30 anni di Report. Il più famoso programma d’inchiesta della televisione italiana. E avere di fronte a sé Sigfrido Ranucci, conduttore e autore della trasmissione, fa un certo effetto. Per questo il pubblico, alla presentazione del libro “La scelta”, non poteva che essere numeroso e trasversale (anche d’età). Non mancava nemmeno qualche detrattore, che periodicamente borbottava: “Fazioso!”. Noi eravamo seduti a terra per l’afflusso di spettatori. Ma non potevo mancare, nonostante io avessi già letto il libro – consigliatissimo – e avessi già visto i video di presentazioni svoltesi altrove. Troppo forte il richiamo di uno dei pilastri della mia formazione, fin da giovanissimo. Un grazie, quindi, all’organizzazione di Mimmo Minuto con I Luoghi della Scrittura e Libri ed Eventi.
“Tanti anni di lavoro e mai un passo falso, bravi!” esordisce Andrea Vianello, moderatore dell’incontro e direttore artistico del festival “La Risacca dei Ricordi”. Che ha continuato: “nel 2014 ero direttore di Rai3 e ho sempre difeso il vostro lavoro e ora voi ci siete ancora, ma io il direttore non lo faccio più”. Il tono ironico e leggero, con un Vianello che non smette di rivolgersi a Ranucci con un affettuoso “Sig” – data la loro pregressa conoscenza e amicizia – ha fatto da contraltare all’estrema serietà del racconto di alcune delle sue inchieste più importanti, di cui ha svelato i retroscena. Un racconto di scelte che le hanno rese possibili. “Ci sono anche tante donne Sig nel libro, ma non te ne chiederò conto” “Sì, è vero ma non abbastanza da diventare presidente del Consiglio!”.
Airone. Questo poteva essere il titolo del libro, secondo l’autore. Come l’origami che una signora in treno realizza e gli porge, dopo un lungo viaggio in cui ha potuto ascoltare tutte le sue lunghe telefonate professionali e non. “Lei deve volare alto. Ha presente le aquile? Quando camminano, saltellano e incespicano perché non sono state progettate per camminare. Loro volano. E quando volano, vedono nel cielo ciò che nessuno ha mai visto”. “Aveva scoperto le mie fragilità” commenta Ranucci. “E io, con questo libro, volevo mostrarle al pubblico: perché il mio lato pubblico esiste perché esiste questo lato privato”.
Giornalismo in Italia. “È il contesto in cui ci muoviamo – ha continuato – che mi ha spinto a scrivere questo libro. Viviamo in una società malata, che ha imparato a convivere con la propria malattia. Oggi in Italia ci sono 22 giornalisti sono sotto scorta, oltre 250 sotto tutela solo per aver fatto la scelta di informare e dire la verità. E, purtroppo, altrove si rischia altrettanto, penso fra i tanti a Daphne Caruana Galizia uccisa a Malta. Se vogliamo parlare di Report, arrivano centinaia di denunce intimidatorie per i nostri servizi…”.
Dove nasce il Sigfrido Ranucci che conosciamo. “Sono nato e vissuto a Garbatella, ben prima della Meloni, specifico! Il nome lo devo a mio nonno, spirito libero, comunista dalla schiena dritta di cui voglio ricordare un episodio: i fascisti, per umiliarlo davanti alla sua fidanzata e ai suoi paesani, gli ordinarono di bere dell’olio di ricino. Lui trangugiò tutto d’un fiato. Poi porse il bicchiere vuoto e in senso di sfida disse: ‘Riempi di nuovo, per Dio!’. Devo poi tanto da una parte a mia madre, insegnante e dunque divulgatrice. Fino ai novant’anni capace di coltivare la propria indipendenza di pensiero grazie alla lettura di libri, a cui si dedicava ogni mattina. Amava così tanto insegnare che ha voluto farlo in ogni momento della sua vita. E poi mio padre, un sottoufficiale della Guardia di Finanza che mi ha sempre insegnato i valori del bene comune, l’importanza di seguire le regole della giustizia, di affrontare le persone in maniera leale”. Ma poi, conclude, “di base sono proprio nato rompiscatole!”.
Denunciare o fare uno scoop? “Questa è una delle scelte in cui l’influenza paterna ha probabilmente giocato. La questione era quella della pinacoteca di Tanzi. Di cui scopro l’esistenza grazie a un tassista che aveva fatto parte della security del padrone della Parmalat”. “Bisogna avere un gran culo, però!” si intromette Vianello. “E insomma la faccio breve arrivo per un insieme di altre circostanze a decidere se andare in procura perché avevo ritrovato i grandi capolavori del valore di 100 milioni di euro (e così restituire qualcosa agli investitori truffati nel grande crack) oppure correre in redazione per andare in onda con uno scoop. Andai dalle forze dell’ordine”. E, conclude Vianello, “in realtà non ci vuole solo culo ma autorevolezza. Per essere il collettore di tutto”.
