«Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo ‒ e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico ‒ allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille. È troppo solenne e glorioso il paragone?».
Così Dino Buzzati inviato al Giro d’Italia, scriveva della diciassettesima tappa sull’edizione dell’11 giugno 1949 del Corriere della sera.
Buzzati è stato uno scrittore, giornalista, pittore, drammaturgo, librettista, scenografo, costumista e poeta italiano del ‘900. Da buon giornalista, riusciva a scrivere di cose che conosceva solo vagamente o non conosceva affatto.
Da buon letterato, disegnava con parole acconce ciò che vedeva e che viveva come metafora dell’esistenza: “pedalano tra campi, colline e selve, sono pellegrini in cammino… simboleggiando in carne ed ossa, come in un quadro di pittore antico, la incomprensibile avventura della vita”.
Mi piace il ciclismo ed ho sempre sognato di poter seguire un Giro d’Italia e scrivere del Giro. Non tecnicamente, perché non ne sarei capace. Vorrei scrivere come scrivevano gli scrittori di un tempo che i direttori delle grandi testate trasformavano cronisti del Giro, ma che non avevano mai visto una corsa ciclistica su strada. Successe con Achille Campanile (Milano sera), Alfonso Gatto (L’Unità), Vasco Pratolini (Nuovo corriere), Anna Maria Ortese (Europeo); in fondo anche Gianni Brera e Gianni Mura erano intellettuali, ultimi cantori prestati allo sport.
Il Giro non mi è mai riuscito di seguirlo, ma dietro una corsa ci sono andato. Era il 1976 e il Gruppo Sportivo dell’Elettrocarbonium, allora guidato dal mai dimenticato Pippo Mascetti, aveva organizzato una gara di ciclismo per squadre nazionali. Seguii la corsa su una motocicletta del seguito. Fu un’esperienza esaltante, ma anche traumatuca per come guidavano spericolati. Non sono più salito su una moto.
Giro d’Italia e Tour de France: erano le classiche che affascinavano. Il Tour era più vecchio della corsa rosa e per primo portò i corridori sulle montagne. Peyresourde, Aspin, Tourmalet, Aubisque erano finiti in una tappa già nel 1910. Da Luchon a Bayonne c’erano 326 chilometri da percorrere e partirono alle 3,30 del mattino. Robba da non crederci! Salirono il Tourmalet su una strada larga tre metri, letteralmente scavata nella neve. La discesa era fantastica, sembrava di cadere in un abisso. Col rischio di caderci sul serio. Tourmalet nel dialetto locale significa “brutto passaggio”, e non c’è bisogno di tante spiegazioni. C’erano storie terribili di briganti, di orsi, di massacri, di viandanti assaliti da lupi. Ed anche misteri ciclistici. Raccontano che il francese Duboc avesse affrontato i Pirenei da primo in classifica, ma ad un certo punto si fermò in un fosso e ripartì dopo quattro ore. Dicono che qualcuno gli avesse messo un bel po’ di purgante nella borraccia. Come a Bottecchia nel ’26. Ad altri, come Lambot, furono segati i freni. I briganti, insomma, andavano anche su due ruote. Ma le Tour c’est le Tour, sà vant aussì!
Come mio padre, sono cresciuto rigorosamente bartaliano. A dispetto del suo amico Saturnino, che tifava invece Coppi. “Un tifoso però non dei peggiori”, diceva di me Saturnino, in uno slancio di pelosa sportività, con la spocchia però di saperne un po’ più di mio padre, per il fatto d’essere lui usciere in Provincia e mio padre solo “sartore”.
A dire il vero la mia ammirazione era più per Michele Gismondi, il gregario, ma mi vergognavo a dirlo, mi avrebbero preso per matto. Mi piaceva il suo spirito di sacrificio e la sua totale dedizione al capo. Oltre al fatto, non marginale, che era della mia provincia, Montegranaro, quindi uno di casa. Tutti i campioni avevano i loro gregari, che erano tutt’altra cosa di quelli d’oggi, capaci solo di tirare all’occorrenza. Il gregario degli anni cinquanta tirava anche lui, ma soprattutto riforniva il capitano d’acqua, gli passava la gomma, se non la bici, in caso di foratura e lo spingeva di peso in salita in caso di “cotta”, che a quel tempo nei giri arrivava puntuale come l’influenza stagionale.
Pochi sanno che Gismondi fu l’ultimo gregario di Fausto Coppi: un angelo custode senza ali, ma con due gambe capaci di spingere persino una montagna.
Poche vittorie, ma una carriera di tutto rispetto:il Gran Premio Belmonte Piceno 1953, il Gran Premio d’Europa a Imola nel 1958 e la Coppa Agostoni nel 1959 in aggiunta a due quarti posti ai campionati del mondo nel ’53 a Lugano e nel ’54 a Solingen, ed un secondo posto a Zandvoort, nel 1959, battuto in volata dal francese André Darrigade, che però doveva essere squalificato a termini di regolamento. Lo disse in diretta alla Rai Adriano De Zan, lo urlò Gismondi, ma il C.T. azzurro Alfredo Binda non fece ricorso.
Coppi lo volle sempre al suo fianco, su lui poteva contare, sapeva quando poteva essere determinante per i suoi affondo, ritto sui pedali, pronto a fare il vuoto alle sue spalle.
I pedali, croce di ogni ciclista. “Mai e poi mai saranno contenti – ha scritto Buzzati – quando uno è su, il gemello è in basso e ciascuno vuol far sempre come l’altro, così continuano a corrersi dietro e non si raggiungeranno mai e poi mai”.
E il prossimo anno in maggio sarà data di nuovo la partenza e l’anno dopo ancora e così via, di primavera in primavera, perpetuandosi la fiaba perché, come direbbe il filosofo Cochran, “it’s something else” (è qualcos’altro)