Pablo Neruda e Matilde Urrutia: amore, politica, viaggi nello spettacolo “Ardiente paciencia”

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COMUNICATO STAMPA RASSEGNA NERUDA 50 10-12 novembre Sala della Ragione-Teatro Filarmonici”. Sul mio smartphone compare la notifica di questa mail. No, stavolta non cestiniamola: si parla di Pablo Neruda! Il poeta, premio Nobel per la Letteratura nel 1971, è divenuto iconico per la lirica d’amore ma, al contempo, lo era altrettanto (sebbene molti se lo siano dimenticato) per il suo intenso impegno politico nel partito comunista. “Non ho mai pensato che la mia vita fosse divisa tra poesia e politica” affermò, infatti, e aggiunse: “Ho sempre sentito che la mia vocazione e il mio dovere erano di servire il popolo cileno nelle mie azioni e con la mia poesia. Ho vissuto cantando e difendendoli”.

Io, allora – aprendo il testo della mail – mi soffermo su: “Ardiente paciencia – La mia vita con Pablo Neruda, del 12 novembre, è un monologo drammatico con canzoni, ispirato alla vita e all’autobiografia della terza moglie di Neruda, Matilde Urrutia, che ripercorre la loro lunga storia d’amore iniziata nei primi anni ‘50 e interrotta solo dall’improvvisa scomparsa del poeta, avvenuta pochi giorni dopo il colpo di stato dell’11 settembre. Matilde Urrutia sarà interpretata e cantata dall’attrice Valentina Pacetti. In scena anche Maria Emilia Corbelli, che eseguirà alcuni brani dal vivo al bandoneón e alla fisarmonica. Testo e regia sono di Francesco Tranquilli, che ha anche composto le canzoni e le musiche di scena”.

Interessante! Non Pablo, dunque, ma Matilde. L’intensa interpretazione di Valentina Pacetti riesce a reggere da sola la scena. Sul palco, oltre a lei, c’è poco altro. Tutto si gioca sulla drammatica espressività del suo monologare, con pochi inserti sonori d’epoca e l’ottimo accompagnamento musicale di Maria Emilia Corbelli, che compare però alla vista dello spettatore solo nel finale. Molto poi è lasciato al gioco di luci con le lenzuola e le cornici appese, oltre alla presenza di alcuni oggetti simbolici, buttati a terra, che progressivamente la protagonista prende, apre, legge per rievocare avvenimenti passati.

Lo spettacolo, infatti, si apre nel settembre 1973. Qui, dall’improvvisa morte di Neruda, si risale via via in flashback agli episodi salienti della loro storia d’amore. In una continua commistione fra pubblico e privato, fra politica e amore, fra piccola storia e grande Storia. Il tutto diviso in tre parti, intervallate da brevissime pause e impreziosite da altrettante canzoni dal vivo, in spagnolo, particolarmente toccanti: rispettivamente “La lunga notte (Pioggia su Santiago)”, “La lunga giornata (Un amore fatto verso)” e “Il mattino dopo (Ardente pazienza)” e “Lamento”, “La Reina” e “Soneto XCIV”.

Urrutia e Neruda

Neruda, appassionato cantore dell’epica dei poveri, fra i più pronti ad assumere nella propria voce le istanze degli oppressi, non poteva che essere un fermo oppositore della feroce dittatura cilena, vivendo i primi giorni dopo il golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973. Nello spettacolo si ascolta l’ultimo discorso alla radio di Salvador Allende. Leader del Partito socialista e presidente del Cile a partire dalle elezioni del 3 novembre 1970 grazie all’appoggio degli operai e degli studenti, della borghesia progressista e di molti intellettuali di sinistra. I suoi stretti rapporti con la Cuba di Fidel Castro e la politica che aveva avviato (il suo programma di nazionalizzazione delle miniere e delle principali industrie private, la riforma agraria e la sospensione del pagamento del debito estero, tra le altre cose) erano stati accolti con preoccupazione dalla gran parte della borghesia cilena, dei proprietari terrieri, degli imprenditori, della Chiesa cattolica e soprattutto degli Stati Uniti, spaventati dalla possibilità che il “comunismo” contagiasse il Sudamerica. Un esperimento che, quindi, doveva terminare. Così come doveva terminare la vita di Pablo Neruda, grande sostenitore di Allende.

Allende e Neruda

Il Poeta – ha scritto Isabel Allende, figlia di Salvador e grande scrittrice – agonizzò nella sua casa vicino al mare. Era malato e gli eventi degli ultimi tempi esaurirono il suo desiderio di vivere [ma oggi sappiamo che non fu il cancro, ma un avvelenamento, ndr]. La truppa gli aveva violato la casa, avevano rovistato tra le sue collezioni di conchiglie, di chiocciole, tra le sue farfalle, tra i suoi libri, tra i suoi quadri, tra i suoi versi inconclusi, cercando armi sovversive e comunisti nascosti finché il suo vecchio cuore di bardo non aveva cominciato a vacillare. Lo portarono alla capitale. Morì quattro giorni dopo e le ultime parole dell’uomo che aveva cantato alla vita furono: li fucilarono! Li fucileranno! Nessuno dei suoi amici poté stargli vicino nell’ora della morte, perché erano fuorilegge, profughi, esiliati o morti. La sua casa azzurra in collina era semirovinata, il pavimento bruciato e i vetri rotti, non si sapeva se fosse opera dei militari, come dicevano i vicini, o dei vicini, come dicevano i militari”.

