Manuel Fazzini, 35 anni, originario di Stella di Monsampolo (AP) svolge il mestiere di illustratore a Roma da oltre cinque anni. In questa intervista ci racconterà il suo percorso e le tante (e importanti) soddisfazioni personali che sta ottenendo, accompagnandoci in un settore interessante ma poco conosciuto e considerato. PS. Per chi arriva a fine articolo, illustrazione omaggio dell’artista.
Sfatiamo subito un mito, si può vivere d’arte?
“Sì, la mia esperienza dimostra che è possibile. Certo, non è sempre semplice. Hai la tua bella partita Iva con annessi e connessi… Però mi sono convinto di una cosa: se viene bloccata, l’arte repressa trova il modo di uscire fuori, in un modo o nell’altro. Il vero problema è che nel nostro Paese, se si tratta di arte, si pensa subito a un hobby. E non smetto di trovarlo assurdo, visto che mi trovo in una piazza splendida [siamo seduti a un tavolino di Piazza del Popolo ad Ascoli Piceno, ndr] e l’Italia è tutta fatta da un tessuto diffuso di arte, storia, cultura, bellezza…”.
Penso sempre a una campagna di alcuni anni fa, “Freelance sì #coglioneNO”, molto divertente ma molto vera.
“A me non è capitato, ma a moltissimi capita spesso. ‘Ok, disegni ma poi che mestiere fai?’. Ebbene sì, fare l’illustratore è un mestiere. E quindi va remunerato. Personalmente non ho mai accettato lavori non retribuiti. Al classico ‘Mi fai il ritratto di…’: io ho sempre risposto, ‘Benissimo, questo è il prezzo’. Il lavoro creativo è lavoro e quindi si paga. Io comunque ho iniziato subito con grandi nomi e a loro non verrebbe in mente di proporti un lavoro solo ‘per la visibilità’”.
Ripartiamo dall’inizio allora, qual è stato il tuo primo incontro con l’arte?
“Ho sempre disegnato nella mia vita, con passione e buoni risultati. Da bambino, il primo ricordo di me che disegno è sul seggiolone: ricopiavo alcune copertine Disney. Cercavo sempre di copiare i personaggi. Alle medie ho anche frequentato un corso di fumetto. Fino a che, poi, ho scelto l’Istituto d’arte ad Ascoli. A scuola ero molto bravo. Ho scelto l’indirizzo ‘Disegno e Arti Grafiche’, che si concentrava sul disegno a 360 gradi. E all’epoca niente era digitale, avevamo certo i primi Mac colorati sul retro… Però ecco in laboratorio magari andavamo ogni tanto per impaginare qualche volantino per eventi e stop”.
E dopo il diploma?
“Ho iniziato subito a lavorare. Prima qualche lavoretto, commesso al centro commerciale, cose così. Poi sono passato a qualcosa di forse più in linea con i miei studi, anche se certo non era quello che volevo fare nella vita. Ero in un’azienda di Centobuchi (AP) e facevamo materiale pubblicitario di grande formato, allestimenti negozi, stampa. In pratica facevo lo stampatore, nel reparto digitale. Ero un operaio. A posteriori resto convinto che comunque ogni lavoro abbia una sua dignità e che ti dia tanto perché ti aiuta a individuare il lavoro che andrai a fare dopo”.
Il lavoro era appunto l’illustratore.
“Esattamente, però poi quando inizi un lavoro vedi i primi soldini e rimandi, rimandi, rimandi. Anche perché, in sé, mi trovavo bene. In un periodo un po’ strano nella mia vita, però, cose che erano successe, e… erano sei o sette anni che ero lì, ho iniziato a mettere in discussione tutto. ‘Ma io veramente voglio stare in una fabbrica in cui nemmeno ci sono finestre (ma vale lo stesso per il centro commerciale eh)..’. E la risposta è stata: ‘No, io non lo voglio fare’. Nella follia più totale io, assunto con contratto a tempo indeterminato, lascio. Non vivevo più con i miei, ero a San Benedetto del Tronto, ma torno a casa e dico loro che mi licenzio”.
Radicale.
