Giovanna Frastalli, Federico Rampini e Mimmo Minuto,

Federico Rampini a San Benedetto: “La sinistra radicale americana mi ricorda il maoismo cinese e Trump gode”

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Una cosa che mi ha preoccupato durante la pandemia in Italia è stato il rattrappimento degli orizzonti”. Colpisce l’affermazione di Federico Rampini, nel corso della prima parte del suo intervento per la rassegna “Incontri con l’Autore 40° edizione estate”, de I Luoghi della Scrittura e la libreria Libri ed Eventi, a cura di Mimmo Minuto con il sostegno di Comune e Regione. “Non mi piace andare in tv, se ci vado è perché ‘costretto’ dagli editori dei miei libri; la trovo un modo di discutere e informare troppo frettoloso e superficiale”.

IL PROVINCIALISMO DEL GIORNALISMO ITALIANO – “Avendo partecipato a un po’ di talk show italiani, nel corso della pandemia, quello che mi ha colpito è che si parlasse solo di Italia. La nostra informazione è diventata ancora più provinciale (un difetto che peraltro ha sempre avuto). Ma il centro del mondo non è fra Palazzo Chigi, Palazzo Madama e Montecitorio. Ci dobbiamo ribellare a questo iper-provincialismo, i momenti di rinascita sono quelli in cui c’è bisogno estremo di allargare la visuale, di avere orizzonti più ampi”.

UNA CARRIERA INTERNAZIONALE – Di sicuro la vita professionale di Rampini si allontana dallo stereotipo del giornalista italiano: “Ho vissuto più tempo all’estero che in Italia” ha ricordato. Corrispondente di “Repubblica” da New York, è stato vicedirettore del “Sole 24 Ore”, editorialista, inviato e corrispondente a Parigi, Bruxelles, San Francisco e Pechino. Ha insegnato alle università di Berkeley, Shanghai, e alla Sda della Bocconi. È membro del Council on Foreign Relations, il più importante think tank americano di relazioni internazionali. Ha pubblicato più di venti saggi di successo, molti tradotti. Ha prodotto e interpretato quattro spettacoli teatrali, oltre a collaborare con Rai Storia.

“I CANTIERI DELLA STORIA: RIPARTIRE, RICOSTRUIRE, RINASCERE” – Il libro dell’autore, presentato nel corso della serata, rappresenta allora un modo, partendo dal nostro contesto pandemico, per ampliare lo sguardo, nel tempo e nello spazio, attraverso la narrazione di una serie di episodi storici di tragedie collettive, sconfitte, decadenze, seguite da altrettanti “miracoli”. Successi costruiti partendo dalle macerie, quando tutto sembrava perduto, e invece stava per sorgere una nuova luce all’orizzonte. I “cantieri” dove si sono raccolte le energie e le idee, per costruire un futuro migliore. L’idea era quindi di ridare speranza, “smettendola di piangersi addosso: basta perdere tempo ed energie inutilmente”, in quanto “lo studio della storia aiuta a ridimensionare la drammaticità del periodo che stiamo vivendo, l’umanità ha visto di peggio e si è sempre rialzata”.

LA CENTRALITÀ DELLA STORIA – “Questo libro nasce durante il lockdown, è vero, ma è anche il concentrato di una carriera “globale” più che trentennale: ogni volta che sono partito per un nuovo paese, fosse anche il più vicino geograficamente a noi, ne studiavo minuziosamente la storia. Compulsare libri, cartine e dati: altrimenti, senza il passato, come si può anche solo pensare di poter raccontare il presente?

LA CINA DI DENG – Rampini torna più volte, nel corso della serata, sul tema dell’istruzione e lo fa sempre nel confrontare Oriente e Occidente. “Il confucianesimo assegna un ruolo centrale alla funzione del maestro. Un rispetto sacro che stride con le scene che si vedono da noi, con studenti e genitori pronti a contestare i voti con ogni mezzo”. In generale, però, un insegnamento importante ci viene dal periodo più buio della storia recente cinese: “Nella primavera del 1989, a pochi mesi dalla caduta del Muro di Berlino, mezzo milione di studenti, intellettuali e operai occuparono l’immensa piazza principale di Pechino per chiedere libertà e diritti fino a che, a inizio giugno, l’esercito non iniziò a sparare contro i civili, mentre i carri armati travolgevano barricate e manifestanti”. Ma “il leader cinese, vero genio politico, Deng Xiaoping, nel momento di massimo isolamento per la Cina, compie una scelta dirompente e di grande umiltà: chiede ai giovani di andare a studiare nelle migliori università del mondo. Da paese povero e arretrato abbiamo bisogno delle conoscenze di quelli che sono migliori di noi, dobbiamo imparare da loro. Uscite da qui, aprite la mente e poi tornate per costruire un nuovo paese”.

