“L’idea di un diritto alla città non è frutto di una fascinazione o di una moda intellettuale del momento. Nasce in primo luogo dalle strade, dai quartieri, come grido d’aiuto e richiesta di sostegno da parte di popoli oppressi che vivono tempi disperati”. Così scrive David Harvey in Città ribelli, e con questo spirito – più politico che accademico – mi piace aprire il racconto della serata al circolo Caciara. Divani e sedie vissuti, libri e riviste sparsi, bicchieri di birra mezzi vuoti – fra cui quello di Otello Palmini, research fellow al Trinity college di Dublino – e molte orecchie tese.
Non è una lezione, ma un attraversamento: di idee, autori, esperimenti politici. “Se con Silvestre Gristina (di cui abbiamo scritto QUI) avevamo affrontato alcuni concetti propriamente ‘marxiani’, oggi e nel prossimo incontro lavoreremo su autori e autrici che hanno sviluppato quegli stessi concetti in modo più ampio e, in certi casi, profondamente originale“.
Il punto di partenza è Henri Lefebvre, e ci muoveremo nell’ambito del marxismo urbano, una corrente ancora viva, tra sociologia, geografia, urbanistica e filosofia. Lefebvre è un autore centrale per questo discorso. Filosofo e sociologo francese, pubblica nel 1968 Le droit à la ville, tradotto come Il diritto alla città, che diventa una sorta di manifesto. Ovviamente ci sono testi più articolati come La production de l’espace (La produzione dello spazio), ma per chiarezza oggi lavoreremo su Il diritto alla città. Perché lui? Perché è il primo a tradurre davvero i concetti marxiani nello studio dello spazio urbano. È lui a fare da ponte tra Marx e l’urbanistica. E non lo fa da dogmatico: non si limita a ripetere Marx, ma lo interpreta alla luce dei cambiamenti storici e sociali del Novecento.
Uno dei concetti chiave è che la città, nel capitalismo, si espande fisicamente grazie all’industrializzazione: le fabbriche richiedono manodopera, la manodopera si sposta, e si costruiscono quartieri interi per ospitarla. Lefebvre riconosce il valore positivo dell’urbanizzazione, ma ne mette in luce la doppia faccia.
E qui entrano in gioco due concetti di Marx che Lefebvre riprende: valore d’uso e valore di scambio. Le città preindustriali, come la polis greca, erano spazi di relazioni, di produzione culturale e politica: erano città con un forte valore d’uso. Ma l’industrializzazione tende a trasformare tutto in valore di scambio: gli spazi si progettano per il profitto, non per la socialità. Le città diventano merci.

Il caso emblematico che Lefebvre analizza è quello della Parigi haussmanniana: dopo i moti del 1848, il prefetto della Senna Georges-Eugène Haussmann riorganizza Parigi con grandi boulevard, parchi, viali ampi. Sulla carta, un miglioramento. Ma tra i documenti emergono ordini precisi: “i viali devono essere larghi abbastanza da far passare due cannoni e impedire la costruzione di barricate”. L’urbanistica moderna nasce anche come dispositivo repressivo.
Ecco allora che la città si configura anche come strumento di potere. L’organizzazione dello spazio condiziona profondamente le possibilità di relazione e conflitto. “Se costruiamo quartieri dormitorio, isoliamo i lavoratori, ne impediamo l’autorganizzazione: li rendiamo meno ‘classe’ e più ‘massa’“. Come dice Lefebvre, lo spazio non è mai neutro.
Un altro punto fondamentale è il concetto di ordine remoto e ordine prossimo: la città nasce dall’intreccio tra forze esterne (lo Stato, l’economia globale, la tecnologia) e forze interne (le pratiche quotidiane, le reti sociali, le culture locali). La forma della città è la risultante di questo conflitto. Capire questa tensione ci permette di non vedere mai lo spazio urbano come una semplice “forma” o infrastruttura neutra, ma come il prodotto storico di forze diverse, spesso in contrasto. “È in questo scontro tra remoto e prossimo che si apre il margine d’azione per chi vuole immaginare un’altra città, non solo subirla”.

Si passa, velocemente, a un altro autore (e che autore!): Antonio Negri. Uno dei pochi filosofi italiani capaci di influenzare non solo il pensiero accademico, ma anche movimenti politici concreti, dai centri sociali italiani fino a Occupy Wall Street. Ha avuto il coraggio teorico di riscrivere i fondamenti del marxismo per adattarli all’era postfordista, digitale, cognitiva. In particolare, nel libro Comune, del 2009.
Quando un quartiere marginale si rigenera spontaneamente – attraverso l’iniziativa di abitanti, artisti, piccole attività, pratiche solidali – e diventa attrattivo, a dare valore a quello spazio non è stato il capitale, ma l’insieme di relazioni, affetti, conoscenze e sperimentazioni collettive. È questo che Negri chiama comune: un valore prodotto socialmente, senza pianificazione né investimento capitalistico.
Solo in un secondo momento, quando quel luogo comincia a “fare tendenza”, arriva il capitale, per catturare quel valore: compra, investe, rivende, spesso espellendo i soggetti che avevano generato il cambiamento. È un processo che oggi chiamiamo gentrificazione, e che Negri legge come un’operazione di espropriazione. Non più il capitale come forza produttiva, ma come macchina parassitaria.
Questa è, secondo lui, una trasformazione cruciale del capitalismo contemporaneo: se negli anni ’60-’70 il capitale industriale organizzava lo spazio per estrarre plusvalore dal lavoro salariato, oggi il capitalismo finanziario e tecnologico si muove per estrarre valore dalle relazioni sociali, dal tempo libero, dalle reti, dallo spazio urbano stesso. E riorganizza la città per renderla funzionale a questa cattura continua.

