Capitale italiana del libro. A settembre sapremo se San Benedetto del Tronto, oggi tra le undici città in corsa, passerà il turno e accederà alla rosa delle cinque finaliste. Il titolo è assegnato annualmente dal 2020 a una città che si distingue per progetti innovativi e partecipativi di promozione della lettura, come strumento di crescita culturale, coesione sociale e sviluppo sostenibile. Un riconoscimento che porta con sé prestigio e fondi — circa mezzo milione di euro. Ma anche un’opportunità concreta: trasformarsi in un laboratorio nazionale del libro e dell’editoria. Dalle biblioteche alle piazze, l’obiettivo è portare il libro nella vita quotidiana, valorizzando diversità editoriale, inclusione, tecnologie e passione per la lettura. Lo annuncia sorridente Mimmo Minuto, accanto all’assessora comunale alla Cultura Lia Sebastiani, che gli tributa uno speciale ringraziamento per il suo essenziale contributo.

L’occasione è il terzo appuntamento della 44ª edizione degli “Incontri con l’autore” (l’abbiamo lungamente presentata QUI), con protagonisti Marianna Aprile e Luca Telese (“Qui per la decima volta!”, ha ricordato Mimmo Minuto) e il loro libro “Materiali resistenti. Fare la cosa giusta in un Paese che sbaglia”. A moderare, nella cornice della Palazzina Azzurra strapiena di persone, Paolo Perazzoli, presidente del Club degli incorreggibili ottimisti ed ex sindaco della città. Si tratta di una raccolta di storie vere di impegno civile: da chi difende i diritti nel mondo del lavoro a chi testimonia in contesti di guerra, passando per esperienze di accoglienza dei migranti e lotte contro la disuguaglianza. Attraverso questi racconti, vogliono proporre una visione “resistente” della società, in cui la coerenza ai principi costituzionali diventa uno strumento quotidiano di lotta.

Luca Telese parte subito: «Questo luogo ha una conformazione che richiama l’agorà. E l’agorà è il cuore pulsante della democrazia. Nessun luogo migliore, quindi, per presentare un libro come il nostro».E la copertina non è casuale: vi campeggia uno scudo. «Perché tale è la Costituzione italiana. Uno scudo. Un baluardo, un’arma di difesa civile». Telese, eccellente affabulatore e sempre appassionato, rievoca il 1974, quando in Italia si tenne il primo referendum abrogativo della storia repubblicana, quello sul divorzio: “Fu allora che i clerico-moderati ‘scongelarono’ uno strumento previsto dalla Costituzione ma mai realmente utilizzato. Pensavano che avrebbe portato alla cancellazione di quella legge, e invece vinsero i SÌ. Contro ogni previsione. Perché il Paese, allora, era più avanti della sua classe dirigente”.
Un passaggio che Telese usa per arrivare al presente: “Oggi si vuole distruggere il referendum, disinnescarlo, a sottrarre ai cittadini questo strumento fondamentale di controllo sulla politica. Quando la politica non legifera per venticinque anni, come è accaduto sul lavoro, il referendum è l’unico mezzo per costringerla a muoversi”. Non manca una stoccata alla logica maggioritaria e ai suoi paradossi: “Si dice che chi vince ha sempre ragione. Ma allora perché non mettiamo un quorum anche alle elezioni? Perché una maggioranza può governare con il 24% dei voti reali e un referendum deve essere invalidato se non va a votare il 50% più uno? Io non ho nessun rimpianto di aver sostenuto i cinque referendum promossi su lavoro e cittadinanza. Nessuno”.

Dopo aver difeso il referendum come strumento cruciale della democrazia, Luca Telese vira su un tema che brucia: la guerra. Lo fa con parole forti. “Mark Rutte è un personaggio mostruoso”, esordisce senza mezzi termini, riferendosi al nuovo segretario generale della NATO, già premier dei Paesi Bassi. “Ci viene a dire che dobbiamo spendere 4 miliardi di euro per le armi. Quattro miliardi. Ma parliamo dello stesso Rutte che ha trasformato l’Olanda in un paradiso fiscale, che ha fatto i conti in tasca all’Europa imponendo con il gruppo dei Frugali il Patto di stabilità, pretendendo austerità da noi mentre loro attiravano multinazionali e capitali? E adesso viene a insegnarci quanto dobbiamo armarci?”.
Telese guarda la platea: “La verità è che la maggioranza degli italiani non vuole la guerra. Non vuole seguire questi pazzi. E lo vedo anche qui, stasera, nei vostri occhi. C’è una distanza profonda tra la gente e il mainstream bellico che ci viene cucito addosso ogni giorno. Non ci caschiamo più”.
A questo punto prende la parola Marianna Aprile. “Il referendum fotografa il Paese. E stavolta la fotografia è brutta”, dice senza giri di parole. Il riferimento è ancora ai risultati dei cinque quesiti referendari promossi in difesa del lavoro e della cittadinanza, naufragati in un astensionismo diffuso. “A me viene proprio un’ulcera pensando al quinto quesito. Quello sulla cittadinanza. Con tutti quei No, tra chi è andato a votare. E se, come i dati mostrano, a votare è stato principalmente l’elettorato di centrosinistra, allora dobbiamo chiederci: perché hanno votato così?”. La risposta, per Aprile, è una sola: “Hanno risentito della narrazione allarmistica. L’obiettivo di quella narrazione è sempre lo stesso: creare paure e poi offrire finte soluzioni. Il problema non è l’immigrazione. Il problema è come la raccontano”.
Poi affonda un colpo: «Ognuno c’ha gli immigrati che si merita. L’Italia ha scelto di meritarsi il Ghetto di Borgo Mezzanone, piuttosto che l’esperienza straordinaria di Riace o quella di Badolato».

