Il 25 aprile non è finito nel 1945: la Costituzione, le diseguaglianze e l’Europa nel pensiero di Enzo Di Salvatore

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foto di Andrea Vagnoni

Insegno storia. E questo, per me, significa assumersi una responsabilità che va ben oltre la trasmissione di qualche contenuto. Significa aiutare gli studenti e le studentesse a pensare in profondità il tempo in cui vivono, a riconoscere le tracce del passato nel presente, a interrogarsi sul futuro. Non si tratta semplicemente di insegnare date e nomi, né tantomeno di custodire un culto delle origini. Si tratta, piuttosto, di rendere viva la storia, di farne uno strumento di lettura critica del mondo. Come scriveva Benedetto Croce, “la storia è sempre storia contemporanea” – cioè interrogazione del passato alla luce delle domande che ci pone il presente.

Eppure oggi, troppo spesso, sostituiamo la memoria alla storia. Non sono la stessa cosa, ma rappresentano piuttosto due modi distinti di rapportarsi al passato. La storia è una disciplina scientifica, fatta di metodo, di fonti, di critica. Cerca di comprendere gli eventi nella loro complessità, di spiegare i contesti, di ricostruire i nessi causali con rigore e senza indulgere alla mitizzazione. Come scriveva Marc Bloch, “lo storico è come l’orco delle fiabe: là dove fiuta carne umana, sa che c’è qualcosa da capire”. È la realtà umana, nelle sue contraddizioni, che la storia cerca di interpretare. La memoria, invece, è un’altra cosa: è soggettiva, selettiva, spesso emotiva. Come ha dichiarato Alessandro Barbero: “la memoria è ciò che vogliamo ricordare, non ciò che è accaduto davvero”. È legata all’identità individuale o collettiva, e può essere deformata da traumi, miti, sentimenti, valori. Per Pierre Nora, “la memoria divide, la storia unisce”, o almeno avrebbe dovuto…

E così, da una sobria (cit.) consapevolezza del tempo che viviamo, è nata in noi di Ithaca l’idea di un altro dei nostri incontri pubblici (QUI il precedente), lo scorso 23 aprile 2025, per prepararci a celebrare – ma forse è meglio dire: ripensare – l’ottantesimo anniversario della Liberazione. Non volevamo organizzare una cerimonia, né ripetere stanche formule. Volevamo creare uno spazio di riflessione, di discussione aperta, capace di far emergere il senso attuale di quella storia. Perché la Resistenza non si conclude nel 1945. Continua. E ci riguarda.

In questo spirito abbiamo invitato il professor Enzo Di Salvatore, costituzionalista dell’università di Teramo, una voce autorevole, lucida e coerente per discutere del tema: “Dalla Resistenza alla Costituzione: l’Italia, l’Europa e l’unità incompiuta”. Lo abbiamo fatto perché oggi, più che mai, c’è bisogno di intellettuali che sappiano parlare con precisione ma anche con passione, che non si chiudano nell’accademia ma sappiano costruire ponti con la cittadinanza, con la scuola, con chi ogni giorno si confronta -anche dal basso- con la complessità del presente. Lo abbiamo fatto anche grazie all’impegno di chi ha reso possibile l’incontro come l’instancabile Daniela Albertini e il sostegno della Federazione Lavoratori della Conoscenza della CGIL e della Libreria Prosperi, nella splendida sala concessaci gratuitamente dal Comune di Ascoli.

Ho aperto la serata con un brano che per me ha sempre la funzione di monito. È di Primo Levi: “Se desideriamo che i nostri figli sentano queste cose, e pertanto si sentano nostri figli, dovremo parlare loro un po’ meno di gloria e di vittoria, di eroismo e di sacro suolo; e un po’ più di quella vita dura, rischiosa e ingrata, del logorio quotidiano, dei giorni di speranza e di disperazione, di quei nostri compagni morti accettando in silenzio il loro dovere, della partecipazione del popolo (ma non tutto), degli errori commessi e di quelli evitati, dell’esperienza cospirativa e militare faticosamente conquistata, attraverso sbagli che si pagavano a prezzo di vite umane, della laboriosa (e non spontanea, e non sempre perfetta) concordia fra formazioni di partiti diversi. […]  Solo così i giovani potranno sentire la nostra storia più recente come un tessuto di eventi umani e non come un ‘pensum”’ da addizionare ai molti altri dei programmi ministeriali”.