Ed è proprio a questo punto che, da un lato della sala, si leva una voce, con tono deciso: “Il capitale è sempre stato parassitario!“. Si cita Marx, anzi: il Marx del primo libro del Capitale, quello che distingue tra capitale industriale e forme precapitalistiche come la rendita fondiaria o il capitale commerciale.
Il pubblico ascolta. Palmini, con un sorriso, ribatte che la questione è proprio questa: capire come cambiano le forme del capitale e se le categorie di Marx sono ancora sufficienti a interpretarle, o se – come nel caso di Negri – sia necessario ridefinirle. Il vivo dibattito va avanti, viene ribadito: queste forme di accumulazione, come la rendita urbana, sono reazioni di ripiego nei momenti di crisi del capitale produttivo. “Sono subordinate, non centrali“, viene affermato.
Palmini riprende: “Il punto è che queste forme oggi non sono più semplicemente subordinate. Sono egemoni. E che i marxisti più fertili sono stati spesso quelli che, invece di ripetere Marx, hanno avuto il coraggio di contaminarlo“. Qualcuno dal pubblico propone: “Forse, più che una disputa tra ortodossia ed eresia, servirebbe uno spirito protestante: meno dogmi, più interpretazione“.
Palmini, col suo tono pacato, dà la sua chiusura: “Il marxismo non è un catechismo. È una pratica critica. E la città, oggi più che mai, ne è uno dei suoi laboratori più vivi“.
Arriva il momento delle domande.
Alla richiesta di capire quali siano le esperienze attuali che provano a costruire una città più “giusta”, Palmini cita senza nemmeno pensarci un attimo Barcellona, a seguito dell’esperienza di governo di Ada Colau, ex attivista del movimento per il diritto all’abitare (una che occupava case, sottolinea con un sorriso). Da sindaca ha imposto regole restrittive sull’uso turistico degli appartamenti attraverso Airbnb, ha avviato un percorso per la sovranità digitale urbana, e promosso Decidim, una piattaforma digitale open source per la partecipazione dei cittadini, fondata sull’idea che i dati urbani siano un bene comune. Decidim consente ai cittadini di proporre, discutere, votare e monitorare politiche pubbliche, bilanci partecipativi, regolamenti, piani urbanistici. Ogni passaggio è tracciabile e trasparente: un’infrastruttura digitale pensata per estendere la democrazia deliberativa, non solo per raccogliere opinioni.
Cita poi Napoli, sotto la guida di De Magistris, dove l’esperienza è stata meno centrata sul digitale ma significativa per la sua apertura ai movimenti, per le politiche sul patrimonio pubblico, per il protagonismo di realtà dal basso. Una città che ha provato, almeno in parte, a resistere alla logica dello sfruttamento commerciale dello spazio urbano.
Infine, Bologna, che da alcuni anni collabora proprio con Barcellona, su progetti legati ai digital twin (modelli digitali della città che replicano in tempo reale gli stati fisici e sociali urbani, utili per pianificare, simulare scenari, valutare impatti e prendere decisioni informate) e alla gestione pubblica dei dati. A fare la differenza, sottolinea Palmini, è qui la relativa continuità politica, che permette l’attuazione di politiche di lungo periodo, evitando le interruzioni e gli smantellamenti che troppo spesso colpiscono le esperienze innovative.

In un altro intervento viene chiesto se c’è speranza che il “comune” possa davvero prevalere sul valore di scambio. Palmini risponde con cautela: “Il comune non ha bisogno di vincere per esistere. Esiste nella misura in cui lo pratichiamo. Quello che possiamo fare è creare le condizioni perché sia praticabile. E ogni volta che ci riuniamo in uno spazio come questo del circolo Caciara, ogni volta che difendiamo uno spazio condiviso, ogni volta che costruiamo relazioni non mercificate, il comune prende forma“.
Palmini conclude con un’ultima riflessione: il capitalismo non ha mai smesso di riorganizzare lo spazio urbano. Oggi lo fa in modo nuovo, più pervasivo, attraverso logiche estrattive e tecnologiche. Ma anche oggi, come ieri, la città resta un campo di battaglia tra valore d’uso e valore di scambio. E, forse, un laboratorio per nuove forme di vita comune.
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