“Senza voler essere presuntuosi, sapevo di averne le capacità. Considera che però nel momento in cui avevo iniziato a lavorare, avevo completamente accantonato il disegno. Per me era un argomento chiuso, anche mentalmente. ‘Non lo posso fare e quindi niente…’ In quel momento di svolta, avrei voluto provare a fare direttamente l’illustratore ma: ero fuori dal giro (anzi non ci ero mai entrato), mi mancavano tante basi e per di più avevo perso la mano, non esercitandomi più. Senza contare che nel frattempo eravamo passati dall’analogico al digitale. La mia generazione è stata la più colpita da questa ventata di cambiamenti epocali: dobbiamo saper fare tutto, essere tuttologi, avere esperienza pur essendo giovani, non avere pretese ecc.”
E allora che hai deciso di fare?
“Mi sono detto: mi rimetto a studiare. Chiaramente fra mille domande: ‘Ce la farai?’ Ti fai le tue valutazioni a livello economico, se riesci a sostenerlo. Alla fine ho deciso di iscrivermi allo Ied (Istituto Europeo di Design) a Roma, un bell’investimento. L’ho scelto però in quanto equivalente a una triennale dell’Accademia di Belle Arti, che non faceva al caso mio perché non c’era illustrazione. Inoltre essendo vecchio per impostazione e vecchio rispetto ai miei compagni… volevo qualcosa di professionalizzante e subito spendibile. Peraltro l’Accademia l’aveva fatta mia sorella (in Restauro) e quindi la conoscevo anche dall’interno”.
Non sei l’unico artista in famiglia allora!
“No, no anzi! Oltre a mia sorella, c’è anche mio padre: fotografo professionista. L’immagine è per me tutto. L’arte, insomma, in famiglia c’è sempre stata, se si esclude mia madre, commerciante con edicola, cartolibreria e giocattoli. Anche se pure questo ha avuto una fortissima influenza su di me: sono cresciuto in mezzo alla carta, ai giornali, alle riviste, ai libri. Mi affascinava vedere le loro immagini, chiedendomi come si riuscissero a fare”.
Sarebbe stato il mio sogno. Anch’io feticista della carta.
“Tornando allo Ied. Lì fu una bellissima esperienza, mi diplomato in tempo e col massimo dei voti. D’altronde rimettersi a studiare a 27 anni… Di fatto facevo solo quello, nessuna vita privata né altro. Ogni giorno sapevo di andare lì e pagare profumatamente quel docente. E se la vedi così… Uscito da lì, comunque, inizia la vera guerra: si contano sulle dita di una mano quelli che ce la fanno. A scuola sei protetto, fai i tuoi progetti. Finita quella i voti pur eccellenti non ti servono proprio a niente. Devi far vedere chi sei, tutto quello che hai imparato lo devi sintetizzare in un portfolio di max 10 disegni”.
E che hai fatto a quel punto?
“Devi sapere che, materialmente, un illustratore non sa manco dove portarlo un curriculum. Lì è entrata in gioco la mia estrema testardaggine. Io sono esigente con gli altri, ma innanzitutto con me stesso. Da vero puntiglioso, le ho provate tutte. C’è voluto tempo. E nessuno può aiutarti: ex compagni d’università ed ex docenti sono ormai competitor. Io però una cosa so fare nella vita: l’illustratore. Se prendo una decisione è quella, nessuna sfumatura è ammessa (ironico per un illustratore in effetti). Ho iniziato a propormi. Ogni giorno proponevo il mio portfolio, sintesi del mio stile definito, riconoscibile anche se in continua evoluzione. Lo devi mandare a tutte le possibili riviste e quotidiani italiani ed esteri”.
Non c’è nessuno che può farlo per te?
“Esistono delle agenzie in effetti. Io sono rappresentato in esclusiva in Cina da una e per il resto del mondo, non in esclusiva, da un’altra. Però ecco loro ne rappresentano tanti, possono proporre certo ma poi è il cliente a decidere. Io da parte mia faccio molta ricerca e mi propongo direttamente. Ci vuole sempre una bella faccia tosta, ma il fatto è che nessuno altrimenti verrà a bussare alla tua porta. A parte quel pugno di illustratori di grido che vive una rendita di posizione, in Italia… In particolare uso molto Instagram, il mio profilo (anche se nel frattempo questo social sta cambiando pelle molto profondamente) è quasi essenzialmente una sorta di portfolio. Se ti facessi vedere la mia galleria sul telefono, si tratta al 95% di screenshot di riviste, profili social, contatti ecc. Però i risultati si sono visti da subito. Non ti dico la soddisfazione di andare in edicola e vedere che ora ci sono i miei, di disegni”.
