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Samuele Ripani, il fotografo di moda si racconta

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Cosa bolle in pentola, Samuele?

Mi sono scoperto fotografo di moda. E mi sta piacendo tantissimo. Scatto in studio per un fine puramente estetico, senza un messaggio. Mi piace l’atmosfera di uno shooting, mi piace collaborare con le stiliste e gli stilisti, con truccatori e truccatrici, hair stylist, art director, ecc. Mi sento finalmente, del tutto, nel mio mondo. Un mondo di professionisti. Un mondo in cui la fotografia professionale ha il suo posto”.

E come ci sei arrivato?

Da non troppo tempo ho concluso il mio percorso alla Dam Academy, dopo aver lasciato l’Accademia di Belle Arti che ho frequentato in precedenza. Ora posso dirmi ufficialmente ‘fotografo’, un grandissimo traguardo. Eppure, non saranno un titolo o un pezzo di carta a renderti un fotografo, nemmeno il possesso di una bella macchina fotografica. Io mi rimetto costantemente in dubbio. Guardo quello che faccio e mi dico: ‘Ha senso?’ e se penso in quel momento di no, ricomincio cambiando anche tutto. La bellezza di non sentirsi arrivati è la fame che ti fa continuare a cercare”.

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Dicevamo della moda.

Sì, molti dei miei docenti sono affermati fotografi di moda. In molti casi, al di là della formazione, mi hanno chiamato come loro assistente sul campo e mi sono così avvicinato sempre di più a questo mondo. Mi fa piacere citare Daniele La Malfa che mi ha chiamato come assistente luci e digitale per gli scatti di grandi case di moda”.

Il tuo talento è stato subito notato.

All’ingresso avevo ancora tante lacune tecniche. In quell’ambiente ho conosciuto e mi sono confrontato con tanti fotografi di grande competenza, con cui mi sento ancora molto. Tutti hanno fin da subito avuto molto (o almeno un po’) da ridire sulle foto che facevo. Sono sincero, il dispiacere può anche essere tanto all’inizio: le foto sono una forma di espressione di me, di ciò che sono e sento. Al contempo le mie capacità venivano riconosciute e questo mi ha permesso di fare bellissime esperienze, come dicevo. Io sono arrivato alla Dam anche proprio per capire come funziona la testa di altri fotografi. Cercare nel confronto con loro, nell’accordo e nel disaccordo, un modo per maturare, per crescere come ‘artista’ (se vogliamo definirmi così)”.

Ad esempio?

“Penso ad un progetto: ‘Solitudo’. L’ho elaborato con una fotografa di moda grandissima, Roberta Krasnig. Io avevo in testa qualcosa di super elaborato e molto complesso. Lei mi ha iniziato a ripetere: ‘togli togli togli’. Ed è venuto fuori il bianco e nero. Lei mi ha fatto capire che è la foto che deve comunicare. Togliere rende di più”.

E per l’inserimento professionale qual è stato il contributo della Dam Academy?

Sono molto attenti a questo aspetto. E non parlo solo per la moda. C’era il food, c’era lo storytelling ecc. Ma in generale loro ci tengono a farti capire una cosa essenziale. La foto è innanzitutto qualcosa di tuo, deve dire qualcosa di te e poi si vede come farla incastrare con ciò che richiede il potenziale cliente (che è un aspetto più che fondamentale). Io da parte mia mi sento di dire, a chi vuole intraprendere questo tipo di percorso, di avere bene in mente gli obiettivi che si vogliono raggiungere. Bisogna capire cosa si vuole, esserne consapevoli, altrimenti… si esce non molto diversi da come si è entrati”.

Cosa che a te non è successa.

“Ne avevo di strada da fare, me lo ricordavano e io lo sapevo. E per questo non ero mai sazio. A fine lezione chiedevo sempre se dovessero scappare e rimanevano se possibile a parlare. Una ventina di minuti qua e là… e cercavo di assorbire qualunque cosa fosse utile. Bisogna essere molto proattivi, sennò non ne ricavi abbastanza”.

Scattare non più liberamente ma come lavoro, in modo continuativo, si è rivelato semplice?

“Ora lo è, ma inizialmente è stato molto pesante. E infatti mi stava venendo a noia la fotografia stessa. A quel punto ho fermato tutto, mi sono riposato. Ovvero ho studiato molto, ho approfondito ma non scattavo. Per mesi. Mi sono voluto innamorare di nuovo della fotografia. A quel punto ho ripreso l’analogica e mi ci sono dedicato completamente. Tutto il lavoro preparatorio prima di andare a scattare e poi lo scatto e, a distanza (quando te lo sei praticamente dimenticato) il momento dello sviluppo. Senza possibilità di post-produrre”.

E la fotografia digitale?

“C’è una sorta di divisione dei compiti: l’analogica è personale e la digitale è professionale. Ora, quando vado sul set non mi pesa affatto (certo dipende pure dall’ambiente che trovo, ovvio). Sono perfettamente in grado ora, e l’ho appreso studiando: quando si lavora, si lavora, tutto il resto rimane fuori dal set. Non è più una forzatura, è lavoro. Si discute cosa fare e come farlo, si mette un po’ di musica a tutto volume e si scatta. Nell’analogica, invece, cerco la spontaneità. Spesso fotografo la natura. Anche per capire proprio bene come funziona la pellicola. La pellicola mi sa di qualcosa di vivo. E non mi importa il risultato che verrà fuori”.

