Jennifer Guerra, Carlotta Vagnoli, Marianna the Influenza: voci che non chiedono il permesso ad Ascoli Piceno

304 visualizzazioni
10 minuti di lettura

Leggo distrattamente la newsletter di On the Road, la cooperativa sociale che lavora fra Marche, Abruzzo e Molise su progetti dedicati al sostegno di donne, uomini e persone transgender, sia adultɜ che minori, in condizioni di elevata vulnerabilità perché vittime di violenze, discriminazioni ed emarginazione sociale.
JENNIFER GUERRA.
Non ci credo, “il progetto ’STRADE – Territori che creano nuovi spazi di comunità’ approda ad Ascoli Piceno il 9 e 10 aprile per chiudere le celebrazioni dei loro trent’anni di attività: giovedì, a partire dalle ore 9, si terrà al Teatro Filarmonici il convegno ‘STRADE’, dove interverranno numerosi ospiti di rilievo”. E fra questi, c’è proprio lei. Giornalista professionista, classe 1995, ha scritto per L’Espresso, 7, La Stampa, Fanpage e The Vision, dove ha lavorato come redattrice ed è proprio lì che ho iniziato a leggerla, complice il fatto che ci lavorava anche una mia cara amica, tutti e tre -peraltro- a muovere i primi passi nel mondo del giornalismo. L’articolo che mandavo a tutti, allora, per capire di che pasta era fatta la sua penna formidabile è questo: “Una storia naturale dei tuoi peli” del 2019. Oggi, molto attiva -anche nelle scuole- su tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+, è autrice di interessanti saggi: Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (Edizioni Tlon, 2020), Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (Bompiani, 2021), di cui ho scritto QUIUn’altra donna (UTET, 2023), Il femminismo non è un brand (Einaudi, 2024).
Ma non si tratta dell’unico ospite da non perdere, per quanto mi riguarda, c’è anche Carlotta Vagnoli classe 1987, fiorentina, è scrittrice, autrice e speaker radiofonica. Sensibilizza il pubblico sul tema della violenza e la stereotipizzazione di genere, tramite i suoi profili social e con corsi di formazione nelle scuole superiori. L’ultimo libro pubblicato è Memoria delle mie puttane allegre (2022, Marsilio). Dal 2022 è speaker per Il mondo nuovo di Rai Radio 1 e conduttrice del format Basement Café su YouTube.
Infine, c’è una conoscenza del nostro territorio, è nata infatti a Monteprandone (che abbiamo incontro già QUI): Marianna Kalonda Okassaka, trentenne – nome d’arte: Marianna the Influenza –, italiana di seconda generazione, figlia di genitori congolesi, lavora come social media manager. Sul suo profilo Instagram, 33.400 follower, pubblica contenuti su antirazzismo, femminismo, diritti Lgbt, grassofobia. Se ne occupa da quando ha capito che la società aveva un problema con il peso e il colore del suo corpo. Le riflessioni le ha raccolte in un libro – Nera con forme. Storia di un corpo grasso – che è un racconto autobiografico, sarcastico e pungente, in cui narra episodi di razzismo e discriminazioni subite per il suo aspetto ma anche il difficile percorso di accettazione di sé, e della battaglia per decostruire stereotipi e contrastare pregiudizi.

Gli interventi delle relatrici hanno offerto prospettive diverse ma profondamente intrecciate. Ecco cosa è emerso.