Con parole molto vivide, Aprile ricostruisce il senso profondo di quei modelli d’accoglienza: “A Badolato arrivarono 300 rifugiati curdi. A Riace, persone di provenienze diverse in fuga da guerre e povertà. E non fu solo solidarietà: fu rinascita. Quelle comunità avevano perso abitanti, scuole, bambini. Con l’accoglienza sono tornati i servizi, i panettieri, le voci nelle piazze”. Però: “C’è chi ha tentato di smontare quel progetto a Riace, ma anche la magistratura ha dovuto ammettere che era illegittimo farlo. È il segno che un altro modello possibile c’è, ma non tutti lo vogliono”.
E vi contrappone: “Borgo Mezzanone è il contrario. Un luogo disumano, di segregazione. Un simbolo del fallimento della politica migratoria. Quella che nasconde i corpi invece di integrarli, che tollera baraccopoli per poi usare l’esistenza di quelle baraccopoli per dire che l’accoglienza non funziona”.
Infine, un ragionamento che smonta una delle paure più tossiche: quella dei “troppi”. «Sessantamila arrivi all’anno. Sessantamila. Su ottomila Comuni. Fanno meno di otto persone per Comune. È questa l’invasione di cui dovremmo avere paura?”.
Per Aprile è una questione di volontà. Se davvero volessimo accogliere, sapremmo farlo, anche ridando vita a posti che la demografia e l’economia portano a sparire.

Con una mimica marziale, Luca Telese riprende la parole e assume per qualche istante la voce di Ignazio La Russa: “Via Raseeeella!”, riferendosi al fatto che “quelli uccisi furono una banda musicale di semi pensionati”, secondo il Presidente del Senato. “Siamo al punto che Via Rasella viene raccontata come un attentato terroristico. E guardate che questa cosa sta avvenendo. C’è un riscrivere la storia. C’è un tentativo di cambiare i nomi delle cose. C’è un tentativo di dire che non è stata la Resistenza a fondare questo Paese”.
Un passaggio che non è solo culturale, ma profondamente politico. Telese parla di cittadinanza negata. E lo fa con la storia concreta di una ragazza. “Ha 25 anni oggi. È nata qui, cresciuta qui, ha studiato qui. Tutta la sua famiglia ha ottenuto la cittadinanza. Tutta, tranne lei. Perché? Perché da sei giorni era già maggiorenne. Sei giorni. Ora deve decidere se laurearsi o cominciare subito a lavorare, e lavorare in modo continuativo per almeno tre anni. Solo così potrà chiedere di nuovo di essere considerata italiana. Cosa che, in realtà, è da sempre”. L’indignazione. “È una legge disumana, pensata per escludere”.
A questo punto Telese rovescia la retorica. “Siamo a un punto in cui perfino Confindustria ha fondato una onlus per promuovere l’accoglienza dei migranti. Perché? Perché sanno che senza quei lavoratori le imprese non vanno avanti. Perché sanno che l’Italia ha bisogno di energie, di competenze, di braccia e di teste nuove”. E poi l’affondo sul futuro previdenziale: «Ma chi pensate che pagherà le nostre pensioni, se continuiamo a far fuggire i giovani e a respingere chi vorrebbe venire?”.
Una pausa, poi il colpo che chiude il ragionamento: “E allora, per coerenza, la prossima volta che la Nazionale di Italvolley vince un titolo, non esultiamo. Perché quell’Italia lì è fatta di origini diverse, di nomi che qualcuno ancora si ostina a chiamare ‘stranieri’. Eppure sono quelli che ci fanno vincere. Dentro e fuori dai campi”.
E ancora: “Scappano gli italiani di nuova generazione. Scappano i figli di tutti gli italiani. E mentre facciamo fuggire chi è nato qui, siamo anche incapaci di attirare laureati che vengono da fuori. Li respingiamo dopo aver speso per formarli”.

