“Mario Capanna è un politico, scrittore e attivista italiano“. Verissimo, ma è un po’ troppo asettica come biografia. Io, appena vedo il suo nome, nel contesto della rassegna “Parliamone! Incontri con autori ed editori”, stento a crederci! Potrei finalmente vedere uno degli storici leader del Sessantotto (e poi parlamentare, europarlamentare, segretario e coordinatore di Democrazia Proletaria). La sala si riempie, partecipa, ascolta con attenzione… anche se mancano i più giovani. Eppure, proprio verso di loro è rivolto maggiormente il suo impegno. A 80 anni, il suo vigore è formidabile, così come è inesausta la voglia di dare il suo contributo al dibattito e all’azione. Il suo stile è tribunizio, ma al contempo pacato e gentile. Si alza e viene più volte verso il pubblico.
Siamo a Grottammare, è estate, e mentre molti stazionano boccheggianti sul lungomare, ma è nella Sala Kursaal l’evento da non mancare, a cura di Blow Up e Nave Cervo: si presenta il libro ”Palestina-Israele. Il lungo inganno” scritto da Capanna insieme a Luciano Neri, analista geopolitico e Presidente del CENRI- Centro Relazioni Internazionali. Al centro della discussione, una delle questioni più drammatiche della contemporaneità: l’apparentemente irresolubile conflitto israelo-palestinese, la sua narrazione distorta e le prospettive per una pace giusta e duratura.

Il libro di Capanna e Neri smonta sistematicamente le grandi menzogne che hanno plasmato la percezione occidentale della questione. “Noi siamo la maggioranza, stragrande, contro le armi” afferma Neri nel corso dell’incontro, sottolineando come la lotta per la pace sia un dovere morale e politico. Una delle prime falsificazioni storiche analizzate riguarda il mito della “Terra Promessa”: Israele ha costruito la propria legittimità sull’idea che Dio abbia concesso quella terra al popolo ebraico, e che dunque essa non sia cedibile. Tuttavia, come dimostrano gli stessi archeologi israeliani, non esiste alcuna prova storica dell’esistenza di un “Grande Israele” millenario, né del mitico tempio di Gerusalemme nel 1000 a.C. A dispetto di questa narrazione, la Palestina di inizio Novecento non era una “terra senza popolo”: era una società avanzata, con un alto tasso di alfabetizzazione e infrastrutture moderne, ben lontana dall’immagine arcaica diffusa dalla propaganda sionista. Le donne, ad esempio, non usavano il velo, e la vita pubblica era segnata da un grado di modernità impensabile rispetto allo stereotipo occidentale. Ma con l’arrivo del sionismo arrivò anche il terrorismo: attentati, sabotaggi e violenze segnarono l’inizio di un’escalation che continua ancora oggi.
“I palestinesi non hanno mai potuto dire di sì, perché Israele non ha mai voluto discutere della mappa“. Capanna denuncia così l’inganno dietro i cosiddetti “processi di pace“, che non hanno mai realmente mirato alla creazione di uno Stato palestinese sovrano. Israele, sin dalla sua fondazione, ha perseguito una politica di occupazione sistematica, mantenendo uno “stato di guerra permanente” per impedire qualsiasi discussione sui confini. L’idea di un Grande Israele non è un mito superato, ma una strategia in corso, rafforzata dal continuo sostegno dell’Occidente. Israele ha deliberatamente reso impossibile la creazione di uno Stato palestinese, imponendo un regime di apartheid all’interno e facendo di Gaza una prigione a cielo aperto prima e teatro di una strage poi. Non a caso, Israele detiene il record di violazioni delle risoluzioni ONU, sistematicamente ignorate grazie al veto statunitense.

