Come del resto alla fine di un viaggio / C’è sempre un viaggio da ricominciare

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Il turismo figura tra le peggiori attività umane. Opposto del viaggiare, pre­vede un atteggiamento passivo nei confronti del mondo, poggia sulla nichili­sta presunzione che l’umanità sia indistinta, esistente soltanto in superficie, conversante in inglese sbilenco, priva di punti di vista. Viceversa, il viaggio è impresa risoluta, impone di calarci nello sguardo degli altri, ci spoglia di ogni certezza, produce rinnovamento, distilla intuizioni inedite. L’Italia sprofonda nel turismo, respinge il viaggio. Qui non si dà alcun sa­crificio, né vertigine. Pensare di rinunciare (parzialmente) al benessere per ot­tenere una (mezza) tacca di autonomia, è concetto eversivo, prossimo all’alto tradimento”. Scrive opportunamente l’esperto di geopolitica Dario Fabbri su ‘Domino’ di questo agosto.

Io però ho potuto leggerlo soltanto ora, appena rientrato a casa. Ho viaggiato (e non solo). E come mi suggerisce una lettura di qualche anno fa, firmata dal filosofo Michel Onfray, “non si dà viaggio senza ricongiungimento a Itaca, che conferisce senso anche allo spostamento”. Non posso, quindi, che lanciarmi nella riflessione (sotto forma di articoli) sul mio variegato girovagare estivo per la Francia. D’altronde, grazie al viaggio, se è realmente tale, siamo inondati da un profluvio di persone, sensazioni, immagini, esperienze, pensieri. Non lo si può semplicemente seppellire nelle polverose stanze della nostra memoria, va piuttosto meditato, reso vitale, come vettore di un autentico cambiamento di noi stessi. La discussione sulla distinzione fra turismo e viaggio, accennata da Fabbri, si è ripresentata più volte nel corso di quest’estate. Anzi, se si vuole, è uno dei temi su cui rifletto da quando, socio del Touring Club Italiano Junior a 8 anni grazie a mia nonna, avevo ricevuto un libro che introduceva in modo semplice la questione.

Senti, per girare – a meno di essere ricchi – bisogna sapersi adattare” esclamo. “Io, quando lascio casa, voglio certo non spendere troppo, ma ho bisogno di alcune cose. Se non le ho, a quel punto meglio che non parto proprio” mi risponde Chiara. Siamo a Montpellier, bella città universitaria di 300mila abitanti circa nel sud della Francia (in Occitania); dormiamo da Richard, anziano appassionato di Vespa (è presidente del club locale), che vive in un grande appartamento immerso negli anni ’60. “Concordo, però forse bisogna capire quali sono le cose di cui abbiamo realmente bisogno per stare bene”. “Ma hai visto che siamo in una casa che è un museo stracolmo di oggetti, che mi inquietano anche.. Comunque pieni di polvere. La cucina mi fa schifo e nemmeno riesco a usare una tazza per il caffè”. “Benissimo, allora ti racconto dell’esperienza che ho fatto qualche settimana fa nella campagna della zona dei Pirenei francesi”.

La casa-museo di Richard

Sentiamo”. “Dovevamo restare poco meno di tre settimane, ma abbiamo resistito per una. Era un WorkAway, un modo per ricevere vitto e alloggio in cambio di lavoro”. “Ci siamo ritrovati ad avere dormitori nel seminterrato umido, toilettes sèches esterne invece del bagno (e non parlo dei relativi odori, presenza di insetti, etc.), sporco ovunque, quasi assenza di prodotti per l’igiene, dieta fatta di zucchine e legumi da mettere a bagno ore, insieme a qualche cereale, lavoro pesante e inadatto a un WorkAway. Mi resta l’immagine icastica dell’organizzatore, un ragazzo imbevuto di meditazione New Age, ma in realtà molto irrequieto, che fa pipì sui pomodori”. “Io non avrei resistito nemmeno una notte lì!”. “E infatti abbiamo deciso di andarcene, ma comunque fa parte di un percorso ed è qualcosa che mi ha insegnato delle cose e su cui è interessante riflettere, ora”.

Sembra meglio di quanto non sia: il nostro WorkAway sui Pirenei

Sì, ma non sarebbe meglio rilassarsi e non fare niente in vacanza?” “Innanzitutto, dipende dal budget che si ha a disposizione. Noi, per esempio, viaggiamo cercando di cucinarci il cibo nei posti in cui dormiamo, compriamo nei supermercati economici o ancora meglio nei mercati, cerchiamo sconti e prodotti in scadenza. Giusto, ogni tanto, ci concediamo dei prodotti tipici. E, appunto, dormiamo in ostelli, camere in appartamenti condivisi ecc.; viaggiamo su treni regionali, BlaBlaCar, FlixBus e soprattutto cerchiamo di andare a piedi anche per decine di km”. “Per me questa non è vacanza!”.Posso capirlo, ma forse dipende dall’idea che abbiamo. Mi spiego, se per vacanza intendiamo il dolce far niente… Allora ok. Se invece è, soprattutto (ma non solo) incontro-scontro con l’alterità.. Your comfort zone will kill you”.

