“Toccare la vostra anima”: Vito Mancuso a Piceno d’Autore tra riflessione e speranza

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A Giorgio, per la sua libera ricerca spirituale”. Così mi dedica Vito Mancuso il suo libro “Disputa su Dio e dintorni, scritto con Corrado Augias e pubblicato nel 2009. Avevo diciassette anni, ero uno studente liceale e quella lettura fu l’inizio di un’intensa riflessione sulla dimensione verticale. Tanti suoi libri letti, tante volte ho avuto il piacere di ascoltarlo dal vivo a Bologna e nel Piceno (ne ho scritto QUI). Stavolta eravamo a Monteprandone, dove era ospite della XVI edizione del festival letterario Piceno d’autore, curato da Mimmo Minuto.
Teologo laico e filosofo, ha insegnato presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, l’Università degli Studi di Padova, ed è oggi docente del master in Meditazione e Neuroscienze all’Università degli Studi di Udine. Dirige anche il “Laboratorio di Etica” presso il MAst di Bologna, e i suoi saggi hanno avuto ampia risonanza pubblica e accademica, anche internazionale. Il suo pensiero è stato oggetto di una monografia pubblicata in Germania e le sue riflessioni compaiono regolarmente sulle pagine de “La Stampa

Di fronte a un folto pubblico attento, comincia a parlare, con la sua pacatezza riflessiva e i suoi silenzi carichi, con una citazione di Simone Weil: “Nel corso di tutta la storia conosciuta, mai vi fu un’epoca come l’attuale in cui le anime fossero in tale pericolo”. E lui rilancia: “Oggi è ancora peggio. Un tempo erano più i corpi a essere in pericolo, oggi grazie al progresso scientifico sono le anime. Il pericolo è diventare anime morte, come quelle raccontate da Gogol. E io, questo è proprio il mio lavoro, per questo voglio toccare la vostra interiorità, o come pochi ormai la chiamano: anima. Quella energia vitale, immateriale e sensibile che spesso trascuriamo, in un’epoca in cui i progressi nella conoscenza del corpo ci hanno portato ad oggettivarlo totalmente.”.

Che cos’è l’uomo? Mancuso ricorda che secondo Kant la risposta a questa domanda passa per tre interrogativi fondamentali: che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa mi è lecito sperare. “Vuoi la verità? – si rivolge al pubblico – allora devi porti queste tre domande, tutte e tre. Ciò che siamo dipende da ciò che conosciamo, quindi devi studiare, coltivare la cognizione, informarti dalle fonti giuste e leggere i libri giusti; dipende poi da ciò facciamo (in senso deontologico) e da ciò che speriamo. E queste sono domande eterne”.

Mancuso invita a non accontentarsi di una visione unidimensionale dell’essere umano. L’essere umano è anche altro. “Sentire di essere al cospetto di forze più grandi è ciò che ha fatto nascere la religione. Oggi si pensa che basti la tecnologia, ma non è così. Il pensiero filosofico, da sempre, anticipa perché vede prima. I filosofi vedono perché pensano”. Cita infatti Marcuse, e il suo celebre “L’uomo a una dimensione, testo del 1964 che apriva così: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico”. La riduzione dell’uomo a ingranaggio funzionale di un sistema è il rischio più concreto della nostra epoca. “Qualcuno peraltro – dice – ha tutto l’interesse a che gli esseri umani diventino automi produttivi e docili”. E il sogno di trasformare il mondo e l’uomo secondo la logica della tecnologia non è nuovo: già nel 1747 il filosofo Julien Offray de La Mettrie scriveva “L’homme machine”.

Citando Hannah Arendt, Mancuso ricorda che “non è irrilevante notare come la parte immortale e divina nell’uomo non esista se non viene attualizzata e focalizzata su ciò che è divino fuori di lui; in altre parole, l’oggetto dei nostri pensieri conferisce immortalità al pensare stesso”. In altre parole: “la qualità della tua vita interiore, il valore di ciò che sei, la possibilità di sperimentare e di connetterti con il mistero, dipendono da te, dalle tue scelte. Questo è il lavoro spirituale. Oppure si può restare in balia della necessità, dell’ananke, come dicevano i greci”.

Viviamo in un tempo carico di ansia per il futuro. Un’ansia che genera paura, poi rabbia, poi violenza. La dimensione verticale dell’esistenza – quella spirituale – ci serve per non cadere nella cattività della cattiveria (senza essere ingenui buonisti che si alienano comodamente dalla realtà attorno a loro). Sull’architrave del tempio di Delfi era incisa la massima che tanto impressionò Socrate: “Conosci te stesso”. In origine era un ammonimento a non dimenticare la propria fragilità mortale. Socrate ne fece il centro di una ricerca interiore: chi sono? Cosa sono, come essere umano? Ecco, a distinguerci da ogni altro è quell’energia che è in noi, l’anima che dicevamo, ma se non viene lavorata… Per diventare esseri umani completi servono, infatti, disciplina, cultura, socialità, moralità.
La disciplina come forma di autodisciplinamento, di controllo della nostra parte animale. Non per sopprimerla, rendendoci perfetti soldatini di un’autorità esterna, ma per indirizzarla. La cultura, non solo come erudizione, ma come capacità di coltivare saperi, passioni, tecniche, e saper vivere. La socialità, intesa come dono della propria energia alle collettività di cui si è parte, come spinta a dare invece che a prendere. La moralità, infine, come onestà verso sé stessi e gli altri: “non c’è niente di più nobile che servire il bene e la giustizia”.