È in queste righe che si trova, forse, il senso più profondo della Resistenza: non come epopea, ma come vicenda difficile, piena di contraddizioni, di dubbi, di errori. E di eroismi. Proprio per questo, come dicevo anche rivolgendomi al folto pubblico accorso nonostante la piovosa serata infrasettimanale, capace di parlare alla nostra condizione presente. La Resistenza non è un monumento: è un laboratorio, un inizio. Non è solo un evento storico, ma una postura, una responsabilità individuale e collettiva.

Per questo ho detto che celebrare il 25 aprile oggi – e farlo all’ottantesimo anniversario – è un atto politico. Non un gesto neutro, non un tributo di circostanza. Ma una presa di posizione. Perché ogni società, ogni volta che rievoca il proprio passato, decide anche da che parte stare. E la parte della Resistenza è, allora come oggi, la parte di chi ha scelto la libertà quando era pericoloso farlo. La parte di chi ha disobbedito, di chi ha resistito all’indifferenza, di chi ha messo in discussione l’ordine imposto.

E allora la domanda è stata semplice ma cruciale: cosa significa oggi essere antifascisti?

Non basta, ho ricordato, limitarsi a dichiarazioni di principio. Non basta dire che Mussolini era un criminale. Questo non scuote più le coscienze. A molti non interessa affatto. Rendere l’antifascismo un rituale significa svuotarlo di senso. Ma se significa cittadinanza attiva, difesa della Costituzione, lotta contro le diseguaglianze, attenzione ai meccanismi dell’esclusione, allora è più necessario che mai. Perché oggi l’autoritarismo non ha più (solo) la faccia del manganello. Ma vesti più presentabili, educate, digitali.

La nostra Repubblica è nata sotto il segno dell’antifascismo, ma non ha mai davvero fatto i conti con tutte le sue eredità. Il fascismo storico è finito nel 1945, ma il neofascismo ha attraversato silenziosamente tutta la storia repubblicana: dai piani eversivi degli anni Sessanta ai depistaggi delle stragi, dalla strategia della tensione fino al consolidarsi di forze politiche che ancora oggi faticano a riconoscere il 25 aprile come festa nazionale condivisa.

Ho ricordato che la democrazia non è docilità, non è silenzio. È, per definizione, conflitto. È disordine, è pluralità di voci. Quando la democrazia diventa troppo tranquilla, quando non ha più paura di se stessa, allora significa che si è già trasformata in qualcos’altro. In una forma senza sostanza. A tutto vantaggio di un’oligarchia perennemente rifiorente.

Il passaggio alla tanto di moda “democrazia decidente”, che ha segnato gli ultimi decenni, ha coinciso – ho detto – con una ritirata dell’antifascismo. Quando anche le forze progressiste hanno iniziato a parlare solo di governabilità, dimenticando il ruolo fondamentale della rappresentanza, qualcosa si è incrinato. Il legame tra Resistenza e Costituzione si è allentato. E con esso, anche il legame tra istituzioni e società.

Oggi, come ieri, il pericolo maggiore è quello dell’accentramento del potere, della marginalizzazione del dissenso, della riduzione del cittadino a suddito, dell’esplosione delle disuguaglianze. L’antifascismo non è un’eredità da custodire, ma una pratica da rinnovare. Non è un passato da onorare, ma un presente da costruire.

Con questo spirito, ho passato la parola al professor Di Salvatore. E l’ho fatto con una convinzione precisa: che oggi, più che mai, abbiamo bisogno di rileggere la Costituzione come il frutto vivo della Resistenza, e non come un reperto archeologico. La Costituzione, se la prendiamo sul serio, è un progetto da attuare. Nella sua radicalità. E forse il compito più urgente per chi oggi fa storia, educazione, politica, è proprio questo: restituire alla Costituzione il suo carattere rivoluzionario. Farne un luogo di conflitto democratico, un programma di trasformazione sociale.

L’INTERVENTO DI ENZO DI SALVATORE

Nessun tono accademico, nessuna retorica. Solo un’esposizione lineare, ferma, densa. Il professore ha tenuto una sala attentissima fino alle 20 (non oltre per ragioni logistiche, altrimenti avremmo continuato!).

