Luce e oscurità nella fotografia di Samuele Ripani

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Fiat lux. Dopo appena un anno, ritorniamo sul luogo del delitto (artistico), con un’intervista al giovane fotografo Samuele Ripani a San Benedetto del Tronto. Il motivo è presto detto, la nostra prima chiacchierata insieme – anche a distanza di tempo – ha riscosso un interesse notevole (ve la siete persa? Farò finta di nulla, ma recuperate QUI) e allora… eccoci pronti ad aggiornarci, facendo uscire il nostro simpatico artista dalla sua amata penombra.

Iniziamo subito a bomba, vedo. Sì, sono un vero appassionato del buio. Chi è venuto almeno una volta a casa mia ha visto che vivo esattamente nella penombra. Paradossale che il mio mestiere si fondi proprio sul giocare con la luce, ma ecco… mi piace usarne poca ma buona”.

Nell’oscurità l’immaginazione lavora più attivamente che in piena luce, mi pare dicesse Kant.

“Lo scorso anno ti avevo raccontato di aver maturato un’evoluzione verso una fotografia dai colori più tenui e desaturati. Però, avevo aggiunto, non sapevo ancora se un domani sarei tornato al lato oscuro e… effettivamente ci sono tornato alla grandissima. E vorrei farti capire il motivo. Io, per un certo periodo, ho come scacciato l’elemento umbratile che provava a emergere dai miei scatti. Vedevo la fotografia come una fuga dalla mia realtà interiore nero pece. Poi, l’illuminazione (scusa il gioco di parole): avevo capito che non dovevo subire il mio mood, cosa che anzi lo peggiorava, ma piuttosto prenderlo e addomesticarlo, sfruttandolo ai miei fini artistici. Da quel momento sono tornato a scattare al buio. E tutto questo mi libera, è una vera catarsi. Io prendo il nero che ho dentro, lo strappo e lo butto in una foto. E mi sento più leggero”.

E non a caso siamo qui nel tardo pomeriggio, per tua espressa richiesta. Ti vedo più sciolto, comunque.

“Sì a quest’ora almeno c’è un po’ meno luce… Comunque sì, quest’anno ci sono state tante interviste, tanti eventi in cui sono stato più o meno protagonista e ora va meglio. La tua è stata la prima intervista, quella che mi ha sbloccato, che mi ha dato una mano a capire come gestire l’ansia, come prepararsi a rispondere ecc. Con te si riesce a essere totalmente a proprio agio”.

Ti ringrazio molto. Ma invece per quanto riguarda l’ansia per la fotografia?

“Scattare mi spaventa tanto quanto lo faceva le prime volte. Piacerà, qualcosa andrà storto? Io prima dello shooting non riesco proprio nemmeno a mangiare. In famiglia mi dicono da sempre che mi sono perso e mi perdo tante tante occasioni di crescere, tante occasioni come persona… per la mia ansia, che è anche ansia sociale, che è insicurezza totale. Io raramente esco, tranne che quando sono fuori per le foto. Ho paura, mi spaventa fare qualcosa di nuovo. Io ho paura anche dopo aver realizzato opere che mi soddisfano particolarmente… Per un po’ me ne sto fermo, perché mi demoralizza pensare di fare cose inferiori”.

Non vedo molto bianco e nero nelle tue realizzazioni, ora che ci ripenso.

“Cerco di evitarlo. In quel caso il nero viene considerato come un’alternativa al bianco e al grigio, mentre nelle foto a colori te ne accorgi molto di più. Volevo dare a questo colore un ruolo preciso nella mia fotografia. La mia ultima produzione è ricca sia di oscurità che di elementi propriamente neri”.

La prevalenza di ritratti è rimasta?

“Avoja, io sono un ritrattista ossessivo. Lì ho trovato la mia vocazione. Vivendo più o meno stabilmente a Roma, lì ho selezionato i miei nuovi soggetti. Perlopiù modelle, che contatto io cercando qua e là. Spesso, per il passaparola o vedendo online le mie opere, vengo cercato. Se mi si chiede uno shooting per un book o simili, sono di solito disponibile. Ma per i progetti davvero miei sono estremamente selettivo. Mi dispiace eventualmente scartare (per darti delle cifre, ne accetto una su cinque), ci stavo malissimo all’inizio e ora solo leggermente meno… Però devo essere assolutamente convinto. Devo avere davanti a me qualcuno che reputo interessante per i miei fini. Deve poi esserci qualche elemento del soggetto che parla di me: carnagione, occhi ecc. E in una ragazza riesco a trovare una maggiore sintonia, la trovo più versatile, più empatica, più sensibile”.

