Un racconto d’arte, identità, corpi: Fumettibrutti dialoga con Sandro Veronesi

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Alzi la mano chi pensa di saper disegnare. Ecco, sempre pochissime mani ogni volta. Tutti sapete disegnare, in realtà: il problema è il giudizio degli altri, che non può intervenire nella maniera in cui ci sentiamo quando disegniamo. Io, da bambina, mi ricordo una volta, all’asilo, in cui mi hanno strappato dei disegni sugli animali. Pensavo fossero bellissimi, ma gli altri non lo capivano e mi hanno lasciato in lacrime con quei pezzi di carta in mano. Un’altra volta, a scuola, ho disegnato in bagno delle principesse con una matita, pensando che tanto si potesse cancellare. Ma quando mi hanno scoperta, mi hanno sgridata davanti a tutta la classe mentre piangevo. Un trauma. Però, poi quando venne a prendermi mio padre, mi disse: ‘Andiamo a vedere questi capolavori, dove sono?’”. A parlare è Fumettibrutti — nome d’arte di Josephine Yole Signorelli —per la terza edizione di Linus – Festival del fumetto ad Ascoli Piceno, la manifestazione diretta da Elisabetta Sgarbi. A dialogare con lei Sandro Veronesi, scrittore italiano tradotto in oltre trenta Paesi e due volte vincitore del Premio Strega, che l’ha definita “una delle fumettiste più conosciute, non solo in Italia ma anche all’estero”, la cui “carriera è davvero incredibile”, commentando anche con: “Quanta forza ci è voluta!”.

Filarmonici. Ad ascoltarli un attentissimo teatro, il secondo teatro della città. Avrebbe meritato una maggiore presenza giovanile: chissà come mai, però, anche stavolta i giovani mancavano… La conversazione è stata particolarmente piacevole, scandita dalla grande riflessività degli interlocutori e da una capacità dialettica che catturava l’attenzione. Fumettibrutti, con la sua leggera cadenza siciliana, parlava con sincerità e potenza, esplorando i momenti più intensi della sua vita, mentre Veronesi, con il suo stile pacato e riflessivo, ma anche ironico, offriva osservazioni acute, creando spesso una sottile intesa tra i due. Un dialogo che ha avuto una freschezza rara: mix, colto e leggero, di intimità e ritmo.

Realismo. “Cosa può esserci di realistico in qualcosa che è bidimensionale come il fumetto? – si chiede Veronesi – Eppure, con tutto ciò, la bravura di un artista sta nel disegnare qualcosa che resta sempre bidimensionale, eppure è capace di evocare molto più di quello che mostra. Passa attraverso non un solo canale, ma diversi: la vista, l’odore. Sì, perché c’è la carta. La carta profuma la lettura, aggiunge una dimensione ulteriore. Quindi, come può essere realistica un’opera che impegna così tanti sensi, ognuno dei quali ti riporta a ricordi diversi? È chiaro che si crea un’immagine unica, e proprio perché è unica, non può essere realistica. Questa riflessione mi fa pensare alle gambe del cavallo di Cattelan, appeso al soffitto. Le ha allungate, certo, ma la percezione resta: hai un cavallo sopra la testa. È realistico? No, perché è arte. Esistono opere d’arte realistiche come col cinema, ma il fumetto, la nona arte, va oltre. Forse mi sfugge l’ottava, ma comunque… il fumetto è arte, e come tale deve liberarsi dal laccio del realismo. Come già fanno le altre forme d’arte. Non c’è realismo, non c’è un atteggiamento che possa limitarsi a ciò che vediamo”.