La morale kantiana non è un codice esterno. È una struttura interiore. Non ha contenuti predeterminati – “onora il padre e la madre”, “non uccidere”, “non dire falsa testimonianza” – perché ogni caso, le circostanze, possono essere diverse. L’etica, per Kant e per Mancuso, è formale, in quanto prescrive la forma che l’azione deve assumere per essere etica agisci come se la tua azione potesse diventare legge universale. L’imperativo categorico kantiano è qualcosa che non si discute. “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua sia nell’altrui persona, sempre come fine e mai soltanto come mezzo”. Oppure: “Agisci in modo da poter elevare la tua azione a massima, a criterio dell’agire universale”. E dunque “stai agendo in un modo; se tutti agissero così il mondo andrebbe meglio o andrebbe peggio? Questa è la morale, una morale che ci fa diventare maggiorenni, che fa diventare maggiorenne la nostra interiorità”.

La libertà non è fare ciò che si vuole. “Per me – dice Mancuso – la libertà è la sintesi di tre atteggiamenti esistenziali: consapevolezza, creatività, responsabilità. Se voi non ritenete possibile la consapevolezza, se voi non ritenete possibile la creatività (generazione spontanea di qualcosa di nuovo e non previsto), e se non ritenete possibile la responsabilità, ovvero la capacità di rispondere (e tutto il vivente non chiede profondamente che una cosa: la cura). Ecco, se voi non ritenete possibili queste cose non ritenete possibile la libertà. La persona è libera, quando è libera anche da sé”.

Come si costruisce una filosofia di vita? Il suo percorso, racconta, è partito dal cattolicesimo. Ma le aporie, in particolare sul tema del male, lo hanno spinto “via via a capire che la logica del mondo è la relazione. Religio è etimologicamente questo legarsi forte con il senso del mondo, un senso più grande di me ma che devo scoprire e a cui mi devo legare, il sentirmi gettato in una storia più grande di me e che devo capire e a cui devo conformarmi”. Quello che poi facevano i primi filosofi ricercando l’archè, cioè il principio.
Tutto, a ben guardare, è relazione. “I nostri corpi sono sistemi di molecole, cellule, organi, che cooperano in armonia. E armonia, per i greci, è una parola che indicava l’arte di costruire le navi, di unire le travi per produrle: il tutto che è maggiore delle sue parti. Ed è una fatica. L’etimologia ci aiuta ancora, l’h che sta nella parola armonia nelle varie lingue indica proprio questa fatica. L’armonia è faticosa, per questo per quanto mi riguarda io parlo per me di ottimismo drammatico”.

Le emozioni, spiega, sono qualcosa che da fuori ci muove: e-moveo. La felicità – armonia tra sé e il mondo – è rarissima. Ma la gioia – armonia tra sé e sé – la si può ottenere, col lavoro. Va coltivata. Citando Seneca, nella Lettera XXIII a Lucilio, Mancuso dice: “Prima di tutto fa’ così, Lucilio mio: impara a gioire. Pensi davvero che io ti voglia privare di molti piaceri? Al contrario, voglio che non ti manchi mai la gioia. Voglio, però, che ti nasca in casa: e ti nascerà, se sorge dentro di te. Le altre forme di felicità non riempiono il cuore; appaiono sul volto ma sono fugaci, non crederai certo che abbia vera gioia chi ride. No, credimi, la vera gioia è una cosa seria. Questa gioia voglio che tu possieda: essa non ti verrà mai meno, una volta che tu sappia da dove deriva. I metalli vili si trovano in superficie; i più preziosi, invece, sono nascosti nelle viscere della terra ma procurano un guadagno maggiore a chi fa la fatica di scavare. I beni di cui si compiace la massa danno un piacere inconsistente e superficiale, perché ogni gioia che viene dall’esterno manca di fondamento. La gioia di cui ti parlo, e alla quale cerco di condurti, è invece fondata, e si genera intensamente nell’interiorità”. E aggiunge “A me viene in mente Gesù quando parla di quella gioia che il mondo non conosce: il mondo non ce la dà, ma proprio per questo non ce la può togliere. Proprio perché dipende da noi. E appunto: Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?.

Non è mancata, durante la serata, una parentesi che ha toccato l’attualità. Quando si è iniziato ad applaudire e a far rumore in solidarietà a Gaza, mentre le campane delle chiese – che avrebbero dovuto suonare alle 22 – sembravano non farlo. Mancuso ha scelto di non entrare nel merito di questa questione, che pure gli sta molto a cuore, a meno di non essere sollecitato. Ma ha fatto riferimento ai suoi scritti recenti che tante polemiche hanno generato. Su “La Stampa” si era chiesto, infatti, come fosse possibile che proprio i più religiosi tra i politici israeliani fossero anche i più violenti e carichi d’odio. La storica Anna Foa, ha scritto successivamente Mancuso, ha colto perfettamente cosa intendesse, scrivendo che “il messianismo aggressivo e fanatico dei coloni e dei partiti religiosi estremisti di Israele” è “il movente assolutamente primario di chi crede non solo di agire in nome di Dio ma anche che il suo Dio gli consenta di compiere atti terribili”. Altro che antisemitismo…

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