Intervenendo, Carlotta Vagnoli ha messo in discussione la gerarchizzazione dei diritti, denunciando come spesso vengano difesi solo se riferiti a specifiche categorie, svuotando così di senso il concetto stesso di diritti umani universali. “I diritti o sono per tuttə o non sono”, ha affermato con decisione, ribadendo l’importanza di una visione intersezionale e inclusiva delle battaglie civili e femministe.
Ha quindi avviato una riflessione storica di lungo periodo, collocando l’attuale dibattito all’interno di una linea evolutiva che parte dal secolo dei Lumi e passa per l’Ottocento, per poi approdare al femminismo dell’uguaglianza fino alle battaglie del femminismo della differenza, che ci hanno portato a ottenere diritti fondamentali per i corpi femminili. Vagnoli ha ricordato con forza l’irruzione delle donne nel mondo produttivo, nelle fabbriche, nello spazio pubblico: “le donne iniziano a uscire di casa, anche quando non era consentito farlo, e questo ha cambiato tutto”.
Uno snodo centrale della sua riflessione è stata la legge 194, che garantisce l’accesso all’aborto: “una legge nata da un compromesso storico, importante ma imperfetta, che continua a dipendere dal governo in carica e dall’influenza di strutture religiose che dovrebbero restare fuori dalla politica”. Vagnoli ha denunciato la presenza di obiettori nei consultori pubblici, la difficoltà di accedere al diritto in molte regioni, e ha messo in luce come ancora oggi l’aborto venga associato a un’idea di colpa o peccato. “Quando un diritto non è garantito, la società civile si organizza: lo ha sempre fatto”, ha ribadito. Anche nei periodi meno progressisti, come quello feudale, le donne hanno trovato modi per autodeterminarsi: “si consigliavano a vicenda su come interrompere una gravidanza, su come ritardare il ciclo, o su come fingere verginità nella prima notte di nozze, perché la sopravvivenza dipendeva anche da questo”.
Infatti, “oggi, si dice che viviamo in un’epoca migliore, che certi diritti li abbiamo ottenuti” . Eppure, “quando si parla di rivendicazioni transfemministe – e tengo a dire che transfemminismo non è una parolaccia – ci viene detto: Ma cosa volete di più? L’uguaglianza sulla carta c’è!. Sì, ma nella pratica no”. E, infatti, “ci vorranno 135 anni per colmare il divario di genere in una società patriarcale e capitalista. I dati sulla violenza di genere parlano chiaro. Si torna a discutere di consenso, ma il nostro codice penale lascia ancora troppi dubbi. La legge spagnola, al contrario, definisce chiaramente cosa sia un consenso esplicito: è una legge di civiltà. I diritti delle donne stanno bene? No. Non stanno bene e non lo sono mai stati davvero. Oggi ci troviamo ancora a doverli rivendicare, nel 2025, quando non dovrebbe più essere necessario. Ogni passo avanti sembra portarne tre indietro. Ma abbiamo gli strumenti, abbiamo la storia, abbiamo la memoria: sappiamo come organizzarci, come difendere i diritti già ottenuti e come conquistarne di nuovi.

In un altro intervento, Vagnoli ha messo al centro l’empatia come strumento politico e sociale. Ha raccontato la propria esperienza diretta con donne vittime di violenza di genere, sottolineando la mancanza di empatia nei contesti familiari, scolastici, lavorativi. “La nostra è una società costruita sulle disuguaglianze e sui pregiudizi. Come possiamo pretendere che sia empatica?”.
Ha lanciato un appello forte: inserire l’educazione all’affettività e all’empatia nei programmi scolastici. “Serve una rivoluzione culturale. Non possiamo più rimandare”. E ha aggiunto: “Ogni giorno incontro ragazze che si sentono sole, inascoltate, convinte di valere meno. È lì che bisogna lavorare”. Secondo Vagnoli, l’empatia deve essere coltivata come valore sociale: “È attraverso l’empatia che possiamo includere davvero anche le battaglie degli altri nelle nostre”.