Punk. “A un certo punto, in un’intervista – dice ancora Veronesi – chiesero a Moravia cosa gli piacesse mangiare. E lui rispose: ‘Amo i cibi cotti, non cucinati.’ Una cosa rivoluzionaria, perché siamo nell’epoca delle ricette, della cucina fatta in un certo modo. E lì mi dissi: Moravia è punk. Perché il punk è esattamente questo: un’espressione artistica non elaborata.  Tu non metti la faccia, non perché non la sai disegnare, anzi, quando la disegni è bella, ma perché non vuoi elaborarla realisticamente, pur portando invece un messaggio che da un punto di vista realistico è molto importante. Questa, secondo me, è la cifra di Fumettibrutti. Lei non usa un linguaggio realistico, ne usa uno quasi sognante. Quanto ti è costato, quanto ti ha impegnato, quante energie, anche sociali, non soltanto energie interiori, ti ha assorbito. Questo è punk, anche se tu non l’hai potuto conoscere. È stato un periodo breve, ma importantissimo. Se i social fossero esistiti all’epoca dei Sex Pistols, immagina quanti insulti si sarebbero presi! Gente che andava sul palco a fare cose oscene, suonava male, slabbrava tutto. Ma quante libertà hanno aperto con quei gesti! Un gesto diretto, anche se dietro -ovviamente- dovevi comunque saper suonare e anche bene, per fare i Sex Pistols. Il tuo atteggiamento è quello di chi ti dice: ‘Ecco, tu ti aspetti di vedere gli occhi tutte le volte che faccio una faccia, ma io qui non ce li faccio, anche a costo di sentirmi dire che ho tirato via. Ma lo si fa apposta”.

FUMETIBELLI

Talento o no?Per me, non è qualcosa che si possiede come un dono. Non ho mai potuto raccontarmi la favola del talento, perché non avevo il privilegio di farlo. Ho dovuto impegnarmi molto. Quando ho preso la matita, ho imparato a disegnare in modo realistico, ma poi, all’Accademia, ho capito che fare fumetti in quel modo non mi divertiva. È stato il mio professore di fumetto, a darmi la spinta: ci chiese di fare tre pagine per una rivista. Quando le ho fatte, erano migliori di quello che facevo di solito. Mi disse che avrei dovuto migliorare la calligrafia, che era brutta. Allora mi sono impegnata a scrivere meglio, ma poi mi sono resa conto che volevo disegnare come mi veniva. Questo mi ha portato a scoprire che avevo tantissime storie da raccontare. È stata una grande fortuna”.

La formazione artistica. “All’inizio, volevo laurearmi in fumetto. Di corsi di fumetto, pure validissimi, ce ne sono tanti con professionisti super preparati, anche amici che conosco. Però avevo già fatto pittura alla triennale a Catania, e volevo concludere con questo corso di fumetto a Bologna, di cui avevo sentito parlare. E quindi ho deciso di andare lì. Per me, la tappa all’Accademia di Belle Arti di Bologna è stata fondamentale. A Catania, quando dovevo ancora sostenere il test d’ingresso, avevo già seguito un corso molto base di fumetto, con nozioni di disegno e storytelling. Io avevo delle storie da raccontare, ma, come all’inizio per tutti, c’era molta confusione. Credo che questo valga sia per chi scrive che per chi disegna: all’inizio non sai come essere compreso, come arrivare. Fai tanta gavetta, e una delle prime cose che ho imparato da un insegnante lì è stata guardare i corpi disegnati da Guido Crepax e Milo Manara. Questi corpi non sono realistici: sono idealizzazioni del corpo femminile. Se vedessimo in giro una persona con il fisico di Valentina di Crepax, probabilmente avrebbe problemi alla schiena, o avrebbe bisogno di solette ortopediche per poter camminare. Gambe lunghissime, busto cortissimo, porzioni completamente sballate da un punto di vista anatomico, ma è un sogno, è un’ideale. Una volta che l’ho capito, ho riportato tutto questo nelle mie figure. Mi sono resa conto che i corpi che disegnavo non erano quelli che vedevo dal vivo, ma quelli che sentivo il bisogno di creare. Dovevo inventarmi una figura che mi accendesse qualcosa dentro, che mi facesse provare un’emozione profonda, intima, anche erotica. Dovevo disegnare qualcosa che mi facesse dire: ‘Sono proprio contenta di aver fatto questo.’ Questo stile è diventato il mio modo di disegnare”.

La scelta del nome. “Perché Fumettibrutti? Se volessi essere un po’ provocatoria, direi che è un nome che ti costringe ad andare oltre il tuo pregiudizio. Ovviamente, l’ho scelto in modo che combaciasse con il racconto che stavo facendo della mia identità e della mia vita. La cosa divertente è che, da quando ho cominciato a pubblicare sui social, le persone credevano che la mia vita privata fosse tutta lì, esposta. Ma in realtà non sapevano nulla di me”.

