Jacopo Veneziani, il volto nuovo della divulgazione storico-artistica dai social passa al libro

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Jacopo, hai mai pensato di scrivere un libro?”. Questo è stato il primo contatto, peraltro su Facebook, fra un responsabile della Rizzoli e Jacopo Veneziani. Piacentino, dottorando a Parigi, dove vive da molti anni, ha un profilo Twitter da oltre 40mila follower (e uno Instagram da oltre 20mila) e già ben due libri pubblicati con Rizzoli. “E sì che ci avevo già pensato a scrivere un libro! Ho sempre voluto raccontare le tante storie della storia dell’arte perlopiù ignote al grande pubblico, gli aneddoti, le curiosità e gli enigmi che si nascondono dietro alle opere d’arte. Mai avrei però immaginato di poterlo fare sin dal primo libro con una grande casa editrice”.

L’occasione è la presentazione del suo primo titolo “#Divulgo – Le storie della storia dell’arte”, all’interno della rassegna “Incontri con l’Autore 40° edizione estate”, de I Luoghi della Scrittura e la libreria Libri ed Eventi, con il sostegno di Comune di San Benedetto del Tronto e Regione Marche. L’organizzatore, Mimmo Minuto, ha speso qualche parola sui social per commentare la serata a base di arte: “Difficilmente descrivo una delle serate che organizziamo. Ma quella del 23 luglio al Circolo nautico sambenedettese è stata speciale. Per l’ospite di grande qualità, per il pubblico (sold out da giorni), per chi l’ha presentato. L’ospite è Jacopo Veneziani, classe 1994, un futuro già scritto. Lineare, comprensibile, di contenuto. L’ha presentato Assunta Cassa. Brava, competente, è una valente pittrice, sintetica, domande brevi e spazio alla risposta. Cose che vuole il pubblico”.

La fama di Veneziani è nata dal progetto #divulgo, ovvero l’utilizzo dei 280 caratteri concessi da Twitter per raccontare a modo suo la storia dell’arte, un’idea rivelatasi vincente. “Ho scelto Twitter, anche se di nicchia, perché mi sembrava la piattaforma più adatta. Più di Instagram per motivi legati all’architettura del social: su Instagram l’immagine precede la parola, io non volevo scrivere didascalie, il lavoro dello storico dell’arte è incorniciare le opere con le parole”.

Lo sbarco su Instagram, comunque, è poi avvenuto, sempre sfruttando al meglio le possibilità offerte dal singolo social: si è concentrato molto di più sui video, facendo restare incollati i suoi follower ancora più a lungo. Che sia la lepre impaurita di Turner o le sette dita di Chagall, le nuvole del Mantegna o la bambina ne “La Ronda” di Rembrandt. “Io mi considero poco social, ma li utilizzo perché ormai sono un mezzo imprescindibile. La condivisione dell’arte, raccontata a modo mio, è sempre stato l’obiettivo ma in quanto appartenente a questa generazione l’unica vetrina non poteva che essere la Rete, la sola possibilità per essere notati”.

Dagli schermi degli smartphone a quelli della televisione il passo è stato sorprendentemente breve: è diventato uno dei volti della trasmissione Le Parole della Settimana su Rai3 e, sempre su Rai3, ha fatto il giurato per Il borgo dei borghi. Se il suo sogno è sempre stato diventare come gli Angela, suoi modelli fin da bambino, potremmo dire che l’obiettivo non è affatto lontano, anzi! Pacato, coinvolgente e fresco,  è davvero encomiabile la sua capacità di narrare storie senza banalizzare. D’altronde dietro i suoi prodotti culturali c’è un tradizionale e accurato lavoro sulle fonti, che segue con rigore i canoni della divulgazione scientifica e si propone di rendere più accessibili anche gli artisti tradizionalmente più ostici, componendo una storia dell’arte “alternativa” (almeno agli occhi del pubblico).

Nel mio lavoro di divulgatore non mi pongo come una Wikipedia parlante. Con gli smartphone in mano non ha senso imbottire il pubblico di date o riferimenti. Ma serve un linguaggio nuovo che faccia da trampolino, da stimolo per poi approfondire in maniera autonoma: un aperitivo che metta appetito e non la cena che rimane sullo stomaco, insomma. Parlare meno, senza la pretesa dell’esaustività, ma per creare interesse. Purtroppo quando visitiamo un museo, ci facciamo prendere da una foga, dalla bulimia di vedere più opere possibili, quasi dovessimo completare una lista della spesa; non ci prendiamo il tempo necessario per guardare, perderci nei particolari. Uno dei compiti che lo storico dell’arte dovrebbe avere è far prendere la consapevolezza che vale la pena rallentare. Per osservare dettagli nascosti, anziché i 15-30 secondi che mediamente si sta davanti a un’opera prendersi quei due minuti necessari per notare un quadro”.

L’arte è per tutti. Il mio scopo è disgregare una storia dell’arte monolitica, solo per addetti ai lavori, per ricavarne storie. Il dettaglio come qualcosa che rende digeribile ciò che altrimenti potrebbe risultare un “mappazzone”, come direbbe Bruno Barbieri. Non tutti possono (e vogliono) diventare Federica Pellegrini ma tutti possono farsi una bella nuotata in piscina. L’arte non è solo piacere per gli occhi, le opere si adattano alla nostra anima, sono come degli abiti della nostra interiorità. L’arte ci fa comprendere come l’altro non sia così altro da noi; ci rivela un substrato di umanità comune: dal bassorilievo maya a quella concettuale. Fa emergere l’essere umano come portatore sano di emozioni”.

Tecnicamente per scrivere il libro abbiamo fatto una sorta di casting con Rizzoli, una specie di X Factor con oltre 150 opere da cui ne sono state scelte 35 in quanto presentano dettagli significativi per parlare di storie, artisti e tempo. Dettagli non puramente aneddotici ma che permettono di scavare più in profondità. Dettagli che cerco di decontestualizzare per far capire la grande storia ma anche quella quotidiana che c’è dietro. Verso un’opera d’arte di un museo non dobbiamo porci come se fosse una star del cinema a cui proporre un selfie: dobbiamo recuperare la capacità di lasciarci sorprendere, più lentamente”.

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