Ha iniziato da una premessa netta:
Quando si parla della Resistenza, spesso si tende a considerarla solo come una lotta armata contro l’occupazione nazista. Ma la Resistenza, in realtà, è qualcosa di molto più profondo. È una categoria che non può essere ridotta solo alla dimensione militare”.

Una frase che ha subito spostato il terreno della riflessione: la Resistenza non come fatto bellico, ma come trasformazione della società civile. Non solo azione contro il nemico, ma processo di emancipazione, presa di parola collettiva. “È questo l’aspetto più importante”, ha insistito, perché è da lì che nasce la Costituzione. Non da una trattativa, non da un compromesso, ma da un’esperienza concreta, condivisa, rischiosa, tragica e insieme fondativa.

La nostra Costituzione, ha detto, non è un testo astratto, non è un codice calato dall’alto, ma il prodotto di una volontà di cambiamento storico. Un testo che non si limita a riconoscere diritti, ma afferma che la Repubblica ha il compito attivo – e giuridicamente vincolante – di rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione di quei diritti.

A questo punto Di Salvatore ha enunciato a memoria l’art. 3:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Questa è la parte più nota. Ma – ha subito precisato – è la seconda parte dell’art. 3 a contenere la vera rivoluzione:
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

E su questo punto è stato chiarissimo:
Questa è l’idea trasformativa della Repubblica. Non basta riconoscere i diritti: bisogna costruire le condizioni perché possano essere esercitati. E questo richiede intervento pubblico, redistribuzione, giustizia sociale”.

La sua voce ha scandito con precisione le implicazioni: non è sufficiente avere il diritto all’istruzione, se non si ha un banco, un libro, una connessione internet, un contesto familiare che lo renda davvero esercitabile. Non è sufficiente avere il diritto alla salute, se si vive in una Regione in cui mancano i medici di base o le liste d’attesa rendono l’accesso impossibile. L’eguaglianza è un traguardo da costruire. E costruirla, ha detto Di Salvatore, è il compito della politica.

A questo punto, il professore ha allargato lo sguardo. Per capire davvero la Costituzione, ha spiegato, bisogna tornare non solo alla Resistenza armata, ma a un antifascismo precedente: quello giuridico, culturale, morale. Un antifascismo che ha preceduto la guerra, e che ha resistito al regime con gli strumenti del diritto, del pensiero, della parola.

Ha fatto tre nomi, descritto tre figure centrali: Francesco Ruffini, Benedetto Croce, Piero Calamandrei. Con questi riferimenti, Di Salvatore ha voluto dire una cosa semplice ma potente: l’antifascismo non è solo una scelta militare. È anche un progetto culturale, giuridico, pedagogico. Non nasce solo col sangue, ma con le idee. E queste idee – sull’essere umano, sul potere, sulla giustizia – sono diventate diritto positivo nel 1948.

Uno dei momenti più densi dell’intervento è arrivato quando il professore ha citato Fontamara, romanzo del 1933 di Ignazio Silone. Un’opera che, ha spiegato, non serve solo a “capire i cafoni”, ma a capire perché il popolo non si è opposto al fascismo.
Contadini, braccianti, analfabeti. Gente che non aveva mai avuto voce, che non sapeva né leggere né scrivere. Che usciva da secoli di esclusione, di fame, di silenzio”.
In Fontamara, i cafoni non sono fascisti. Ma non sanno nemmeno cos’è lo Stato. Non è ignoranza colpevole: è una condizione storica. È l’assenza di strumenti, di linguaggio, di potere.

E così Di Salvatore ha rilanciato:
La democrazia non nasce per miracolo il 2 giugno 1946. Richiede tempo, cultura, alfabetizzazione giuridica e politica. Richiede, soprattutto, di mettere le persone in condizione di scegliere”.
Citava anche qui, con forza, un’idea semplice ma fondamentale: “Se uno ha fame, non è un cittadino: è un uomo che sopravvive. E la democrazia non può fondarsi sulla sopravvivenza.”
Questa è l’eguaglianza sostanziale. Non come vago egualitarismo, ma come condizione reale per l’esercizio della cittadinanza. Perché, ha ribadito, se mancano casa, salute, istruzione, lavoro, la democrazia è un guscio vuoto.