STORIE TRANSGENDER

I social e il corpo. “Dopo due anni su Instagram, ho pubblicato una mia foto, un po’ come se fosse una piccola rivelazione. All’inizio non sapevo nemmeno se fosse la cosa giusta da fare, se quel passo fosse corretto per me. E non so se mi è convenuto, perché comunque può sempre ritorcersi contro, in qualche modo. Non che mi importasse particolarmente, ma ho messo tutto in gioco. Era un rischio: o non sarei stata compresa, o lo sarei stata in modo totale. È successo circa un anno dopo Romanzo esplicito. La magia di quel momento è stata che molte persone si sono rese conto di avere dei pregiudizi, anche inconsci, verso le donne. Ad esempio, chiedevano: ‘Ma perché questa ragazza mostra il suo corpo e fa certe cose?’ Si chiedevano cosa stesse cercando di dire. Poi, quando hanno capito, è stato come un’epifania: “Ah, ma allora è normale!”. C’è un doppio standard che emerge perché se prima mi vedevano in un certo modo, dopo cambiava tutto.

I personaggi trans. “Un’altra cosa potente che è successa è che le persone si sono rese conto che non ci sono abbastanza personaggi trans femminili in cui potersi riconoscere. Esistono molte vite che possono essere universali, ma mancano rappresentazioni più ampie di queste esperienze. Io mi sono riconosciuta in personaggi come Valentina, o in figure femminili. Anche se quei personaggi non erano trans, mi ci sono comunque identificata, perché alla fine è la storia che conta. È l’esperienza che lega. Non è solo il genere del personaggio a contare. Chiunque può leggere una storia e trovare qualcosa di sé, indipendentemente dal genere di chi viene raccontato. Anche oggi ci sono molte storie in cui quando si inserisce un personaggio transgender, tutta la trama viene incentrata sull’identità di genere, come se questa condizione riempisse tutto lo spazio narrativo. Ma ci sono libri o serie TV che includono personaggi transgender in modo più naturale, senza che la loro identità cambi completamente la storia. Un esempio è Kitchen di Banana Yoshimoto, un libro che trovo splendido. È un romanzo che parla della vita, delle relazioni, e il fatto che uno dei personaggi sia transgender arricchisce la trama, senza dominarla. Un’altra è una recente serie Netflix, Pose, dove il personaggio trans è tridimensionale, una donna che vive la sua vita, e la sua identità aggiunge un ulteriore livello di complessità alla storia. Il punto è che mancano ancora tante storie dove una persona trans può riconoscersi completamente, a 360 gradi, come ho fatto io con personaggi non trans. Mi chiedo: perché io posso identificarmi in storie diverse dalla mia, ma altre persone non riescono a fare lo stesso?”.

COMING OUT

La scelta. “L’ho pubblicamente solo nel 2019, ma non ero ancora pronta. Non si è mai pronti davvero, è una cosa che succede senza preavviso. Io ho vissuto tanti anni senza rivelare la mia identità, quindi quando è arrivato il momento, è stato un atto di coraggio. Il mio editore si preoccupava per come il pubblico mi avrebbe accolto, ma alla fine è andata bene. Io dico sempre che ho la pellaccia dura, quindi l’ho affrontato, anche se non è stato facile. È stato un regalo che ho fatto a me stessa. Io sempre accettato la mia identità, ma il problema era come la società avrebbe accettato me. Innamorarsi, soffrire, è universale, ma quando si è transgender ci sono ulteriori complicazioni. La mia difficoltà non è stata tanto accettare me stessa, ma il mondo intorno a me. Fare coming out in pubblico, quando hai una certa notorietà, può sembrare più facile, ma è diverso. Ho dovuto fare due coming out: il primo, privato, con la mia famiglia, e il secondo, pubblico, nel 2019. Il pubblico può giudicarti, ma anche sostenerti, mentre nella sfera privata sei più vulnerabile. Non è semplice, ma è stato un passaggio fondamentale per me”.

