Sport

Eppure continuiamo a chiamarlo gioco

Una domanda rivolgerei al sobrio Signor Ciampelli, se non temessi di venire frainteso: perché, quando commenta il risultato di un incontro assume quel certo tono serio e argomenta in maniera tanto contegnosa (sebbene mai dismettendo la sobrietà)? In vero si sta parlando di un gioco, ciò è a dire quanto di più serio frequentino gli umani. Non è un costume, un vezzo peculiare del Sig. Ciampelli quello di proporsi al pubblico con tale una gravità, poiché si riscontra in tutti i tecnici (con l’eccezione di Paolo Montero allenatore della Samb, che nei suoi post-partita, grazie al suo estro uruguayo, manteneva una narrazione quasi favoleggiante) e praticanti di questa e ogni altra disciplina sportiva, considerate alla stregua di attività da cui dipendono i destini degli individui sulla terra. Ciò sembra abbastanza incomprensibile, dal momento che il calcio è niente più che un’attività agonistica ovvero ludica. Eppure non è così, poiché una società sportiva non ha uno statuto economico-finanziario dissimile da una qualsiasi azienda che produce merci, di qui il senso di responsabilità che occorre dimostrare quando se ne assuma il governo.

A questo punto qualcuno potrebbe dubitare che chi pratica uno sport sia una merce. Ma bisogna considerare l’ispirazione, il senso estetico di chi gioca, ciò che, con tutta evidenza, sfugge alla categoria di merce ovvero di mercificazione – una merce non ha estro, non ha talento, perché è una cosa. Fantasia e immaginazione sono proprie dei poeti. La letteratura latino-americana – uno scrittore per tutti, Eduardo Galeano – ha dimostrato che assistere ad una partita di calcio non è altra cosa dall’ascoltare o dal leggere una poesia. Per questa ragione mi sono ritrovato a seguire le partite del Porto d’Ascoli. Non le imprese di un club calcistico di statura internazionale, bensì di un piccolo club, neppure di provincia, ma di quartiere, poiché Porto d’Ascoli è un quartiere di San Benedetto del Tronto. Seguo gli allenamenti della squadra dal balcone di casa, nel corso dei quali il Signor Ciampelli, assai spesso accosciato per meglio seguire le linee di gioco degli atleti, appare sempre molto compreso del proprio ruolo. Quando il Porto d’Ascoli militava in Eccellenza, vedevo le partite affacciandomi dal balcone, ora devo andare allo stadio, dove non ero mai andato prima. Anche i calciatori prendono l’attività del club con estrema serietà; si può dire che una dichiarazione resa da un campione del Porto d’Ascoli non differisce granché, nel tono, nel frasario, nella mimica facciale, da quella di un campione di levatura mondiale. Questo è certo l’esito dell’omologazione che ha progressivamente invaso ogni sfera dell’esistenza umana, eppure quel che mi appassiona dell’attività agonistica di questo club è l’anonimato; il fatto che dei giovani, talora adolescenti diano vita ad una metrica poetica che non richiede l’affermazione di identità egotiche, quanto l’affermazione di una qualità comune composta di io distinti e però anonimi. Va da sé che ciascuno di essi sogna per sé una carriera brillante, di sentir risuonare il proprio nome negli stadi, ma a me, qui ed ora, è l’11 anonimo a appassionarmi. L’11 del Porto d’Ascoli con il sobrio Signor Ciampelli.

Claudio Pi

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