Le geopolitica sbarca ad Ascoli, il panel con Dario Fabbri e Michela Mercuri

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E chi se lo aspettava il successo di Domino e sono già tre anni dalla sua nascita!”. Così esordisce Dario Fabbri a #GICentro l’evento annuale organizzato dai Giovani Imprenditori di Confindustria di Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. Organizzato ad Ascoli Piceno, “città in cui sono stato spesso, bellissima”, il giornalista e analista geopolitico era stato Invitato a partecipare a un panel dedicato a una panoramica economico-politica mondiale insieme a Michela Mercuri, docente di cultura, storia e società dei Paesi musulmani dell’Università di Padova. Il direttore del “mensile sul mondo che cambia” non ha deluso le aspettative, nonostante il poco tempo a disposizione (e qui a parlare non è soltanto l’abbonato, fin dalla sua nascita, a Domino e prima ancora a Scenari, allegato del quotidiano Domani). Ex di Limes, la prima rivista di geopolitica in Italia, Fabbri è diventato noto al grande pubblico per la sua partecipazione giornaliera agli speciali di Enrico Mentana su La7 in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina.

“La Geopolitica umana”. Titolo di un suo fortunato libro da oltre 50mila copie vendute, rappresenta il frutto del suo personale approccio alla disciplina, intessuta con discipline quali l’antropologia e la psicologia collettiva e strettamente connessa con la profondità storica, l’etnografia e la linguistica. Essa consiste nello studio dell’interazione tra collettività collocate nello spazio geografico calandosi nello sguardo altrui. Oggetto della sua analisi sono le aggregazioni umane, in ogni realizzazione storica. Tribù, póleis, comuni. Fino all’epoca corrente, dominata dagli Stati-nazione, dagli imperi. Mai i singoli individui. Tantomeno i leader. Ritenuti irrilevanti, mero prodotto della realtà che pensano di determinare. Nella migliore accezione, soggetti che incarnano lo spirito del tempo. Un approccio che, da storico, mi ricorda molto la francese scuola delle Annales.

“Sotto la pelle del mondo”. Titolo del libro di Fabbri in uscita il 24 settembre, racconta dodici casi dell’attualità che condizioneranno le nostre vite, studiati con la lente della geopolitica umana. Nel corso dei suoi interventi l’autore ne sintetizza alcuni tratti. “Viviamo in un momento entropico, come ci siamo arrivati? Ci eravamo raccontanti noi occidentali che la Storia fosse finita, ma la realtà è che, banalmente, la maggior parte del mondo non è occidentale né vuole esserlo o vuole vivere come noi. Cosa che forse in Italia non è ancora così chiara… Viviamo una fase di egemonia contrastata, come tante altre volte in passato. Ci eravamo adagiati in una realtà semplice, in cui un egemone – gli Usa – non hanno di fronte nessuno pronto a sfidarlo. Oggi, però, questa certezza si è sgretolata”.

La sfida al secolo americano. “Antagonisti sfidano apertamente la supremazia statunitense, senza timore di incappare nella rappresaglia di Washington. I russi invadono l’Ucraina riportando la guerra nel continente europeo, gli iraniani colpiscono Israele tramite Hamas, i cinesi soccorrono Mosca e Teheran, mentre ci ricordano, a ogni esercitazione militare, che Taiwan dovrà tornare a loro, con le buone o con la forza. La Turchia fa il pesce in barile mentre conquista porzioni d’Africa e guarda all’Asia Centrale, la Germania è tormentata dalle sue divisioni interne, il Messico prova a stabilire da che parte stare. Ciò che distingue la situazione attuale dal passato è che non siamo in una fase di declino della potenza egemone, mentre ascendono gli sfidanti. La situazione è esattamente all’opposto!”.

Gli statunitensi sono depressi. “Ma non in modo semplicistico, al 29% della popolazione è stato diagnosticato clinicamente. Gli Usa hanno quattro volte il nostro tasso di suicidi, inoltre oltre 32mile persone sono morte per overdose di fentanyl. Perché? Perché le percezioni contano. Si sono accorti che il mondo non vuole diventare americano e non perché ci sono dei dittatori cattivi che glielo impediscono: vogliono altro. Una potenza adolescenziale, calvinista e millenarista come gli Usa sta reagendo in due modi. Gli abitanti delle coste, elettori di Kamala Harris, vogliono assumersi le loro responsabilità e danno vita al wokismo [il termine ‘woke’ significa ‘sveglio’, e indicava una consapevolezza sociale riguardo a questioni di giustizia sociale, disuguaglianza e discriminazione, in particolare nei confronti delle comunità emarginate: riconoscere gli errori del razzismo, del sessismo, dell’omofobia e di altre forme di oppressione, ndr]. Gli abitanti del Midwest credono che se il mondo ce l’ha con loro sia… colpa loro. Ora capite che Trump non ha inventato nulla, cavalca un sentimento che percepisce”.