Inchieste (troppo?) scottanti. “Nella mia carriera, finora, credo di aver corso concretamente il rischio di licenziamento due volte. Con la questione dell’intervista a Borsellino e con il fosforo bianco di Falluja. In entrambi i casi ero sotto la guida di Roberto Morrione. È il mio padre professionale. Innovatore al Tg3, dove lo conobbi, un esempio di rigore e autonomia. Come direttore di Rai International e successivamente di Rai News 24, ha rivoluzionato l’approccio al giornalismo, promuovendo inchieste coraggiose. Al TG1, da caporedattore cronaca, aveva promosso quella di Ennio Remondino [che ben conosco, essendo stato suo studente alla scuola di giornalismo, ndr] sulla P2 e la CIA, che aveva avuto un impatto enorme (e aveva provocato l’arrivo al TG1 di un nuovo direttore, non a caso Bruno Vespa)”. Vianello e Ranucci concordano sul fatto che “senza il servizio pubblico inchieste così, inchieste alla maniera di Report, non potrebbero esistere. Anche se di direttori che oggi potrebbero difendere un giornalista dall’attacco della più grande potenza di allora, gli Stati Uniti d’America…?”. Diceva saggiamente Morrione: “Nessuno ci può togliere quello che abbiamo ballato”.
Falluja. “Un senzatetto mi ha fatto riflettere sulla differenza fra guardare e osservare. Così trovo fra le immagini trasmesse dalla Rai sul bombardamento di Falluja in Iraq da parte degli Usa, senza esserne consapevoli, la prova di quello finora negato da tutti: l’uso sulle persone di un agente chimico, per questo vietato dalla Convenzione di Ginevra del 1925. Con effetti sui corpi raccapriccianti. L’inchiesta fa il giro del mondo, nonostante in Italia in pochi abbiano fino a quel momento voluto mostrarla”.
Gli odori. “Penso spesso all’impotenza di avere solo un’immagine per raccontare una tragedia, un’immagine che non potrà mai trasmettere un odore. Di odori ne ho sentiti tanti nel corso della carriera da inviato: dalle suole delle scarpe bruciate per sfamarsi a Sarajevo durante l’assedio, agli interni degli edifici bombardati nei Balcani con i missili Tomahawk, a quello dei corpi in putrefazione nel fango e acqua salmastra sulle coste di Sumatra dopo lo tsunami. Fino all’odore acre che mi avvolgeva a Ground Zero dopo l’11 settembre: mix di plastica e carne bruciata”.
Paolo Borsellino. “Ritrovai l’intervista al giudice inedita nella sua interessa e realizzata quarantotto ore prima della morte di Falcone. Due giornalisti francesi erano in cerca di informazioni su Berlusconi perché stava investendo ne La Cinq, in Francia. Volevano fare un ritratto di questo imprenditore, investigare sui lati oscuri dell’origine della sua ricchezza. A loro aveva raccontato per la prima volta dei canali di riciclaggio della mafia, del ruolo di Mangano, aveva parlato in maniera generica di inchieste su Dell’Utri, di Silvio Berlusconi come dell’imprenditore ideale a cui poteva guardare la mafia perché da Milano avrebbe potuto far girare e fruttare parecchi soldi. Lo speciale che realizzai non andò in onda. Ma riuscimmo con Morrione a mandarla a pezzi di notte. La trascrizione era nel libro di Travaglio e Veltri ‘L’odore dei soldi’ di cui si parlò a Satyricon di Luttazzi. E poi fu trasmessa da Santoro al Raggio verde, nella puntata in cui intervenne la famosa telefonata in diretta di Berlusconi. Lasciarono poi tutti la Tv con l’editto bulgaro”.
I dossieraggi e la character assassination. “La puntata su Flavio Tosi, astro nascente del centrodestra e sindaco leghista di Verona, era attesa in città. Al punto che i bar offrivano pacchetti di visione Report con cena. Ma era stato per me un momento difficile, ho pensato anche al suicidio quando ero stato accusato di voler creare un falso dossier a luci rosse, pagandolo con fondi neri della Rai. L’inchiesta, in realtà, riguardava presunti appalti pubblici assegnati in cambio di voti e infiltrazioni di famiglie ’ndranghetiste con un ruolo nelle campagne elettorali. Al centro delle segnalazioni c’era anche la presunta esistenza di un video compromettente che avrebbe reso ricattabile il politico veronese. È stata dura ma ce l’abbiamo fatta anche quella volta. Poi ci sono stati i dossier falsi sui miei contatti con il Casalino allora portavoce di Conte per inchieste contro Renzi e altro ancora…”.
Fra i racconti di tutte queste inchieste, vi sarà venuta la curiosità di saperne di più. Di conoscerne i dettagli più nascosti. Ma intanto, dopo un’ora e mezza che è trascorsa senza che ce ne accorgessimo, “a Mimmo è calata la palpebra, quindi, dobbiamo avviarci a chiudere” scherza Vianello. E Ranucci conclude con un appello contro quello che chiama “oblio di Stato”. Ovvero le leggi che già operano e dal 1° gennaio ancora più strettamente per non farci conoscere i dettagli delle inchieste della magistratura. “‘Mi raccomando non fare nomi’ mi esortava mia madre prima di ogni inchiesta. Li ho sempre fatti, ma ora ce li faranno fare?”.
Intanto tutti sono già in fila per il firmacopie, mentre tutte le copie del libro sono terminate in pochi minuti.