravensbrück, il corpo delle donne era il primo campo di battaglia. Spogliato, umiliato, ridotto a numero. Le prigioniere non avevano più un nome, ma un triangolo cucito addosso: rosso per le politiche, giallo per le ebree, nero per le “asociali”, rosa per le omosessuali. Quel corpo, considerato dal nazismo una minaccia se emancipato e un oggetto se piegato, divenne bersaglio di esperimenti medici: sterilizzazioni forzate, mutilazioni, aborti imposti. Le donne che partorivano erano costrette a uccidere i loro stessi figli, ad esempio annegandoli in una tinozza d’acqua.

E poi c’erano i bordelli dei campi, dove centinaia di donne venivano mandate “a disposizione” dei prigionieri uomini come incentivo alla produttività (e vaccino all’omosessualità). Promesse di libertà che non venivano mai mantenute, corpi sfruttati e poi gettati via, spesso eliminati quando troppo debilitati per “servire”. Dopo la guerra, queste donne furono dimenticate: dagli uomini che non vollero raccontare,  dalla storia che non le incluse nel ricordo e dalla politica che non se ne fece carico per aiutarle.

Ma anche nell’inferno, il fuoco della resistenza non si spense. Non solo nei gesti di sabotaggio – divise tedesche cucite male, fili spezzati, numeri di matricola scambiati per sottrarre compagne agli esperimenti –, ma anche in atti più invisibili ma potentissimi. Natale 1944: un gruppo di prigioniere organizza la distribuzione di doni per i bambini sopravvissuti. Con niente tra le mani, creano bambole di stracci, palloni cuciti a mano, piccoli giocattoli improvvisati. Un gesto inutile per chi crede che il Lager fosse solo annientamento. Ma per chi è dentro, è tutto: un atto di ribellione all’orrore, un ultimo brandello di umanità strappato alla morte. E poi c’erano le canzoni, le poesie, l’arte, persino la politica del futuro, in generale la scrittura e la riflessione.

Ravensbrück fu liberato il 30 aprile 1945, ma per molte sopravvissute l’inferno non finì lì. Le ex ufficiali sovietiche furono mandate nei gulag, le schiave sessuali tacquero per la vergogna, le “asociali” non ricevettero aiuti. A lungo nessuno volle ricordare. “Le cose delle donne non interessano agli uomini,” disse Lidia Beccaria Rolfi, una sopravvissuta.

Oggi, sulle rive del lago Schwedt, si riflette l’immagine di Tragende, una statua che ritrae una donna che porta tra le braccia un’altra, ormai senza forze. È il simbolo di Ravensbrück. Non solo un campo di morte, ma un luogo in cui, contro ogni logica, la resistenza continuò fino all’ultimo respiro.

E che sia solo un arrivederci con le forze culturali della città per costruire insieme qualcosa, fuori dagli steccati e dagli orticelli di ciascuno.

(QUI avevamo lanciato l’evento)

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