Le elezioni americane cosa cambieranno?Nulla. O, comunque, poco. E in generale non contano molto le elezioni per cambiare il mondo. Peraltro, il presidente statunitense ha pochissimi poteri, d’altronde i padri fondatori a fine Settecento fuggivano da una monarchia… Solo che poi gli Usa si sono ritrovati ad essere la prima potenza mondiale e, quando un presidente apre bocca, il mondo ascolta. Ma può cambiare poco e Trump se n’è reso conto suo malgrado durante il suo primo mandato. Cosa cambierebbe l’esito delle elezioni? Sicuramente la retorica. Da una parte quella trumpiana, dei dazi in economia (cosa che però dipende dalla scelta del Parlamento, organo molto forte), della richiesta di contribuire alla difesa dell’Occidente, ad esempio portando al 3% del Pil la spesa militare per i Paesi Nato e così via. Dall’altra Harris direbbe che capisce le nostre difficoltà, ecc. Trump non è l’apocalisse, anche con Harris le scelte di fondo sarebbero analoghe. I dazi sarebbero magari indiretti, come d’altronde ha fatto Biden con l’Inflation reduction act che finanzia il ritorno della produzione in America e non più altro all’estero o con le sanzione che ci impediscono i rapporti economici con la Russia. Tutti i grandi imperi sono anti-economici. Anche gli Usa non se la passano benissimo, se non per il predominio che hanno sulla finanza mondiale. L’economia, comunque, non è un fine per una potenza ma un mezzo”.

Russia-Ucraina. “I russi non credono nell’esistenza degli ucraini in modo indipendente, proprio non esistono per loro. Oggi gli apparati Usa non vogliono una guerra sine die e allora abbiamo l’incursione nel territorio russo da parte di Zelensky. Un modo, come poi ha confessato, di avere qualcosa da scambiare sul tavolo delle trattative. Con Trump o con Harris ci vorrà un negoziato, anche se a seconda del vincitore alle elezione cambierà la narrazione. Da una parte uno che dice che, se vince, in un quarto d’ora fa la pace e l’altra che direbbe che la situazione ormai è diventata una carneficina e si presenterà come l’unta dal Signore per riportare la pace. Ma provare non vuol dire riuscirci”.

Le primavere arabe. Interviene Mercuri: “Direi piuttosto ‘rivolte arabe’. Io ero lì, fra piazza Taharir in Egitto e l’avenue Bourguiba a Tunisi, e i giovani chiedevano pane, lavoro, una vita che cambiasse in meglio ma da nessuna parte c’era l’occidente. Non come modello, non come aspirazione. Poi le rivolte sono state scippate dei partiti più radicati e sono finite male. Questi paesi del Nordafrica sono certo instabili ma al contempo attrattivi per noi. Sono vicini e non dobbiamo fermarci alla questione migratoria. Il piano Mattei [progetto strategico di cooperazione allo sviluppo e investimento lanciato dal governo italiano con l’obiettivo di rafforzare i legami con il continente africano, ndr] necessita di fondi, ci vuole un intervento comune in Europa. I governi invece sono miopi, dovrebbero spiegare ai cittadine che l’Africa è il futuro, mentre noi per loro siamo il passato. Il continente ha una crescita stimata nei prossimi anni del 3/4% e sono giovani, ventenni. E sono sempre più coscienti della loro forza. Il cambio generazionale arriverà presto. Guardate al Senegal, con un presidente di 44 anni che non vuole ingerenze esterne, vuole rivedere i contratti con potenze estere. Anche l’attentato contro i russi in Libia lo dimostra. L’Europa, intanto, è un continente fermo. Noi come Italia potremmo occupare uno spazio, uno che potrebbe essere importante, se comprendiamo l’importanza di un cambio. Certo la Francia ora non ha più molto posto nel loro ex Françafrique… Guardate anche la Cina come recentemente si è posta parlando molto di agricoltura, con un approccio molto aperto e non più in modo predatorio come in passato quando faceva leva sul debito degli Stati africani per dominare. In Africa un giovane su cinque cerca di fare una sua attività da solo: non c’è l’idea di partire! Così come l’interesse dimostrato da tanti capi di Stato africani nel venire a conoscere il piano Mattei”.

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