“L’imam deve morire”: un titolo da thriller, ma anche un esercizio di memoria e geopolitica. L’on. Enzo Amendola, deputato del PD ed ex sottosegretario agli Esteri e poi agli Affari Europei e ancora ministro degli Affari Europei, ha presentato il suo romanzo-inchiesta in un pomeriggio denso, caldo non solo per la temperatura ma anche per una questione mediorientale sempre più in fiamme.
Ad Ascoli Piceno, nella libreria Rinascita, il dialogo con Pietro Frenquellucci e l’introduzione dell’on. Augusto Curti (“Oggi abbiamo qui un collega con un curriculum più lungo del mio!” ha scherzato) hanno offerto al pubblico un viaggio tra finzione narrativa e verità storiche poco note.
“Questo libro non è un romanzo qualunque. Non è nemmeno solo un romanzo”, ha detto Frenquellucci all’inizio. Ed è vero. Perché “L’imam deve morire” parte da un fatto reale: la scomparsa nel 1978 di Musa al-Sadr, figura chiave dell’Islam sciita, uomo di dialogo e pace, avvenuta in circostanze misteriose durante un viaggio in Libia. Amendola costruisce intorno a questo enigma un personaggio di fantasia, Roberto Stancanelli, capitano dei servizi segreti italiani, che indaga sulla vicenda attraversando trent’anni di storia italiana e mediorientale.

“Un mistero italiano, un caso Moro d’Oriente”, che evoca gli anni in cui l’Italia tremava per il sequestro del presidente della Democrazia cristiana e viveva scossoni politici, economici, sociali. L’immagine è potente: un Paese stremato che si ritrova ad affrontare un enigma internazionale, con protagonisti come Gheddafi, i servizi segreti iraniani, e una figura religiosa che scompare nel nulla. Il libro affonda nella complessità della stagione dei misteri italiani, restituendo un contesto stratificato, in cui la storia nazionale e quella globale si intrecciano inesorabilmente.
Amendola ha ricordato l’incontro con la figlia dell’imam, in Iran, quando era sottosegretario agli Esteri. “Mi disse: voi italiani avete una responsabilità”. E fu da quella conversazione, e da una preghiera ecumenica pronunciata da al-Sadr in una chiesa cattolica di Beirut, che nacque il desiderio di raccontare questa storia.
“In Libano, durante la guerra civile, l’imam entrò in una cattedrale e parlò di pace. Disse che la religione non può essere usata come strumento di potere. Era qualcosa di rivoluzionario.” Non si trattava di una predica qualunque, ma di un gesto politico di altissimo livello: un imam sciita che sfidava le logiche settarie con un atto simbolico di fratellanza religiosa.

Da quel momento, l’ex ministro si mise a scavare tra archivi, carte, documenti, con meticolosità. Visitò l’archivio di Giulio Andreotti, scoprì faldoni mai divulgati, verbali di colloqui con funzionari italiani e internazionali, corrispondenze segrete tra ambasciate.
“Non è un saggio. Non volevo dimostrare una tesi, volevo raccontare una storia. Ma la storia, spesso, si rivela più piena di mistero e significato di qualunque fiction”.
Il romanzo è un viaggio, anche geografico. L’agente Stancanelli si muove tra Roma, Teheran, Beirut, Tripoli, Gerusalemme. Ogni luogo è un mosaico di memorie e ombre. La Gerusalemme che Amendola evoca è caotica, stratificata, spirituale e ferita.
“In pochi metri a Gerusalemme trovi un mondo pieno di contraddizioni. Ogni verità contiene il seme del suo opposto. Il Medio Oriente non è comprensibile con uno schema rigido”, ha affermato Amendola. Il romanzo diventa così anche una pedagogia della complessità: leggere il Medio Oriente richiede accettare l’esistenza di verità contraddittorie ma ugualmente plausibili.

Centrale nel discorso, il tema del ruolo dell’Italia: “Non possiamo essere solo spettatori. L’Italia ha avuto, storicamente, un ruolo nel Mediterraneo, perché è parte di quel mondo. Negli anni Settanta, anche in mezzo alle crisi, c’erano politici come Andreotti che se ne occupavano. Oggi chi ci va più, a discutere faccia a faccia con gli attori regionali?” Amendola cita episodi e nomi, da Enrico Mattei a Prodi, per costruire una piccola genealogia di un’Italia che sapeva stare nel mondo. Poi si sofferma sul presente, dove il protagonismo internazionale è evaporato.
Ha denunciato la perdita di spessore della politica estera italiana, diventata secondo lui “un gioco di tweet e conferenze stampa”, e ha invocato un ritorno alla serietà: “La diplomazia si fa con la presenza, la conoscenza, la continuità. E con l’umiltà. Come l’antieroe che ho scelto: un agente dei servizi che non cerca la gloria, ma la verità.” Non è un James Bond, ma un funzionario determinato, ossessionato, a tratti solitario.
Suggestivo anche il parallelo -proposto da Frenquellucci- con “Apocalypse Now”: “Come il capitano del film, il mio protagonista si perde dentro l’indagine, fino quasi a identificarsi con la figura che cerca. Ma lo fa senza cinismo. Cerca, in fondo, di salvare qualcosa di umano nella guerra degli intrighi”. Musa al-Sadr diventa, per Stancanelli, una figura quasi sacra, un simbolo da proteggere anche nella scomparsa.
Il Medio Oriente, ha concluso Amendola, non è condannato all’odio: “Non è vero che la pace è impossibile. Lo diceva anche al-Sadr. E per questo, forse, è scomparso.” Non solo un martire, ma un portatore di una visione politica radicalmente pacifica. Un uomo capace di dire “chi spara a un cristiano, spara a me”, in un universo pieno di milizie contrapposte e odio.
Nel finale si torna a riflettere sul conflitto di civiltà, sulla fragilità del Mediterraneo, sull’uso strumentale della religione come maschera di potere. Amendola non nasconde la sua amarezza per il presente: “Oggi si fa politica estera come se fosse uno show. Ma la vera diplomazia è pazienza, ascolto, conoscenza. Non è uno spot, è una vocazione.”
In definitiva, “L’imam deve morire” è un libro che racconta un mistero e, allo stesso tempo, un insegnamento. La sua forza sta proprio nella tensione tra documento e invenzione, tra dolore e speranza, tra silenzi e verità non dette. Un invito, non solo alla lettura, ma alla consapevolezza.