Quell’ultimo nido di pace e intimità era in riva all’Oceano Pacifico, in una località chiamata Isla Negra: uno dei luoghi protagonisti dello spettacolo. Il rapporto tra Pablo e Matilde durò, infatti, per oltre ventiquattro anni, senza sbavature o incrinature, e venne vissuto in giro per il mondo. Lui, infatti, era dovuto fuggire dal Cile nel 1948 a causa delle sue accuse contro il governo di Gabriel González Videla. Aveva conosciuto Matilde, cantante e scrittrice cilena, due anni prima. Lui, 42 anni, già sposato e risposato; lei, 34, emancipata e indipendente. Matilde fu la sua infermiera, la sua musa, la sua amante e, solo molto tempo dopo, sua moglie. All’epoca Neruda era ancora sposato con Delia del Carril, artista e intellettuale argentina, conosciuta a Parigi nel 1934. Quando Pablo aveva 30 anni e lei già 50. Clandestini dunque i loro incontri, complici i congressi politici e letterari per lui e i festival musicali per lei: a Berlino, a Nyon, a Roma, a Parigi, fino al paradiso del loro amore, il lungo soggiorno sull’isola di Capri in una casa finalmente tutta per loro.

Mentre le lunghe, tormentose pause tra un incontro e l’altro erano alleviate da lettere appassionate oggi custodite in un prezioso carteggio (da cui è tratto il celebre film di Troisi, Il postino). Segreto fino al 1955, diventerà coniugale solo a partire dal 1966, quando alla morte della prima moglie di Neruda, Maryka Antonieta Hagenaar, Matilde diventerà, civilmente, la terza. Ma per gli sposi era già valido il matrimonio celebrato nel febbraio del ’52, testimone solo la luna piena di Capri: nelle sue memorie, Matilde ricorda “Pablo molto serio”, mentre spiegava al satellite che “non potevamo sposarci sulla Terra, però che lei, la musa di tutti i poeti innamorati, ci avrebbe sposato in quel momento, e che questo matrimonio lo avremmo rispettato come il più sacro”. Aspettavano un bambino, quella sera, uno dei tre che non sarebbero mai nati. Il loro unico figlio, “meraviglioso e grosso 180 pagine”, sarebbe stato un libro, il più famoso di Neruda, I versi del Capitano che, per riguardo a Delia, sarebbe uscito, in prima edizione, anonimo.

Hace hoy cien años exactos, un pobre y espléndido poeta, el más atroz de los desesperados, escribio esta profecia: A l’aurore, armés d’une ardente patience, nous entrerons aux splendides Villes. (Al amanecer, armados de una ardiente paciencia, entraremos a las esplendidas ciudades). Yo creo en esa profecía de Rimbaud, el vidente. Yo vengo de una oscura provincia, de un país separado de todos los otros por la tajante geografía. Fui el más abandonado de los poetas y mi poesía fue regional, dolorosa y lluviosa. Pero tuve siempre confianza en el hombre. No perdí jamás la esperanza. Por eso tal vez he llegado hasta aquí con mi poesía, y también con mi bandera.
En conclusión, debo decir a los hombres de buena voluntad, a los trabajadores, a los poetas, que el entero porvenir fue expresado en esa frase de Rimbaud: sólo con una ardiente paciencia conquistaremos la espléndida ciudad que dará luz, justicia y dignidad a todos los hombres. Así, la poesía no habrá cantado en vano

La rappresentazione raggiunge nella sua conclusione vertici di vera commozione, in un tripudio di musica, citazioni, canto… con le parole dell’accettazione del Nobel da parte di Neruda, che fanno poi da titolo al monologo.

Ma il sipario non si chiude, Francesco Tranquilli annuncia al microfono che tutti scenderanno dal palco per incontrare il pubblico. Mi giro. Mi guardo intorno. Non siamo molti. Fa freddino nel Teatro Filarmonici, il secondo teatro di Ascoli Piceno, un piccolo gioiello ottocentesco di 400 posti, distribuiti tra la platea, due ordini di palchi e un loggione. Nel 1917 era diventato cinema e su Ithaca ne abbiamo parlato QUI. Negli splendidi interni decorati dal noto sculture ascolano Giorgio Paci manca il pubblico (penso soprattutto ai miei studenti e alle mie studentesse) che non si sarebbe dovuto perdere un’occasione come questa (e pensare che ero corso ad acquistare i biglietti, appena venutone a conoscenza, temendo di non trovarli più). In sintesi, un gran bello spettacolo, elegante ed equilibrato nella sua fusione di arti diverse (poesia, recitazione, musica, canto) ed estremamente godibile anche per avvicinare il grande pubblico al teatro, alla poesia e alla Storia.

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