Dopo questo chiarimento, il professor Di Salvatore ha posto una domanda decisiva: come si garantisce che i diritti affermati dalla Costituzione siano davvero rispettati?
È qui che si entra nel cuore dell’architettura costituzionale. La risposta, ha detto, sta negli strumenti di garanzia che i costituenti hanno voluto costruire. Non si sono limitati a scrivere principi: si sono chiesti come proteggerli. Come impedire che venissero violati, svuotati, ignorati.

Il più importante tra questi strumenti è senza dubbio la Corte costituzionale. E su questo punto il professore ha voluto fare un chiarimento storico fondamentale.
Prima del 1948, non esisteva un controllo di costituzionalità delle leggi. Le leggi erano sovrane. Anche se violavano i diritti, anche se erano palesemente ingiuste, nessuno poteva annullarle. Vigeva il principio di legalità formale: la legge era legge, punto”.

Con la Costituzione repubblicana cambia tutto: si introduce il principio di supremazia della Costituzione sulla legge ordinaria. E nasce un organo che ha il potere di dichiarare incostituzionali le leggi.
Questo significa che la Costituzione non è solo un documento simbolico. È una norma giuridica vincolante. Può essere fatta valere davanti a un giudice. È fonte di diritto e limite al potere legislativo”.
La Corte costituzionale – istituita nel 1948 ma attiva -non a caso- solo dal 1956 – diventa così il garante ultimo dei diritti fondamentali.

Uno dei momenti più intensi dell’intervento è arrivato con la lettura dell’art. 11 della Costituzione. Un articolo che, secondo Di Salvatore, è spesso citato solo a metà:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.”

Ma c’è una seconda parte, ugualmente importante:
“Consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.”

E qui, il professore ha voluto essere molto chiaro:
Questo articolo non è una generica dichiarazione pacifista. È un progetto politico. Dice che la sovranità dello Stato può essere limitata, ma solo a due condizioni: la parità tra gli Stati e l’obiettivo della pace e della giustizia”.

Non è una clausola di sottomissione, ha spiegato. È una clausola di adesione consapevole a un ordine internazionale giusto. Un’idea che affonda le sue radici nel Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni durante il confino sull’isola di Ventotene.
Lì si dice che il nazionalismo – cioè l’assolutezza della sovranità statale – è la principale causa delle guerre. E quindi, per evitarle, bisogna superare quella sovranità. Costruire una federazione europea”.

Questa idea era presente al momento della stesura della Costituzione. Ma – ha ricordato – il progetto europeo ha preso una piega diversa.
Si è costruita un’integrazione economica, ma non una vera unione politica. Si è fatta la moneta unica, ma senza uno Stato, senza una Costituzione europea, senza un governo federale”.

Il risultato? Una moneta senza Stato, e quindi una politica economica priva di strumenti di redistribuzione. Il professore ha fatto qui un excursus storico molto chiaro: la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), il Mercato Comune, il Trattato di Maastricht (con l’Unione Monetaria), il Patto di Stabilità, il Fiscal Compact.

E ha spiegato che questo percorso ha prodotto una torsione tecnocratica dell’Unione Europea, in cui la stabilità finanziaria ha preso il sopravvento sulla coesione sociale.
Quando è arrivata la crisi del 2007-2008, la risposta è stata l’austerità. Tagli alla spesa pubblica, compressione dei diritti sociali. Ma i diritti non sono spese. Sono le fondamenta della democrazia”.

Con l’arrivo della pandemia, qualcosa si è rotto. O almeno si è incrinato. L’Unione Europea ha deciso – per la prima volta – di emettere debito comune. È nato il Next Generation EU. Un programma espansivo, solidale, in parte keynesiano.

Ma Di Salvatore ha messo in guardia:
Non è detto che questa sia una svolta irreversibile. È stata una risposta emergenziale, non un ripensamento strutturale del progetto europeo. E infatti, con la guerra in Ucraina, sono riemerse tutte le fragilità”.

L’Europa si è mostrata priva di una voce autonoma sul piano geopolitico. La NATO ha dettato la linea. Gli Stati Uniti hanno guidato. E l’Unione ha seguito.
Il progetto di una difesa comune – già fallito nel 1953 – torna in discussione. Ma senza una visione politica condivisa. Senza una vera idea di sovranità europea”.

E allora, la domanda è rimasta sospesa nell’aria: vogliamo davvero un’Europa politica? Oppure nessuna Europa? Non c’è altra possibilità.