Gli esempi. “In molte culture esistono da sempre persone non binarie o appartenenti a un ‘terzo genere’. Nel nostro contesto occidentale, queste identità non trovano molto spazio nei racconti. Eppure, ci sono storie che avrei avuto bisogno di leggere quando ero più piccola. Ad esempio, in Italia l’unica figura pubblica transgender che vedevo in TV era Vladimir Luxuria, e all’epoca non riuscivo a comprendere appieno l’importanza del suo gesto. Quando è andata all’Isola dei Famosi, non ho capito subito il peso di ciò che stava facendo. Luxuria ha fatto qualcosa di potente. Per quanto si possa criticare la TV e i reality show, lei ha messo il suo corpo e la sua identità al centro dell’attenzione, in spiaggia, a ricevere insulti e offese. È stata una scelta coraggiosa. Ma il problema è che, mentre la gente ne parlava male in TV, queste opinioni si riflettevano nel mondo reale, ritardando la mia consapevolezza e il momento in cui ho capito di voler fare la transizione. Intorno a me, le persone dicevano cose terribili sulle persone transgender, e questo mi ha frenato. Quando sei giovane, queste parole possono diventare veri e propri ostacoli, anche se in famiglia, fortunatamente, non ho avuto problemi. Il punto è che cresciamo con messaggi che ci limitano, che ci fanno credere che non andiamo bene. E, nonostante ciò, quando ho fatto coming out, è andata meglio di quanto pensassi, anche se sono cresciuta in un ambiente cattolico. Una delle cose che mi frenava era proprio il timore di affrontare questo contesto”.

La difficile autodeterminazione. “Però, fin da giovane, trovavo il modo di esprimere la mia identità: ad esempio, alle superiori indossavo una kefiah in un modo che facesse sembrare che avessi il seno. Per me, quella kefiah era un simbolo di resistenza. Ora, raccontarlo mi sembra assurdo, ma era il mio modo di sperimentare la mia identità. Quando ho deciso di fare il coming out e di intraprendere la transizione, ho capito che non volevo solo sembrare una donna, ma volevo esserlo a tutti gli effetti. Il problema non era la mia identità, ma piuttosto tutti i passaggi burocratici. Ne ho scritto anche nel mio libro Anestesia, una sorta di denuncia al sistema che rallenta il nostro percorso di autodeterminazione. È assurdo che una persona non possa essere veramente libera di fare ciò che vuole del proprio corpo. Le donne lo sanno con l’aborto, e le persone trans lo sanno con la burocrazia che ci obbliga a passare per un iter psicologico e, fino a poco tempo fa, per la sterilizzazione, prima di poter cambiare i documenti. Fortunatamente, questa legge non esiste più. Oggi ci sono persone che vorrebbero togliere anche questi diritti, ed è per questo che ne parlo. Sono cose difficili da ascoltare per molti, ma il cambiamento non significa che tutti debbano cambiare le proprie abitudini. L’altro giorno, una mia amica mi ha detto: ‘Ormai tutti diventano gay per moda’. È una frase che mi ha dato fastidio, ma ho cercato di non rispondere con rabbia, come faccio di solito. Le ho risposto con calma, perché alla fine, chi se ne frega? L’idea che i maschi debbano fare i maschi e le femmine le femmine è così limitante. Viviamo la vita come vogliamo. E quindi, come dicevo, nessuno ha mai detto che le persone debbano cambiare dall’oggi al domani, smettere di fare i maschi o fare le femmine. Siete liberissimi di continuare a vivere come volete, ma dovete lasciare che gli altri facciano lo stesso”.

La società. “Più che un sogno, la transizione è stata una necessità. Ci sono cose nella vita che sono entrambe, sogni e necessità, e questa era una di quelle per me. Ora ne parlo come una cosa del passato, ma so che per tante persone è una questione ancora attuale, una cosa che pesa. Molti rimandano il coming out perché non sentono che ci sia spazio per loro. Mi auguro che parlandone sempre più spesso e in modo quotidiano, normale, possiamo arrivare al punto in cui non sarà più visto come un evento straordinario. Succede, è sempre successo nella storia, eppure ne parliamo come se fosse uno scandalo. Per esempio, recentemente, Lady Gaga ha detto una cosa durante un’intervista che mi ha colpito molto. Qualcuno le ha chiesto di smentire le voci secondo cui lei sarebbe transgender, e lei ha risposto di no. Non perché non fosse vero, ma perché non voleva che una ragazza transgender, magari da qualche parte nel mondo, leggesse una smentita e si sentisse sbagliata per essere chi è. Questa cosa mi ha fatto pensare molto. Lei non ha negato la voce per evitare di contribuire a un’idea di vergogna associata al genere. Lo stesso è accaduto alle recenti Olimpiadi. Quando leggi certi commenti sui giornali, ti rendi conto di quanto ancora ci sia da fare per evitare che le persone transgender, intersessuali o chiunque non rientri nelle categorie binarie, vengano trattate come anomalie. Ed è proprio questo il punto: dobbiamo imparare a rispettare le persone per quello che sono, non per come si adattano a un ideale preconfezionato”.