Jennifer Guerra ha esordito con una riflessione tanto semplice quanto necessaria: “Io credo che ci sia ancora molto che non va nel modo in cui comunichiamo, in particolare quando trattiamo i temi della violenza di genere”. Ha riconosciuto che negli ultimi anni si è sviluppata una maggiore consapevolezza rispetto al fenomeno, ma ha anche sottolineato come “facciamo ancora fatica a trovare strumenti efficaci per contrastarlo, soprattutto nella narrazione”. Il problema non è solo quantitativo ma profondamente qualitativo: anche quando si parla di violenza, lo si fa spesso in maniera distorta, sensazionalistica, o addirittura romantica.
“Ogni volta che leggiamo ‘uccisa dall’uomo che amava’, stiamo dicendo che l’amore può contenere violenza. Ed è inaccettabile”, ha detto, criticando quella retorica narrativa che finisce per normalizzare o estetizzare il femminicidio. A questo proposito, ha richiamato l’importanza del Manifesto di Venezia, un protocollo deontologico rivolto ai giornalisti che fornisce indicazioni chiare su come trattare i temi legati alla violenza e alle questioni di genere: “Gli strumenti ci sono, ma non vengono usati. Preferiamo rimanere nella comfort zone della tragedia narrata come fatto isolato”.
Ma non è solo questione di linguaggio. Guerra ha insistito anche sulla sostanza: “Dobbiamo chiederci quando e come parliamo delle donne nei media”. I numeri sono impietosi: “Solo una notizia su quattro ha come soggetto una donna. E nel 20% dei casi quella donna è una vittima. Gli uomini sono vittime solo nel 4% dei casi”. Ciò produce una rappresentazione parziale e distorta: “Le donne esistono solo nel momento in cui subiscono”. Quando non sono vittime, sono eccezioni: madri esemplari, professioniste geniali, donne ‘speciali’. “Ma raramente vediamo rappresentato il ruolo quotidiano e reale che le donne ricoprono nella società”.

Un altro punto critico riguarda il ruolo delle donne come fonti esperte. Guerra ha fatto notare che nei contesti informativi rilevanti – elezioni, crisi, analisi geopolitiche – “le donne vengono interpellate come ‘opinione popolare’, quasi mai come voci competenti”. Questo non solo esclude prospettive fondamentali, ma alimenta una narrazione che perpetua l’irrilevanza della voce femminile.

Nel secondo intervento, Guerra ha affrontato con decisione il nodo del potere: chi ha accesso alla parola pubblica? Chi stabilisce cosa merita attenzione? “Non basta superare gli stereotipi e cambiare le parole: bisogna guardare chi fa l’informazione, com’è composto il sistema”, ha detto. E qui i numeri parlano chiaro. Sebbene le giornaliste rappresentino circa il 42% degli iscritti all’albo, la loro presenza ai vertici è residuale: “Tra i direttori dei quotidiani nazionali c’è una sola donna, Agnese Pini. I grandi commentatori sono ancora tutti uomini, bianchi, sopra i sessant’anni”. Guerra ha raccontato di aver monitorato per un mese gli editoriali di Corriere e Repubblica, senza trovare “nemmeno una firma femminile”. L’età media degli editorialisti? 62 anni. “Quindi: non solo pochi giovani, ma pochissime donne, pochissime voci diverse”.
La situazione è ancora più grave per le giornaliste freelance, categoria a cui lei stessa appartiene: “Il lavoro freelance offre forse più libertà, ma pochissimo potere contrattuale o decisionale. E spesso non è nemmeno una scelta, ma una necessità”.


Ha denunciato con forza il gender pay gap, la precarietà, lo sfruttamento, e le molestie, spesso ignorate o minimizzate: “Meno potere hai, più sei vulnerabile. E più sei vulnerabile, meno riesci a parlare”. Un circolo vizioso che non riguarda solo le donne, ma tutte le voci marginalizzate: “La comunità LGBT+ è presente nei telegiornali solo nello 0,3% delle notizie. E le firme di giornalisti razzializzati sono rarissime”.
Eppure qualcosa si muove. “Se oggi parliamo di queste cose, è grazie alle giornaliste che hanno rotto il silenzio. Rompendo le scatole, sì. Ma serviva”. Ha concluso con un monito ironico ma carico di verità: “Se c’è una categoria che fa fatica ad accettare critiche, è proprio quella dei giornalisti. Ma è anche così che si ottiene il cambiamento: rompendo le scatole”.