“USA, CHE RAZZA DI STORIA” – La parte più controversa del suo intervento, che ha spaziato dalla caduta dell’Impero romano alla Russia zarista e poi putiniana, ha però riguardato gli Stati Uniti. Le tesi riportate non sono una novità per Rampini, già da tempo molto criticato per le sue prese di posizione molto eterodosse per uno che iniziato la sua attività giornalistica nel 1977 (piena era Berlinguer) a “Città futura”, il settimanale della Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci) e che ancora oggi lavora per “Repubblica”, considerato a lungo il giornale di riferimento per la sinistra progressista. Così eterodosse da meritare di recente l’elogio di Giorgia Meloni, la leader della destra italiana.

Il tema, come da lui ricordato, l’aveva già affrontato il giorno stesso con un pezzo sul suo giornale, che esordiva così: “Critical Race Theory, 1619 Project: sotto queste bandiere si combattono le nuove guerre di religione che lacerano gli Stati Uniti. Molto più che sulle riforme di Joe Biden, l’America si divide sulla nuova contesa valoriale e culturale: chi e come ha il diritto di riscrivere i manuali di storia?”. Ad essere criticati sono quel fascio di rivendicazioni sviluppatesi con il Black Lives Matter, il movimento nato come reazione alla morte inflitta dall’agente bianco Derek Chauvin a George Floyd, per la quale il poliziotto è stato di recente condannato a 22 anni di carcere.

Secondo il giornalista, il Blm “è diventato un movimento ultra-radicale che interpreta tutta la storia americana sotto l’unica lente del razzismo e d’altronde il 1619 Project fu lanciato dal New York Times fa risalire tutta la storia americana all’anno in cui arrivò la prima nave carica di schiavi”. Questo movimento si è macchiato di colpe serie: “Ha legittimato manifestazioni molto violente, con saccheggi e devastazioni proprio nei quartieri abitati da afroamericani”. Tagliare i fondi alla polizia è stato uno degli slogan più popolari e molti sindaci democratici l’hanno fatto col risultato, per Rampini, “di un aumento della criminalità in tutte le più grandi città americane. Aumento di omicidi, intere città dove la polizia si è ritirata: non è un caso che le recenti primarie democratiche per il prossimo candidato sindaco di New York abbiano plebiscitato l’ex-poliziotto Eric Adams. Un afroamericano che ha fatto il pieno di voti tra i suoi, nei quartieri più popolari, dove la piccola borghesia nera ha visto i suoi negozi svuotati da bande di predoni e le gang organizzate prendere il posto della polizia”.

“Taglia i fondi alla polizia” a Minneapolis nel 2020

Per Rampini si tratta di una “fuga in avanti di una sinistra ultraradicale che fa pensare alla rivoluzione culturale maoista cinese. Un fanatismo che rende felice Donald Trump, che può sfruttarlo per dire ai bianchi che c’è un piano per emarginarli e renderli minoranza in casa loro, proponendosi poi come il loro difensore”.  

Ma le cose stanno davvero come racconta Rampini, con la sua grande capacità retorica, oppure “l’ossessione [delle destre mondiali] contro la teoria critica della razza (Crt), [risiede nel fatto che essa] incarna il primo movimento globale che riesce a riportare al centro dell’agenda internazionale la necessità di sovvertire un ordine capitalista fondato sul razzismo e il patriarcato”, come sostiene la sociologa dell’università di Lancaster Francesca Coin?

Pietro Bianchi, docente di Critical Theory alla University of Florida, in un articolo zeppo di dati mostra come “la questione razziale sia in realtà un aspetto direttamente sociale, cioè come un gruppo etnico sia vittima di forme di disuguaglianza plateali”, concludendo così: “Spesso quando si parla di suprematismo bianco, lo si riduce a qualche militante esaltato del Ku Klux Klan o dei gruppi di estrema destra di qualche Stato del Sud. Ma non è così. Il suprematismo bianco è una caratteristica fondante e centrale del patto sociale americano, che riguarda la struttura delle sue istituzioni e dei suoi processi sociali ed economici. Quello che le rivolte di questi giorni stanno mettendo in discussione non è soltanto l’operato fuori dalle regole della polizia ma la cifra suprematista bianca della riproduzione sociale capitalistica americana. Cioè, il modo razzializzato attraverso cui il capitale americano riproduce le condizioni della propria accumulazione”.

Sulla polizia si è concentrato poco tempo fa e a lungo Alex Gourevitch, professore associato di scienze politiche alla Brown University sul Jacobin Magazine, la rivista della sinistra americana: Uno studio eccezionale ha dimostrato che la polizia preserva le gerarchie razziali, in parte usando la forza in maniera sproporzionata contro le minoranze, soprattutto neri e nere. La polizia è un elemento centrale della teoria di W. E. B. Du Bois su come la classe dominante usi l’ideologia razziale per dividere i lavoratori che hanno interessi economici in comune”.

Uno schema ben compreso tempo fa anche da un libro che Rampini inserisce fra quelli consigliati, ovvero il grande classico della storiografia americana “La storia del popolo americano” di Howard Zinn: una storia che ha avuto il merito di spostare il punto di vista, che finalmente parte dagli ultimi e li mette al centro della ricostruzione, là dove meritano di stare. E che ha evidenziato come, fin dall’inizio della cosiddetta rivoluzione americana, la questione della razza sia stata usata per dividere le classi subalterne ed evitare che facessero fronte comune contro le classi dirigenti.

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