Carcere, il libro di riflessione e denuncia dell’ex Garante detenuti

5 minuti di lettura

Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” disse Voltaire. E, se aveva ragione, non potrà che far riflettere il libro scritto da Italo Tanoni, ripercorrendo i suoi cinque anni da Garante dei diritti dei detenuti per le Marche: lo ha presentato, insieme a Pietro Frenquellucci, presso la libreria Rinascita di Ascoli Piceno. “C’è un caso che umanamente pesa sulla mia coscienza, anche se feci tutto il possibile… Un senza tetto venne fermato alla stazione di Ancona, tornava da un pellegrinaggio a Pietralcina da Padre Pio. La polizia ferroviaria gli chiede i documenti, lui cerca nel suo borsone ma non li trova. Poco dopo, però, riesce a ripescare la carta d’identità: troppo tardi. Viene arrestato con l’accusa di false dichiarazioni. Si rivolse a me e, di fronte all’assurdità della situazione, mi attivai con alcuni avvocati di strada per ottenerne la liberazione. La ottenni in pochi giorni, ma troppo tardi: si era suicidato in carcere”.

Il libro offre un’interpretazione dell’esperienza del carcere anche grazie alle centinaia di lettere, biglietti e testimonianze dirette dei detenuti ottenute per il particolare osservatorio di cui ha goduto l’autore. “Il Garante si rivolge a tutte le persone, italiane e straniere, detenute negli istituti penitenziari della Regione Marche o sottoposte a misure restrittive alternative alla detenzione. Opera per assicurare agli stessi soggetti l’erogazione delle prestazioni sanitarie a tutela della salute, l’istruzione, la formazione professionale, il miglioramento della qualità della vita, la conservazione del legame affettivo e familiare, il recupero e la reintegrazione sociale e l’inserimento nel mondo del lavoro. Fornisce inoltre al detenuto supporto nell’esercizio del diritto di accesso ad atti e documenti amministrativi. Segnala agli organi regionali e nazionali eventuali fattori di rischio o di danno dei diritti delle persone ristrette nella libertà personale e si attiva nei confronti dell’amministrazione interessata affinché questa assuma le necessarie iniziative al riguardo. Visita gli istituti di pena ed effettua colloqui con i detenuti”.

La riflessione parte dalla nostra Costituzione che, all’art. 27 comma 3, dispone che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In questo l’autore è favorito dall’essere docente universitario di pedagogia e di sociologia, oltre che giornalista professionista. “La questione centrale risiede nel divario fra il carattere rieducativo richiesto dalla Costituzione e la realtà afflittivo-retributiva che la pena ha oggi. Insomma, bisogna pagare soffrendo, ma poi il risultato è che chi termina la sua pena esce e torna a commettere reati: il tasso di recidiva è al 70%!”. E questo lo si capisce con i numeri: “C’è in carcere un educatore ogni 80 detenuti e si tratta, perlopiù, di figure opache e burocratiche: si limitano a stendere relazioni”. Inoltre, dei “154 euro al giorno che ogni detenuto costa allo Stato, solo 35 centesimi sono destinati all’attività rieducativa”. Tutto resta sulle spalle dei volontari, che fanno comunque tanto, nonostante “siano sopportati a fatica, invece che vivamente sostenuti”. Sono loro a rendere possibili “le attività per il riscatto, per cambiare il modo di concepire la vita: sono attività catartiche, liberatorie (varie forme d’arte, cineforum, teatro). Penso ad esempio a Vito Minoia, esperto di teatro educativo inclusivo, che fa linguaggio teatrale diventa uno strumento privilegiato di intervento, grazie alle sue peculiarità creative e artistico espressive: si può così fuoriuscire dagli schemi imposti e individuare forme di conoscenza che aiutino considerevolmente  il percorso interiore del detenuto”.

