La tragicommedia umana de “Gli Scarabocchi di Maicol & Mirco”

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Irriverente, caustico, filosofico e illuminante. Michael Rocchetti è uno dei fumettisti più celebrati degli ultimi anni. Disegno nero su sfondo rosso, la parola “fine” a chiudere ogni tavola, figure astratte, dialoghi fulminanti. Questo lo stile delle sue comic strip. Classe 1978, nato a San Benedetto del Tronto e residente a Grottammare, dal 2001 ha conquistato tutti con Gli Scarabocchi di Maicol & Mirco: se la sua carriera era cominciata con l’autoproduzione, oggi è più pop che mai. E infatti è uscito, per Bao Publishing, nientemeno che il sesto volume della monumentale raccolta della sua “Opera Omnia”.

L’autore è stato invitato a presentare l’ultimo titolo uscito, Pfui, presso la Libreria Rinascita di Ascoli Piceno. Come i precedenti, anche questo raccoglie in modo strettamente cronologico la sua produzione giornaliera, liberamente accessibile tramite i suoi canali social. Le sue strisce si confermano – come ormai abbiamo imparato a conoscerle – intrise di uno sguardo impietoso sulla realtà, a volte cinico, a volte malinconico, ma sempre autentico e mai giudicante, fino a contenere delle punte di lirismo e grande tenerezza.

Non c’è un committente e non c’è una storia unica nella mia produzione. Semplicemente, ogni giorno, mi metto lì e lavoro. Anzi, più mi metto a riflettere su una storia, più sento che si impunta. Abbiamo iniziato a raccogliere in volumi i miei scarabocchi perché ci siamo accorti che, suppur non in modo preordinato, la loro somma era maggiore delle parti prese singolarmente. Assumevano ancora più significato”.

“Il meccanismo narrativo è da più di vent’anni lo stesso ed è molto semplice: una prima scena banale, ordinaria, a cui segue una seconda del tutto inaspettata. Il fumetto poi si nutre dello spazio bianco, il non detto, l’evoluzione che c’è fra – in questo caso – uno scarabocchio e l’altro. Quello che mi piace proprio del fumetto è che bastano pochi segni e poche parole e… tutto funziona! Basta mettere un personaggio lì in un angolo e si riempie narrativamente una pagina. L’essenzialità è evocativa. Tutto il ‘di più’ è una scelta stilistica che un autore potrebbe volere: più parole, disegni più dettagliati. L’architrave dell’arte del fumetto è il particolare equilibrio frai scrittura e forma grafica, che si fondono, si completano, si moltiplicano. L’unica cosa davvero pensata di quanto faccio è l’universalità: voglio che quanto faccio sia comprensibile oggi, come lo sarebbe stato ieri e lo potrà essere domani”.

“Sono felice, peraltro, che finalmente non si dica più: ‘si legge come un romanzo’ o ‘si segue come un film’. Ormai al fumetto si riconosce una dignità autonoma. Si può scrivere in modi diversi: c’è chi scrive cercando di capire cosa vuole il pubblico per poi servirglielo; c’è chi scrive solo per sé stesso, non curandosi della ricezione; ci sono poi quelli come me, che scrivono per i loro personaggi, per dar loro vita e poi seguirli”.

“Spesso nel fumetto non si affrontano i temi che sono presenti nei miei. I miei personaggi sono empatici (e per questo degli ‘sconfitti’) ma mai pessimisti, comunque. Come esseri umani siamo spesso molto autoindulgenti, troppo, e siamo così portati ad esserlo anche con i nostri personaggi: io non lo sono. Non ci sono io nei miei fumetti, anche se ovviamente chiunque scrive ci metta un po’ di sé stesso, di ciò che è. Però non troverete mai le mie giornate nelle mie storie, perché sono banali e senza particolare significato. Anzi, mi disgusterebbe proprio pensare che i miei personaggi pensano, provano, vivono nel mio stesso modo. Come ogni genitore, io voglio che i miei figli facciano più di me. Io racconto per pormi domande che nella vita ho il terrore di pormi. Io, da adolescente appassionato della Marvel, avevo iniziato mettendomi su quella linea fumettistica. Ma non usciva fuori granché, ho trovato la mia strada facendo tutt’altro”.

“In un mio scarabocchio ho scritto: ‘Si può scegliere cosa leggere ma non cosa scrivere’. Ma questo non vuol dire che io non ascolti i lettori. Le mie pagine le gestisco io e studio gli effetti di ciò che pubblico. Non modifico cosa voglio dire, ma capisco meglio come veicolarlo nel modo più efficace. Sono convinto che il lettore vada sfidato: proponiamogli qualcosa e facciamogliela digerire. Basta trattare i lettori come dei bambini da tenere sempre per mano: sono capaci di capire e di farti anche crescere narrativamente”.

Come persona mi accorgo spesso di avere il freno a mano tirato, se fossi pazzo disegnerei ancora meglio. Chissà. Per il momento posso dire che ancora mi stupisco che qualcuno compri i miei libri”.

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