Persino nell’esperienza di WorkAway, infatti, c’è stato ad esempio modo di incontrare una persona come Claudia, studentessa al primo anno di mediazione linguistica a Napoli, con cui abbiamo condiviso momenti divertenti e profondi parlando delle nostre vite (e dei suoi amori). Penso poi a Nizza, con la calda cordialità di Olivier, un ex poliziotto e ora corriere per Amazon: appassionato scalatore di montagne e viaggiatore, vive da solo dormendo o in cucina o in salotto su un materasso, in modo da affittare le due stanze del suo appartamento. Abbiamo passato serate a chiacchierare di troppe cose: ci ha mostrato sua figlia, ci ha parlato delle sue due ex mogli e dei suoi amori successivi; di quando da poliziotto era assegnato all’Eliseo durante la presidenza Chirac, ma anche di come ha lasciato la polizia perché a livello umano era troppo dura (trovandosi ad operare con i servizi sociali in situazioni di grave disagio). Il tutto aprendo bottiglie su bottiglie di vino, preparando colazioni e cene a sue spese (e persino lavando i piatti o apparecchiando). E, da lui, abbiamo anche incontrato altri viaggiatori come noi. Ad esempio, una giovane coppia modenese che girovagava in macchina per alcune settimane. Entrambi vivono ancora con i genitori in Italia, nonostante siano lavoratori, a causa del costo della vita troppo alto; malgrado entrambi con delle lauree scientifiche, svolgevano lavori (avendone cambiati vari, nel tentativo di darsi da fare) che non li soddisfacevano affatto.

Quante storie, in cui pubblico, privato, presente, passato e futuro si mescolano in questi e tanti altri incontri. Più lunghi o solo fugaci. Quante osservazioni, anche soltanto aprendo gli occhi su un mondo così vicino al nostro ma anche con tante piccole/grandi differenze. Quando ho lavorato in un ostello a Roma, avevo individuato bene il vero viaggiatore. Da una parte c’era chi arrivava in ostello costretto, solo per risparmiare: era lamentoso e viveva con sofferenza l’adattamento alla condivisione in un ambiente spartano; dall’altra c’era chi, con disponibilità economica o meno, cercava lo scambio. Abbiamo ritrovato questo spirito a Leucate, splendido borghetto marittimo: in una delle casette cielo-terra del centro c’è un ostello piccolo, in cui sembrava di essere a casa. Con una ragazza brasiliana, naturalizzata francese, abbiamo parlato – fra le altre cose – di cucina. Lei mangiava burrata e cocomero insieme, raccontandoci di uno dei simboli dell’italianità in Brasile, la salsiccia calabresa. Un’interessante creazione di immigrati calabresi a San Paolo (non del tutto, quindi, un italian sounding). E poi a colazione con una ragazza francese, che studiava geologia a Tolosa, curiosissima dell’Italia dove verrà fra qualche mese, appena finito uno stage non pagato che le concedeva appena quel weekend di vacanza lì. Era un’esperta di disinquinamento dei suoli e verrà nel nostro Paese attirata dall’esperienza di uno dei tanti ecovillaggi che vantiamo.

La brasiliana/italiana salsiccia calabresa

Mi viene da pensare allora alla mia città, Ascoli Piceno. Perché non ha più da anni un posto che possa offrire un’attività ricettiva di questo tipo? Perché si parla da anni di un ostello in imminente riapertura, che però non riapre mai? Perché, piuttosto, non si è pensato a una cooperativa di giovani volonterosi, con un progetto innovativo, capace di arricchire la nostra città (non solo economicamente)?

A questo, mi viene da pensare, perché – come scrisse sempre Onfray ne ‘La filosofia del viaggio’: “Non mi si addicono né l’esistenza bloccata alla maniera di una farfalla costretta da uno spillo nell’estasi entomologica, né la vita instabile e vacillante della quotidianità priva di destinazione; io concepisco il viaggio come un momento all’interno di un movimento più generale, e non come un movimento a sé stante. Tanto più che il ricongiungimento alla propria casa conferisce un senso, il suo senso, al nomadismo. E viceversa”.

Il Palazzetto Longobardo che per un settantina d’anni ha ospitato l’ostello della gioventù di Ascoli Piceno (tratta dal suo sito non più online)

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