Dal punto di vista pratico come fai?
Prendiamo un lavoro recente, di cui vado particolarmente fiero, il Washington Post. Come ho fatto? Semplicemente ho scritto su Instagram all’art director. ‘Ciao sono Manuel, un illustratore di Roma. Se vuoi questo è il mio profilo o sennò per mail posso girarti il mio portfolio’.
Cantava Battiato in Up patriots to arms: “Mandiamoli in pensione i direttori artistici. Gli addetti alla cultura”.
“In molti casi potrei concordare, in Italia, ma lui invece mi ha risposto. Sì, negli Stati Uniti tendenzialmente rispondono: lì, il mio, viene considerato un mestiere con la sua dignità. Una domenica mi ritrovo una mail nello spam ed era lui. Analoga la situazione con Amazon: vedo un numero dalla Germania e non rispondo, pensando al solito call center. E invece mi hanno preso per Audible, gli audiolibri. Ovunque ovviamente non mancano quelli che visualizzano e non rispondono, ma fa parte del gioco. Come nel corteggiamento al tempo del web 2.0”.
Ah guarda, non disegno ma di questo ne so qualcosa. Ma dimmi, per chi hai lavorato e per chi vorresti lavorare?
“Ti dico subito, io sono fatto per i giornali. E intendo i quotidiani e periodici, riviste… E ti spiego il perché. Io adoro disegnare qualcosa che sia veloce, che lo guardi ed è già vecchio, la butti via e ne rifaccio un altro”.
Io però adoro le riviste da conservare.
“Ah ma quelle sono sacre. Quali leggi?”
Su Instagram sono @lejacobin e quindi già avrai capito… Poi ce ne sono altre di nicchia come Menelique.
“Le conosco, mi piacciono. Per il resto te ne parlo off the records per ora”.
Vanno molto le graphic novel al momento.
“Scrivi, mi raccomando, che sono aperto a valutare tutte le proposte ma… sarò sincero. Mi interessano relativamente. Per un illustratore, mettiti nei miei panni, rifare centinaia e centinaia di volte lo stesso personaggio. Troppo per me. Vale lo stesso per l’animazione, la Disney usa per ogni secondo 24 fotogrammi, cioè 24 disegni! Peraltro avrei già ricevuto ottime proposte in quest’ultimo settore, per pubblicità negli Usa”.
Di cos’altro vorresti occuparti davvero allora?
“Mi piacerebbero molto le copertine dei libri. One shot e via. Che è poi quello che sto facendo in digitale per Audible relativamente a tutta l’opera di Cesare Pavese: è appena uscita la prima, de ‘La luna e i falò’. Con questa e le altre, sempre diverse, potrò sbizzarrirmi. Potrebbe anche piacermi fare un libro con le mie illustrazioni, ma il problema è che adesso gli editori pretendono il pacchetto già completo. Ovvero tu scrivi, io illustro e poi portiamo il tutto già finito a vari editori per farci pubblicare…”.
Fra le riviste e i quotidiani?
“Lì ho avuto collaborazioni importanti, ti dico solo il Corriere e i suoi inserti, ovvero lo storico e più importante quotidiano italiano, per capirci. E poi spesso La Stampa ecc. Se hai consigli però io prendo nota, lo sai”.
Nel settore della pubblicità che hai fatto?
“Ho lavorato per le Assicurazioni Generali, ed ero fresco fresco di università. Fu il primo lavoro retribuito. Nel settore però troppo spesso capita che il grafico interno faccia l’illustrazione, con risultati… Non farmi aggiungere altro. Invece, se hanno un budget, allora chiamano il grandissimo nome. Di recente invece ho fatto l’artigiano per Dolce & Gabbana. L’ho fatto per parecchio. In pratica ero alla Rinascente di via del Tritone e personalizzavo live in boutique sneakers, profumi, borse. C’era un catalogo di disegni che potevi fare”.
Come e dove lavora un illustratore?
“Da casa o da studio, se lo ha. Essenzialmente hai bisogno di un computer, di una connessione internet e di una scrivania. Stop. Nel mio caso, diversamente da altri, faccio un mix di digitale e manuale. Mi piace unire vecchio e nuovo. Faccio tutto fatto su carta, poi scansiono e riporto su Photoshop; un po’ come nella serigrafia, lavoro per livelli: scompongo nella mia testa tutti i miei disegni, su uno l’outline, su uno un colore, su un altro un altro colore e così via. È come se il mio disegno sia composto da tanti fogli di carta lucido sovrapposti”.