Una delle critiche più forti mosse nel libro e riprese nel dibattito riguarda la complicità dell’informazione occidentale. “Comunità internazionale” è un termine che sentiamo ripetere ogni sera nei telegiornali, ma cosa significa davvero? Nulla, se non la maschera dietro cui si nascondono le potenze occidentali. L’ipocrisia del linguaggio mediatico, l’analfabetismo politico di molti giornalisti che si intervistano a vicenda ripetendo le stesse formule vuote, contribuiscono alla manipolazione del dibattito pubblico. I giornalisti occidentali si rifugiano in una retorica artefatta, costruita su parole come ‘diritto di difesa’, mentre evitano di nominare il colonialismo e l’occupazione.
Il libro di Capanna e Neri pone domande scomode: Israele ha sempre dichiarato di combattere Hamas, ma non è forse vero che lo ha finanziato in passato per indebolire l’OLP e frammentare la resistenza palestinese? La previsione di Arafat, riportata nel libro, è quanto mai attuale: “Dopo di noi ci sarà l’islamofascismo, con l’equivalente dall’altra parte dell’ebrofascismo“. In effetti, la radicalizzazione del conflitto ha prodotto due estremismi speculari, alimentati da decenni di violenza e disperazione. Israele ha raso al suolo Gaza, ha usato la fame e la sete come armi, ha colpito scuole, ospedali, giornalisti. “Che farà un bambino palestinese che è sopravvissuto a tutto questo?” si chiede Capanna. La risposta è una tragedia nella tragedia: la moltiplicazione dell’odio. Chi ha perso tutto, crescerà senza nulla da perdere. E il ciclo della violenza si autoalimenta.

Capanna e Neri non si sono limitati a un’analisi teorica: hanno viaggiato più volte in Palestina e Israele, incontrando pacifisti israeliani, attivisti palestinesi, rifugiati e leader di organizzazioni non governative. Hanno attraversato i campi profughi, ascoltato le testimonianze di chi ha vissuto sulla propria pelle l’occupazione e la repressione, dando voce a chi spesso viene cancellato dalla narrazione ufficiale. Tra le figure più importanti incontrate spicca Uri Avnery, ex comandante militare e poi storico pacifista israeliano, fondatore del movimento Gush Shalom, che ha dedicato la sua vita alla lotta per una pace giusta tra israeliani e palestinesi.
Eppure, la storia insegna che nessun regime di apartheid può sopravvivere per sempre. Guardiamo al Sudafrica: fu l’isolamento internazionale a far crollare il sistema dell’apartheid. Anche per la Palestina l’unica via è un’azione globale di boicottaggio e pressione diplomatica. Qui entra in gioco la responsabilità dell’Italia, paese strategicamente nel Mediterraneo che non può rimanere passivo. “Dobbiamo contagiare alla solidarietà per la resistenza palestinese e spronare il governo italiano, finora appiattito sulle posizioni americane“. L’Italia ha la possibilità di essere un ponte tra i popoli, di agire con un ruolo indipendente, anziché seguire le direttive di Washington e Tel Aviv. Contagiare alla solidarietà significa far crescere una coscienza collettiva, rompere il silenzio complice e costruire una mobilitazione dal basso che possa incidere nelle scelte politiche nazionali e internazionali.

“Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva“, scriveva Hölderlin, ed è questo il filo conduttore del libro. L’ingiustizia e la repressione possono generare nuova consapevolezza e azione politica. Capanna e Neri invocano una “nuova Helsinki”, ovvero un nuovo quadro diplomatico globale, un impegno concreto per il riconoscimento dei diritti palestinesi, un’azione internazionale che costringa Israele al rispetto del diritto internazionale. Proprio come gli accordi di Helsinki del 1975 sancirono il principio dell’inviolabilità dei confini e la tutela dei diritti umani, oggi serve un’iniziativa che garantisca giustizia e pace. Per Primo Levi il baricentro dell’ebraismo non era Israele, ma la diaspora, cioè quella storia dell’ebraismo che per lui si sostanziava non solo per le persecuzioni ma anche per “la sua storia di scambi e di rapporti interetnici, una straordinaria scuola di tolleranza. La cultura principale dell’ebraismo – sosteneva Levi – è preservata altrove, non in Israele”.
“La storia avanza per minoranze coscienziose, attive, combattive“. È a loro che dobbiamo guardare per costruire un futuro di convivenza, giustizia e pace. Non basta essere spettatori indignati: serve un’azione concreta, un impegno costante per spezzare il ciclo della violenza e aprire la strada alla pace vera.