La violenza delle esclusioni si manifesta anche nei luoghi dove si lavora – o si muore di lavoro. È qui che la Costituzione viene violata ogni giorno. Parlando di un altro quesito del referendum, sulla sicurezza sul lavoro, il tono si fa commosso. “Vi parlo di Kevin Laganà. Aveva 22 anni. Operaio”. Il più giovane dei cinque operai travolti e uccisi da un treno a fine agosto mentre stavano lavorando sui binari della stazione di Brandizzo, nel torinese. 900 euro al mese e lavoro notturno, ma era felice: “Voleva lavorare e basta”. Poi cita un altro nome: “Luana D’Orazio. Anche lei giovanissima. È morta in una fabbrica. Stritolata in un orditoio montato male”. Non restano che brandelli di carne in una bara, ricorda Telese, e il grido delle madri. Che non ascoltiamo, che abbiamo deciso ancora una volta di non ascoltare. “Quando i diritti vanno indietro per qualcuno, vanno indietro per tutti. Così come quando avanzano avanzano per tutti”.
Telese chiude col personale. Sulla guerra. “Mio nonno era ufficiale. Aveva combattuto nella Prima guerra mondiale e poi nella Seconda. Ma quando parlava della guerra, non la celebrava mai. Mai. La chiamava ‘la catastrofe’. Diceva: chi ha visto la guerra in faccia non la può amare. Chi ama la guerra non l’ha mai vista davvero”.
Marianna Aprile torna all’immigrazione: “Oggi si dice: ‘basta immigrazione irregolare’. Eppure non si costruiscono dei percorsi reali per la regolarizzazione. E poi: “Basta con la retorica della ‘concessione’ della cittadinanza. Come se fosse un regalo. Ma non è così. Non è vero che siamo il Paese che concede più cittadinanze. La verità è che da noi la cittadinanza si deve richiedere, in altri Paesi si ottiene automaticamente. È una differenza enorme”.
A questo punto, prende tempo per raccontare una storia. Fatima Zahra El Maliani ha conseguito una laurea triennale in Global Law and Transnational Legal Studies e una magistrale in International Security Studies, distinguendosi come prima classificata per una prestigiosa borsa di studio offerta dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dall’Università di Trento. Oggi fa parte del Consiglio Generale della Fondazione Compagnia di San Paolo e presiede la sezione regionale di United World College, un movimento globale che promuove l’istruzione come strumento di unione tra persone, nazioni e culture, per un futuro di pace e sostenibilità. Nel 2023, è stata insignita del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per aver creato Prime CasArcobaleno, un doposcuola nel cuore multietnico di Porta Palazzo, a Torino. Nata in Marocco il 4 luglio 2000, è cresciuta tra le strade di Aurora, nella settima circoscrizione di Torino. Nonostante il suo straordinario impegno per l’Italia, non ha ancora ottenuto la cittadinanza italiana.
Il paradosso è intollerabile: “Ma come si può accettare una contraddizione del genere?”.

Aprile si addentra con chiarezza nel groviglio delle formule giuridiche: “Oggi vige ancora lo ius sanguinis, il diritto del sangue: sei italiano se tuo padre o tua madre sono italiani Ma basta anche un nonno (fino alla recentissima modifica della legge bastava un lontano avo). Punto. Ma chi è nato qui, chi ha studiato qui, chi qui è cresciuto?”.
E allora i modelli alternativi: “Lo ius soli sarebbe il diritto alla cittadinanza per nascita sul territorio da immigrati regolari residenti da almeno cinque anni come in Germania. Ma c’è anche quello che va per la maggiore ora fra chi vuole una riforma: lo ius culturae, o ius scholae, o ius Italiae (50 sfumature di ius!), che lega l’ottenimento della cittadinanza al completamento di un ciclo di istruzione”.
Ma non risparmia chi avrebbe potuto fare qualcosa: “Perché il centrosinistra, quando era maggioranza, non ha fatto nulla? Perché non si è approvata nemmeno una delle riforme sulla cittadinanza? Perché si è preferito parlare d’altro, spaventati dall’ombra lunga della destra?”.
Resistere significa opporsi, sporcarsi le mani, ‘fare la cosa giusta in un Paese che sbaglia’. E, da giornalisti nel più nobile senso della parola Telese e Aprile non si limitano a commentare: vanno a vedere, incontrano, raccolgono volti, storie, sguardi di chi ci invita a farlo col suo esempio.