Come mai sei rimasto a Roma?
“Dopo averci studiato, qui sono rimasto, ma potrei lavorare dalla cima di una montagna, se ho internet. O da Parigi, visto che so che è una città a te cara [mi ci sono laureato, ndr]. Un posto incredibile, per un creativo poi… Lì si vive meglio d’arte”.
Che tempi hai per un lavoro?
“Quando è per i giornali, non hai tempo. Sul cartaceo si tratta di tre o massimo cinque giorni. Per una newsletter, altro settore in crescita, anche un giorno solo. Però è il tuo lavoro, devi saperlo fare. Vivi in costante ansia, ti arriva la mail e abbandoni tutto quello che stavi facendo (vacanze ecc.). Perché altrimenti ti giochi lavoro, visibilità, possibilità di essere richiamato. Ho detto dei no eh, ma solo dopo calcoli sui tempi che hai, sugli altri lavori e sul budget per quello che ti sta venendo proposto”.
E il grado di libertà nell’interpretare?
“Un premessa”.
Ti ascolto.
“No, non a te ma al committente. ‘Io sono Manuel Fazzini e disegno con questo stile le persone, così gli ambienti ecc.’. D’altronde se ti hanno scelto, soprattutto per i giornali, è perché vogliono te. In altri casi invece la premessa è essenziale. Ovviamente l’art director ti dà delle dritte. Tu mandi due, tre bozze a matita e via (anche perché i tempi sai quali sono ora)”.
Abbiamo tanto citato il tuo stile, ma com’è?
“Ho ricevuto dei no perché è stato definito poco commerciale”.
Un complimento, no?
“Sì, ma io devo mantenermi! Io sono fuori dalle righe e me ne rendo conto. Ho un segno dinamico, fluido, quasi in movimento, molto particolare. Se tu compri un determinato giornale e vedi subito che pubblicano tutti illustratori dalle tinte piatte, non vedi sfumature, magari non vedi l’outline… non sarà quello il posto per me. Io uso un outline molto fluido, quasi liquido, dinamico; la mia colorazione è tutta fuori registro, è tutto sporco. Se proponi a una determinata rivista che ha uno stile diverso… E io ci ho provato eh”.
Guardando i tuoi lavori penso a Schiele.
“No, non è vero. Te l’ho detto io prima e ho aggiunto che essere paragonato a lui mi lusinga certo… Ma non sempre. Quando disegno per me, quando riesco a sfigurare di più la figura umana, a renderla nodosa quasi come degli alberi riconosco una parentela con lui. E poi mi piacciono le persone magrissime, di cui si vedono quasi le ossa. Ma anche all’opposto, persone in carne. Con loro ti senti libero nella gestualità. Disegnare un fisico perfetto è noioso. È la classica persona che non guardo. Infatti il periodo pandemico mi ha ucciso: io continuamente osservo, guardo, riporto su foglio. Non vedere le persone o vederle con le mascherine era un forte limite. A me piace andare in metro, immergermi in una realtà multietnica, particolare. Fotografare (solo mentalmente o su carta, col telefono non si può purtroppo, no?). Ed è così che vedi qualcuno di interessante, trovi quell’anatomia divertente. Questo è il mio modo di vedere il bello, io disegno il curvo, il morbido, il fluido, il decadente”.
Quanta ricerca c’è prima di un lavoro?
“Prima di un’illustrazione compulso Google, Pinterest, Instagram ecc. Cerco di capire se quello che ho in mente non l’abbia già fatto qualcuno. E poi cerchi qualcosa che ti può ispirare. Una palette colore, delle cromie, delle forme. Guardi, immagazzini delle immagini e le fai tue. Io mi rifaccio molto all’arte, quadri famosi, prendi un Magritte. Li utilizzi. Oggi per un lavoro m’ero detto di partire da Klimt, poi ho fatto tutt’altro, ma intanto parti dalla storia dell’arte e studi come quel tema si sia evoluto e sia stato rielaborato nel tempo. L’importante è avere il tuo stile. Per il resto si tratta di citazioni. E poi certo c’è la fotografia, con cui lavoro molto. Sia quelle famose, sia io stesso facendole. Banalmente, se ti devo fare ora un ritratto, ti faccio una foto di un certo tipo e via”.
Ma me lo fai gratis?