IDENTITÀ ARTISTICA E PERSONALE

Fragilità. “A un certo punto, quei due mondi — il mio talento e la mia identità — hanno cominciato a coincidere. Da bambina disegnavo tanto e mi dicevano che ero molto brava, ma a un certo punto ho smesso. Quando cerchi di capire chi sei, puoi finire in situazioni sbagliate. Una mia amica, leggendo il mio libro, ha commentato: ‘Ci sono tanti adulti che fanno cose terribili, ma nessuno viene mai punito’. Volevo rappresentare un mondo crudele, senza moralismi. Quando ero su siti di incontri, mentivo sull’età. Dicevo di avere 18 anni, ma ne avevo solo 15. Quando rivelavo la mia vera età, nessuno si scandalizzava, anzi, continuavano a volermi incontrare. Credevo di avere il controllo su quel mondo, ma in realtà non era così. Non volevo dare una morale, ma lasciare che la storia parlasse da sé. Laura Cerutti, editor di narrativa di Feltrinelli, mi ha detto: ‘È bellissimo come la tua identità si sgretola insieme alla scuola che cade a pezzi’. Ma non era una metafora, frequentavo davvero una scuola che cadeva letteralmente a pezzi, dove ci dicevano di camminare vicino ai muri per evitare che i soffitti ci crollassero addosso.

Mostrarsi.Quando ho cominciato a essere più esplicita sui social, soprattutto riguardo al sesso, molti amici maschi mi dicevano: ‘Sei sicura di quello che stai facendo? Potrebbe ritorcersi contro di te’. Ma io non mi sono mai fatta questi problemi e non ho voluto iniziare a preoccuparmene. Anzi, ho peggiorato la situazione. A un certo punto mi hanno affibbiato un nomignolo in Accademia. Ho risposto postando una foto del culo mentre facevo il dito medio. In quel periodo ero molto sola. Solo perché parlavo di sesso apertamente, ho ricevuto una serie di porte in faccia. Questo mi ha portato a riflettere su come la società reagisce a una donna che si esprime liberamente. Ho sofferto, ho cambiato città e ho vissuto esperienze diverse, ma quello che ho capito è che c’è un’etichetta pesante che viene messa alle donne che parlano di certi argomenti. Ho cambiato città, praticamente ho saltato da un cazzo all’altro. Mi sembra che sia la frase che possa meglio descrivere la situazione. Ho ricevuto commenti brutali sulla mia persona e su quello che sto facendo. Fu una sorta di esperimento sociale. A un certo punto quando c’è stato il coming out ci sono state persone che si sono proprio ricredute su quello che pensavano. Il punto è che questa è una società misogina”.

Il femminismo. “Cosa ne facciamo di questa informazione? Puoi metterla da parte e dire va bene, io lo so e non farò nulla per contrastare questa situazione. Lo accettano in troppi. Ci hanno insegnato che va così. Io voglio dire il mio no. Mi dicono che sono troppo politica, troppo femminista. Ho fatto anche una vignetta della femminista tritacazzi, che era una spilla. Le mie prime cose dicevano che erano vignette femministe soltanto perché? Ero una donna che parla delle proprie esperienze? Io invece il femminismo non lo conoscevo. Lo sono diventata proprio per combattere queste cose. Devo dire che in certi casi, ancora oggi, è difficile per molte donne fumettiste. Io ho imparato queste lezioni a suon di botte. Ho vissuto la realtà di chi arriva a Lucca Comics e sente le voci che circolano su di te: non è giusto, ma è così che succede”.

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