Si chiama ‘Colory’, senza articolo. Non ‘i Colory’. Perché vogliamo decidere noi come raccontarci“. Così ha esordito sul palco Marianna the influenza, responsabile della community digitale Colory, una piattaforma nata per ridare voce e potere narrativo alle persone razzializzate in Italia. E l’identità del progetto, già dal nome, è una dichiarazione d’intenti: “trasformare la narrazione”. Perché in Italia, ha spiegato, quando si parla di diversità etnico-razziale lo fanno spesso “tavoli pieni di uomini bianchi, di una certa età“, e il racconto finisce per oscillare tra “politicizzazione” e “allarmismo”. Mai, quasi mai, si parla di valore.
Uno dei punti centrali del suo intervento è stato il rifiuto della logica assimilazionista ancora dominante: “Il modello d’integrazione in Italia è unilaterale: per essere considerato ‘veramente italiano’ devi annullare tutto il resto. Non c’è spazio per l’emersione delle nostre identità multiple. Questo spesso genera rifiuto di sé e razzismo interiorizzato. Quante volte sentiamo frasi come ‘non voglio essere paragonato agli ultimi’, oppure vediamo persone razzializzate essere razziste verso altri gruppi razzializzati?”. Alla base c’è la questione sulla cittadinanza (di cui abbiamo parlato QUI), che “in Italia è ancora vista come identità, non come status giuridico. Ma lo è: la cittadinanza è un dato giuridico. L’identità, invece, è più ampia e stratificata”.
Cosa fare allora? “Ci raccontiamo. Raccontiamo noi stesse attraverso le nostre storie. Non ci limitiamo a parlare delle discriminazioni – che esistono, ovviamente – ma rivendichiamo anche la complessità delle nostre vite. In Italia il 5% della popolazione è di origine estera: non è un fenomeno esotico o americano, è qui.
Uno degli obiettivi principali è abbattere un soffitto di cristallo culturale. Perché quando c’è da organizzare un evento sull’economia, nessuno pensa che ci possa essere un economista rom, o nero, o asiatico. Magari se parliamo di matematica o informatica c’è lo stereotipo del ‘bravo asiatico’, ma se parliamo di razzismo… ecco, lì sì che veniamo chiamati. Spesso in una logica di ‘pornografia del dolore’
”.
Si riduce tutto al colore della pelle. “Ma noi siamo molto di più. Io, per esempio, sono una comunicatrice. Non sono solo una persona razzializzata a cui chiedere di raccontare il trauma. Sono qui con un vestito super elegante, certo, ma non sono qui per rappresentare la sofferenza. Voglio altro”.
I social media. “Quando siamo lì vediamo persone che non possono ancora permettersi di raccontarsi, di affermarsi, perché ancora devono lottare per la base. E allora il mio compito è anche questo: creare spazi digitali in cui queste storie possano emergere. Dove non si parli solo di trauma, ma di talento, competenze, sogni. Dove si possa dire: ‘Esisto. E non solo perché ho sofferto’”.
E arriviamo alle aziende. “Chi ci chiama? Beh… pochi. È difficile in un Paese che non riconosce nemmeno di avere un problema strutturale di razzismo. E ancora più difficile è far passare l’idea che serva un corso di formazione su questi temi. All’inizio andavamo in azienda dicendo: ‘Ehi, esiste il razzismo!’, ma il risultato era che ci rispondevano: ‘Ma io ho tanti amici neri!’ (classico). Quindi abbiamo capito che quell’approccio non funzionava. Abbiamo cambiato linguaggio: abbiamo iniziato a parlare in aziendalese. Abbiamo parlato di diversity come valore aggiunto. Un report del Boston Consulting Group del 2021 dice che il 78% dei consumatori preferisce acquistare da brand percepiti come inclusivi. E che il 25% del profitto in più lo fanno le aziende con team diversificati a livello decisionale. Ci siamo adattate a quel linguaggio perché vogliamo incidere. E vogliamo essere pronte al cambiamento inevitabile che sta arrivando: l’ingresso nel mercato del lavoro delle persone razzializzate non è solo giusto, è necessario. Anche per la sostenibilità dei servizi pubblici, banalmente”.
Perché, “se la matematica non è un’opinione, le persone non bianche nel mondo sono la maggioranza. E quindi, prima o poi, arriveremo lì. E potremo dire: “Ve l’avevamo detto”.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Previous Story

Le mani sulla città (stavolta dei marxisti)

Ultime da