Il discorso ha poi virato su un altro nodo storico-istituzionale: il regionalismo. Un tema spesso poco discusso, ma fondamentale per capire la crisi della democrazia italiana. Di Salvatore ha ricostruito con precisione le origini costituzionali: Le Regioni furono previste già nel 1948. Ma iniziarono a funzionare solo nel 1970. Perché? Per ragioni politiche: la Democrazia Cristiana temeva che diventassero roccaforti dell’opposizione, comunista in particolare. Non solo divisione dei poteri, in orizzontale (legislativo, esecutivo, giudiziario), base di ogni repubblica per Montesquieu (ma oggi duramente contestata), ma anche verticalmente fra Stato e autonomie locali. E, infatti, hanno competenze minori, ma riconoscibili e concrete: agricoltura, boschi, acque, caccia. Solo con le riforme successive acquisiscono poteri su sanità, istruzione, lavoro.

Ma oggi – ha avvertito il professore – il progetto originario sembra svuotato. Le Regioni, invece che strumenti di emancipazione, rischiano di diventare generatori di diseguaglianze.
Cosa succede se la sanità funziona bene in Lombardia e male in Calabria? Dove finisce il principio costituzionale di eguaglianza?”.

E sull’autonomia differenziata ha espresso un giudizio critico, secco, netto:
Il regionalismo pensato nel dopoguerra aveva una funzione politica. Ma oggi, con l’autonomia differenziata, rischia di trasformarsi in una pura questione amministrativa. O, peggio, in una differenziazione dei diritti”.

Un esempio molto interessante – e poco noto – è stato quello della Regione Siciliana, che gode di uno statuto speciale approvato nel 1946, cioè prima dell’entrata in vigore della Costituzione. In quello statuto era prevista la nascita di un organo giurisdizionale autonomo, l’Alta Corte per la Regione Siciliana, incaricata di verificare la conformità delle leggi regionali allo statuto stesso.
In un certo senso, anticipava il controllo di costituzionalità che sarà poi attribuito alla Corte costituzionale. Ma, dopo l’istituzione di quest’ultima nel 1956, l’Alta Corte fu di fatto accantonata, pur non essendo mai formalmente abrogata.
Di Salvatore ha ricordato che recentemente un giudice ha provato a sollevarvi una questione, ma la Corte Costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso: un episodio paradossale, che rivela – ha sottolineato – “lo scarto tra la lettera della Costituzione e la realtà, tra le istituzioni previste e quelle effettivamente operative”. Un promemoria, ha aggiunto, del fatto che la costruzione istituzionale è un processo storico, non un dato immutabile.

Alla fine dell’intervento, sono arrivate due domande dal pubblico. La prima ha riguardato i decreti sicurezza e il loro rapporto con l’articolo 21 sulla libertà di espressione. Di Salvatore ha risposto con rigore:

Abbiamo sottoscritto – con oltre 150 costituzionalisti – un appello. Non per ideologia, ma per un problema di metodo. Il decreto-legge dovrebbe essere straordinario. Oggi, invece, è diventato la regola. Ma quando si deroga alla Costituzione per prassi, si apre la strada alla normalizzazione dell’eccezione”.

La seconda domanda del pubblico ha riguardato l’articolo 11 della Costituzione, e in particolare il tema della sovranità e della pace. Di Salvatore ha risposto chiarendo subito un punto cruciale: “L’articolo 11 non dice solo che la guerra è vietata: dice che è ripudiata. È l’unico articolo della Costituzione che utilizza un verbo etico. Non è una norma tecnica, è una scelta di civiltà”.
Ha poi ricordato che la Costituzione non vieta ogni limitazione della sovranità, ma la consente solo a determinate condizioni: “La sovranità può essere limitata, ma solo se serve a costruire un ordinamento di pace e giustizia tra le Nazioni, e solo in condizioni di parità tra gli Stati”.
Questo – ha sottolineato – impone un criterio di vigilanza: ogni volta che si cede sovranità, bisogna chiedersi se lo si fa in nome di quei principi.
Non basta far parte dell’Europa: bisogna che l’Europa risponda ai valori costituzionali, non li contraddica”.
E ha chiuso con un monito chiaro:
La pace non si proclama, si costruisce. La sovranità non si cede, si finalizza. L’articolo 11 non è un’appendice: è una guida politica”.

Ma – ha concluso – non basta una norma per costruire un ordine nuovo. Serve una cultura politica, una volontà condivisa, un progetto.

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