Secondo Tanoni, occorre un diverso orientamento della pedagogia che rivalorizzi la figura dell’educatore (ancora di più nel minorile), formi adeguatamente la polizia penitenziaria e abbia il proprio baricentro nella persona del detenuto che, attraverso razionalità riflessiva, dovrà reinterpretare i comportamenti del suo passato. “Bisogna farla finita con la sottomissione degli internati, bisogna aprire gli istituti di pena verso l’esterno: le scuole dovrebbero avere un’importanza fortissima. Le esperienze che ho favorito (fra tante resistenze), quando sono continuative, riescono a dare moltissimo sia ai detenuti sia agli studenti coinvolti”.

Il tema più presente negli scambi con i detenuti dell’allora Garante è quello degli affetti: “non ci sono più amici, familiari, amori. C’è poi la difficoltà di rendere agibile il diritto alla salute. Quindi lo spazio ristretto e sovraffollato (mi ricordo al carcere di Camerino c’erano 12 detenuti con un unico gabinetto): su 57mila detenuti i posti regolamentari sono 51mila, anche se sappiamo che di quelli conteggiati circa 4.000 sono indisponibili.  In carcere c’è inoltre il problema del tempo, si ozia soltanto: sul totale, circa 10-15mila lavorano dentro il carcere e solo altri 2.500 fuori”. La questione del lavoro è centrale sia durante che dopo la pena, per il reinserimento nella società.

A tutto questo occorre aggiungere la questione della violenza. Violenza fra detenuti, violenza fra detenuti e polizia penitenziaria. Il 2022 verrà ricordato come l’anno in cui ci sono stati più suicidi nelle carceri italiane: sono stati 84. Quasi tutti avvengono nei primi giorni della privazione di libertà: il trauma è troppo forte. Ci sono frequentissimi episodi di autolesionismo: “ci si cuce le labbra, si ingeriscono lamette”. Quello che fuori si fa fatica a capire è che: “Il detenuto non nega di dover scontare la pena, ma vorrebbe solo farlo in modo più umano”. Invece noi, oggi, ci limitiamo a scartare l’emarginazione e a confinarla nei luoghi di detenzione. “Oggi non ci vogliono nuove carceri ma la depenalizzazione di molti reati lievi, per i quali si mettono dietro le sbarre perlopiù stranieri; per il resto le celle sono troppo piene di imputati in attesa di giudizio”.

Per il penitenziario di Marino del Tronto, Tanoni cita una visita dell’associazione Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale: “Un’unica direttrice per Ascoli e Fermo che viene in città due volte a settimana. Essere detenuti nel carcere di Ascoli equivale a una morte civile: non ci sono attività, gli spazio sono angusti, l’igiene è scarsa”. Il problema dei direttori, nonostante le immissioni in ruolo, è endemico. E la figura del direttore è la chiave di volta di tutto, se non ci sono numeri adeguati e con una formazione adeguata, la realtà del carcere è destinata a rimanere la stessa.

“Su di me ha avuto un impatto fortissimo l’ingresso in carcere. E da lì ce l’ho messa tutta per scalfire questo sistema: migliorare la qualità della vita dei detenuti. Ho avuto davvero dei brutti momenti coi magistrati di sorveglianza… Ma le mie denunce non hanno sortito effetti, se non una volta nel caso del figlio di un poliziotto. Nel caso di un istituto di pena racconto un aneddoto: il presidente della Repubblica Napolitano riunì tutti noi Garanti e chiedendo cosa volessimo io risposi: ‘Far uscire i detenuti per lavorare’. E siamo riusciti a farlo in quel caso grazie alla sua intercessione, si tratta di detenuti che si trovano quasi a fine pena. Dopo di che ricordo le tante iniziative, in particolare con le scuole, che ho promosso. Sono riuscito a far realizzare i giornali dal carcere: progetti importantissimi per i detenuti e non solo. Far uscire dalle carceri le notizie e al cercare di coinvolgere la società esterna”. Per essere consapevoli, tutti.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Previous Story

Con il Cittadella, l’Ascoli trova un arbitro donna

Next Story

Dalle stelle alle stalle, l’Ascoli rischia i play out

Ultime da