Lavorerai mai con la pellicola?

“Non lo so, chissà. Forse in futuro ci costruirò dei progetti miei personali. Per il momento mi costa anche solo mostrare da lontano quello che faccio. Perché non sto raccontando nulla, non c’è una ricerca dietro che per me merita di essere vista, esposta al mondo. È presto. Non voglio solo fare una bella foto, ma una foto che meriti di occupare un posto sul muro”.

Il tuo stile è evoluto?

“Sì, fare foto tristi non è più lo scopo per cui scatto. È stato un percorso complesso ma non funziona più come prima, quando ero dell’idea che ‘scatto, quando sono triste, e, quando sono felice, vivo’. E in questo il rapporto con tutto il lavoro che c’è dietro la pellicola ha contato molto. Un fotografare totale, a 360 gradi. Io sono felice con la fotografia. È sia un piacere da tempo libero sia un lavoro. E quindi, in un certo senso, sono sempre ‘contento’. Mi sento più tranquillo. La fotografia non è un hobby per esprimere il mio malessere nei ritagli di tempo, ma la mia identità anche professionale. Il mio stile è più giocoso oggi, più spontaneo. Mi piace lavorare molto con le luci, con le pose, con i vestiti. Per questo sto sentendo molto nelle mie corde la fotografia di moda”.

E lo fai in una Roma in cui inizialmente non ti trovavi troppo.

Esatto. Il rapporto con la città non era scattato. Ero rimasto troppo legato alle piccole realtà provinciali di cui sono originario. Ai rapporti che lì avevo costruito. Oggi quando torno ad esempio a San Benedetto del Tronto non trovo niente per me. Mi sembra di parlare con mummie senza un’apertura sul mondo, senza stimoli. Al contrario ho costruito rapporti fondamentali e bellissimi con persone che ho conosciuto sul set: penso a Giulia, Beatrice, Aurora. La prima make-up artist alle sfilate di Altaroma, la seconda modella professionista, la terza ha concorso a Miss Italia ed è modella professionista. Barbara Di Roma la fotografo da anni è fra le mie amiche più strette: attrice professionista è stata protagonista di un corto candidato agli Oscar”.

Per quanto riguarda le mostre? Ho visto che partecipi a tante ultimamente.

“Hai ragione. E sono felice che stiamo avendo successo foto in un certo senso datate, fatte anni fa. Oltre a Roma (ma anche dintorni), dove ho esposto molto, sono arrivato fino a Venezia, Milano, Messina in Italia e fino a Zurigo e Atene all’estero. L’obiettivo resta sempre Parigi, dove sono stato anche valutato per alcune occasioni ma poi per problemi di tempistiche non ce l’abbiamo fatta. Inizialmente ero io che mi proponevo, ricevendo una marea di no. Quando poi ho iniziato a comparire, gli inviti hanno iniziato ad arrivare da soli”.

Complesso il mondo dell’arte.

“Sì. Ognuno fa i suoi interessi. Anche se ci sono eccezioni, voglio citare Francesco Zero. Uno scultore che mi ha chiamato ad esporre con lui semplicemente perché ama l’arte e ha apprezzato ciò che faccio.

Qualcuno compra alle mostre?

“Oggi nessuno, nemmeno io, compro fotografie. Tutti fotografano con lo smartphone o al limite scaricano da internet e stampano a piacimento. Però è importante sostenere l’arte nelle forme in cui si può. Andare alle mostre, visitare gallerie, far lavorare i giovani. Crederci, insomma. Anche quando l’arte sembra strana all’occhio dello spettatore. Deve esserlo perché è in perenne ricerca. Quando Baudelaire escludeva la fotografia dall’arte, noi siamo andati avanti e non ci fermiamo nemmeno oggi”.

Appunto, per noi neofiti, lasciaci dei nomi imprescindibili per capire la fotografia.

“Sarebbero troppi, ma voglio lasciarti questi. Tutti devono conoscere Robert Capa, Luigi Ghirri, Franco Fontana, Philippe Halsman. Io poi, quando insegno, uso moltissimo Francesca Woodman. Ricordo a tutti gli aspiranti fotografi: bisogna conoscere quello che c’è stato prima di te. È fonte di ispirazione, possibilità di confronto.  Ma soprattutto ti fa innamorare ancora di più e ti fa capire come strutturare meglio il tuo lavoro”.

Comunque, prima ancora dei galleristi che ti riconoscono, ci sono io che ho proposto da un po’ una tua personale.

E non l’ho dimenticato. A te la presentazione e, poi, lancio un appello ad Anastasia Fioravanti [che abbiamo intervistato QUI, ndr] affinché porti il suo eccezionale contributo musicale”.

Speriamo che si comprenda anche da noi la necessità di valorizzare i talenti. Noi di Ithaca lavoriamo anche per questo.

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