Quindi, non avendo gli occhi azzurri e non essendo una ragazza, non posso sperare…

“Ma no, per te faccio un’eccezione. Dopo ci mettiamo d’accordo, con te so che abbiamo in comune molti degli elementi interiori di cui abbiamo appena parlato. O no?”

Sì, ma le domande le faccio io. Ci faresti un recap delle tue attività quest’anno?

“Allora, innanzitutto ho partecipato a una mostra organizzata dalla galleria d’arte contemporanea Mario Mazzoleni, a Venezia. A Roma, tramite il concorso ‘People’ della Bresciani Visual Art, sono stato anche qui selezionato, fra centinaia di fotografi anche internazionali: eravamo quaranta in tutto. E poi ha conosciuto Francesco Zero, un gallerista che mi ha preso sotto la sua ala. Grazie a lui, le mie opere sono arrivate al Palazzo della cultura di Messina, dove sono state due-tre settimane. Sempre con lui, abbiamo in programma di realizzare un’esposizione a Castello Teodoli, vicino Tivoli.
Un mondo interessante quello delle mostre, ci incontri personaggi d’ogni tipo. Io andavo in giubbotto di pelle e Vans rotte ai piedi, accanto ti trovavi gente tutta rivestita che faceva la guardia alle proprie opere con sguardo arcigno, altre volte capita di incontrare gente particolare come un pittore dalle sembianze del classico scienziato pazzo ecc. A me piace andare personalmente a vedere l’ambiente, cosa è stato esposto, cosa succede. Ora sono in contatto con un collega conosciuto lì, con cui mi confronto, e con un pittore che prende ispirazione dai miei ritratti per alcune sue opere”.

Nemo propheta in patria, invece?

“Facciamo finta che io non ti abbia appena chiesto la traduzione. Insieme ad Anastasia Fioravanti [l’abbiamo intervistata QUI] abbiamo pensato di creare qualcosa insieme, qualcosa che unisca le nostre arti: la musica e la fotografia. Certo ci dobbiamo lavorare, tra io che sto a Roma ma sono spesso in giro e lei fra Bologna e Imola… Ci piacerebbe comunque fare qualcosa qui, a metà strada fra noi, a San Benedetto, magari alla Palazzina Azzurra o a Palazzo Piacentini. Male che vada sennò affitteremo uno spazio nostro”.

E in particolare in questo periodo a cosa lavori?

“Oltre che per il tuo servizio intendi? In realtà, io penso alle foto h24: sono sempre lì a cercare come raccontare qualcosa di nuovo di me. Sta scattando molto poco, però. Penso ma non realizzo, sarà il 99 per cento in meno di prima. Ho capito che fotografare mi fa bene, ma allo stesso tempo mi devasta. Mi sento come qualcuno che deve calarsi in un pozzo a riportare fuori la preziosa acqua e più va giù più viene apprezzato fuori, per la sua opera ma… a un certo punto la corda si spezza e rimane sotto. Prima di tornare qua, ho passato quattro mesi neri”.

A Roma all’Accademia di Belle Arti com’è andata quest’anno?

“Non continuerò con il terzo anno lì, ma mi sposterò per un corso molto intensivo presso la Dam Academy (dove con mio grande piacere accanto al mio gruppo di fotografi e videomaker ci saranno i miei amati tatuatori). Ho vissuto molto male l’Accademia, anche perché ho beccato appieno il periodo Covid e… Sono stato mesi di fronte a uno schermo a sentire lezioni su cose che conoscevo già. Io ho bisogno di creazione.
Devo aggiungere però che ho passato anch’io abbastanza tempo dalla parte dell’insegnante teorico. Faccio corsi online, per esigenze tecniche. Ho iniziato anni fa nella mia scuola superiore, mentre ero ancora uno studente e, da lì, ho capito che la fotografia mi piaceva anche trasmetterla. E, in effetti, a me piace condividere le mie conoscenze. Adesso insegno a cinquantenni e sessantenni. Straniante all’inizio, ma mi piace molto, perché si accendono di passione. Alcuni, oltre alla fotografia base, chiedono proprio la tecnica e la psicologia del ritratto. ‘Voglio anche solo lontanamente intuire come arrivi a fare quello che fai’ mi dicono”.

E hai visto le loro realizzazioni?

“No, però ci siamo lasciati con un: ‘Ok, maestro: hai parlato, posso andare a fare ritratti’”.

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