“Una cosa che non parla. Intellettuali e studenti contro la scuola” (San Paolo, 2025). Alla straordinaria Libreria Prosperi di Ascoli Piceno, fucina di cultura diretta da Daniele De Angelis, un nuovo evento a sfidare l’afa dell’estate. Una conversazione fra Giuseppe Nibali, insegnante, poeta e scrittore siciliano, che ha presentato il suo ultimo lavoro: un saggio a più voci insieme a due figure che sanno cosa significhi insegnare oggi: Nicola Campagnoli, scrittore e docente, e Davide Tartaglia, poeta e insegnante.
“È un libro di domande, in primo luogo perché non esistono risposte definitive. In secondo luogo perché è la scuola ad essere un luogo interrogativo (non solo per il docente verso gli studenti, ma anche viceversa!). E così è stato costruito un dialogo fra chi in questi decenni è rimasto in silenzio, gli intellettuali e gli studenti (e non facendo parlare, quindi, chi lo fa di solito: docenti, burocrati e politici)” racconta. Ci sono uno di fronte all’altro, in serrati colloqui, dieci studenti e studentesse, con altrettante figure di spicco del panorama culturale italiano di diverse aree del sapere (in modo talmente libero che un mio studente di fronte a un docente di Estetica a bruciapelo inizia con “Ma esiste Dio?”). Maestri e allievi, come all’origine nell’Accademia platonica e poi nel Liceo aristotelico: luoghi in cui si camminava letteralmente insieme, nel mondo; si esercitava la curiosità. E sgombrando il campo da tutte quelle cose che strozzano la scuola come la burocrazia o la campanella, che la rende così simile alla fabbrica o al carcere (e d’altronde la scuola “sembra un luogo di malattia. Di recinzione e di protezione, ecco, un luogo concentrazionario,” scrive).

Il tentativo di ognuno di questi dialoghi socratici è immaginare una scuola veramente nuova, che riesca a superare i problemi e a concentrarsi sulle proposte tramite la realizzazione di un nuovo immaginario didattico. Educazione alle conoscenze, biblioteche interattive, sburocratizzazione della pratica scolastica, abolizione dei voti, studio della cultura contemporanea e educazione alla politica sono solo alcune delle proposte fatte dai ragazzi e discusse dagli intellettuali, nel tentativo di raccontare come la scuola dovrebbe e potrebbe essere: il motore dell’Intellighenzia del Paese. “È innanzitutto un testo di speranza, perché i ragazzi credono che debba esistere una scuola”, tiene a precisare.
“Il titolo l’ho rubato” aggiunge. E si collega a quanto scrive un filosofo che apprezza: per Byung-Chul Han: “L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo”. Tutto si trasforma in informazioni e dati: è l’infomania. “Ecco, la scuola invece è una cosa, ha mantenuto la sua stabilità, ma non parla più, perché?” esclama.
I ragazzi credono. “Credono veramente a quello che incontrano (persone, immagini, storie), alle parole che ascoltano, credono alle ideologie politiche, spesso alle religioni di appartenenza familiare, al valore sociale del titolo di studio. Chi tra loro ignora queste istanze, o se ne contrappone, lo fa spesso perché vincolato, anche se in chiave polemica, alle stesse strutture che sceglie di combattere. Studentesse e studenti sono abitati da un fortissimo desiderio poietico, guidati dalla volontà di fare” scrive. “Credono ma credono sempre meno, perché li vogliamo obbedienti” commenta e “alla loro richiesta la scuola risponde offrendo formazione professionale e propaganda”.
Quello che Alessandro Barbero scrive nel suo contributo: “La minaccia più insidiosa è l’ideologia unica del profitto, l’esaltazione dell’imprenditoria come sale della terra, l’attenzione esclusiva all’economia e al mercato. Ne risulta una classe dirigente che non capisce letteralmente più a che cosa servano la cultura e lo spirito critico e che, quando lo capisce, li considera pericoli da neutralizzare. La scuola non deve produrre teste pensanti, ma esecutori, tecnici: è solo in questi termini che la classe dirigente riesce a concepirla. Va da sé che in questa prospettiva la scuola si giustifica esclusivamente come preparazione al lavoro, in maniera ben diversa da quando a scuola andavano soltanto i figli della classe dirigente”.

Ecco i ragazzi e le ragazze vivono e vivono male, esausti, la scuola come luogo già di lavoro (e al giusto fremere per uscirne poi rimpiangeranno quel tempo dedicato a loro e a loro soltanto. Quanto era bello). E invece come il privilegio assoluto di una parte del mondo che ha sviluppato un’istituzione per costruire cittadini e cittadine consapevoli. Studiare vuol dire immergersi nelle cose. “Studiare la grammatica greca è difficile, a vuole può essere noioso. Ma è bellissimo. La fatica è lo strumento di accesso a quella bellezza. Non bisogna mai abbassare la complessità, ma renderla accessibile. Sennò resta un semplice infoma. Ecco allora la componente del gioco, inteso come simulazione: non spiego l’Iliade, ma la devo mettere in scena” si infiamma.
Questo il compito dei docenti, “una classe disagiata e vessata”. E si vede nella depressione, in quel lasciar fare, il quel far niente in classe: l’idea di non poter intervenire in alcun modo, l’assenza dello stupore di fronte al mistero che ognuno di quelli che ci sta di fronte sui banchi rappresenta. Al lassismo di docenti e studenti si può e deve rispondere con il fatto che “le cose non sono immediatamente comprensibili, ma se conosci quegli scogli potrai tornarci un giorno, potrai tornarci meglio” conclude.

Quale modello per la scuola italiana? Gli viene chiesto. “Li ho studiati bene. Quello scandinavo è bellissimo e inapplicabile (per costi, numeri, contesto..) e si basa su test attitudinali e al contempo una base culturale adeguata da acquisire per tutti. E produce riuscita e soddisfazione”. Quello anglosassone non funziona affatto bene e poi ci siamo noi del Sud Europa. “Abbiamo tenuto la ramificazione gentiliana, in cui a 13 anni decidi molto della tua vita, ma abbiamo distrutto il buono che c’era in Gentile ovvero l’asse delle conoscenze, sostituite dalle competenze”, ragiona (come se le pratiche potessero essere disgiunte dalle teorie).
Scrive infatti nel libro: “La scuola è utile solo nella sua funzione di educazione alle tecniche. È una macchina che si muove per competenze. Non serve altro. Ma ‘la fatica si fa per passione, non ci si appassiona alla fatica, e chi lo fa forse deve espiare qualcosa. Ma sulle colpe non si costruisce il gusto del sapere’”.
