Arte e censura, combattere l’ingiustizia attraverso l’arte

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Quello del rapporto tra creatività, libertà, e censura, è un tema caldo che è sempre stato caro all’arte e agli artisti fin da tempi molto lontani. In una sorta di riflessione auto-riferita, l’artista ha sempre cercato di riflettere sui limiti verso cui si può spingere la rappresentazione creativa, e i limiti imposti invece dalla società o dal potere su questa stessa rappresentazione. Viviamo ultimamente in un periodo storico turbolento in cui, dopo aver goduto dei frutti della tecnologia e della globalizzazione, nel lusso occidentale del tutto e sùbito, una grave calamità naturale come una pandemia ci ha riportato bruscamente alla realtà e ha riportato a galla tutti quei conflitti e tutte quelle contraddizioni che, sopite sotto il benessere, avevamo finora ignorato e cercato di dimenticare. Il disagio sociale ed economico portato dal Covid19 ha fatto iniziare il nuovo decennio sotto il segno delle nevrosi, del malcontento, del conflitto.

Negli ultimi tempi ci stiamo rendendo conto di come nel mondo stia sfumando sempre di più il concetto forte di democrazia e stiamo lentamente scivolando verso una tecnocrazia imperante portata avanti dalle 5 enormi potenze monopolistiche del Big Tech: Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft.

Queste multinazionali nordamericane sono oggi una potenza economica e sociale impossibile da ignorare, se pensiamo che ormai quasi ogni cittadino del mondo passa, in qualche modo, attraverso i loro servizi e i loro database. E anche se il discorso non si applicasse a livello globale, è la logica tecnocratica piuttosto che quella democratica a dominare; ad esempio in Cina, paese in cui si cerca di limitare l’influenza occidentale, a condizionare la vita di quasi due miliardi di persone c’è il BATX, la squadra di grandi aziende cinesi composte da Baidu, Alibaba, Tencent e Xiaomi.

Viviamo ormai in una società in cui a controllare le nostre vite e a influenzare le nostre scelte non sono più i governi in cui viviamo, cosa già di per sé non auspicabile, ma addirittura le aziende e i servizi a cui ci affidiamo. Siamo in questo modo pedine di un meccanismo circolare in cui noi stessi siamo i prodotti di ciò che compriamo e, almeno per ora, non sembra esserci via d’uscita.

Le tecnologie digitali ci hanno portato in uno stato di cyber-sovranità, una condizione in cui, attraverso le più banali intelligenze artificiali installate nei nostri computer o nei nostri cellulari, siamo continuamente monitorati, controllati e addirittura visti, spiati. Alcuni hanno paragonato la situazione attuale della nostra società a quella di un panopticon, la prigione teorizzata dal filosofo Bentham nel ‘700, in cui tutti sono sorvegliati ma nessuno sa da chi e attraverso quali mezzi. Una società che vive in ostaggio di sé stessa e delle sue creazioni.

In un periodo storico come questo torna urgente più che mai la questione dell’arte e dei limiti verso cui può spingere il suo messaggio, la sua narrazione. L’arte, da sempre riflesso e a sua volta scintilla dei cambiamenti della società, ha bisogno di raccontare in maniera adeguata una società così complessa, ma allo stesso tempo è minacciata dai meccanismi che da democratici si stanno pian piano trasformando in tecnocratici, e quindi confusi, e di scarsa affidabilità.

Paradossalmente negli ultimi anni abbiamo assistito sempre più spesso ad azioni di censura sulle opere artistiche, censura portata dalle istituzioni ma a volte anche dal pubblico stesso, sempre più nevrotico e sensibile alle rappresentazioni che si fanno.

Esemplari i casi dell’opera di Paolo Cirio “Capture”, e dell’opera di Brett Bailey “Human Zoo”.
Nel caso di “Capture” ad intervenire in azione di censura è stato il governo francese che ha deliberatamente impedito l’esibizione dell’opera. Essa mostrava, in un enorme mosaico, i volti ravvicinati di centinaia di membri delle forze dell’ordine francese per denunciare l’abuso di potere delle stesse attraverso l’utilizzo della tecnologia digitale di riconoscimento facciale, usata spesso dalla polizia per raggiungere le identità di manifestanti e dissidenti politici a loro insaputa. Il ministro dell’interno francese German Darmanin ha disposto il ritiro dell’opera dai musei in cui era esposta.

Nel caso di “Human Zoo” invece, ancora più eclatante, a porre un azione di censura è stato il pubblico stesso: l’opera, che denunciava attraverso una serie di performance-installazioni la vita brutale a cui erano sottoposti gli schiavi africani nei secoli scorsi una volta portati in Europa o in America, è stata considerata offensiva dalla comunità nera inglese che ha visto in questa rappresentazione, più che una denuncia, una forma velata di razzismo e di appropriazione culturale, spinta dal fatto che l’opera era una creazione di un artista bianco sudafricano, detentore dunque di un punto di vista esterno alla tematica trattata. Manifestazioni si sono svolte al di fuori del museo in cui l’opera era esposta a Londra, tanto che alla fine il suo direttore ne ha dovuto disporre lo smantellamento.

Il punto di contatto tra arte, propaganda, moda e messaggio politico negli ultimi 20 anni è andato sfumandosi sempre di più, tanto da far perdere all’opera d’arte connotati precisi e lasciarla piuttosto esistere nella sua fluidità, persa nel marasma di immagini e creazioni che oggi possiamo fruire attraverso internet e i social media. Uno dei primi artisti a portare l’immagine e la politica verso questi burrascosi lidi è stato Shepard Fairey, grafico e illustratore molto attivo nel campo della street art, divenuto celebre per la diffusione del suo trademark, Obey, un logo stilizzato rappresentante il viso del wrestler Andrè the Giant, e utilizzato poi come pattern per la realizzazione e diffusione di decine di illustrazioni simili: un’ altra celeberrima, chiamata Hope, fu utilizzata con enorme successo nella campagna politica di Obama del 2008.

Fairey, ispirandosi all’iconografia del film Essi vivono (J. Carpenter, 1988), satira fanta-politica sugli eccessi del consumismo, ha letteralmente invaso l’immaginario popolare del decennio con la diffusione di un messaggio politico che, nella sua crescente fama, si è trasformato lentamente in un brand di vestiti e in un’icona collettiva svuotata del suo significato. OBEY (Obbedisci) era la scritta che John Nada, protagonista del film, riusciva a leggere dappertutto grazie a degli occhiali speciali che gli mostravano la realtà della società capitalista nelle sue sembianze più autentiche. Oggi la scritta Obey può essere vista sopra le magliette e i cappelli di milioni di giovani in giro per il mondo, in una sorta di ironica casualità.

Questo genere di espressione artistica richiama da vicino alcune forme di pop art e arte grafica già molto diffuse fin dagli anni ‘70, ad esempio il lavoro di Barbara Kruger, artista femminista che ha incentrato il suo lavoro sulla riproposizione parodistica di slogan e messaggi pubblicitari, che pongono dilemmi più che soluzioni, in un chiaro intento critico verso la società contemporanea, come nel caso della celebre copertina del New York Magazine da lei illustrata: Loser, che mostra in primo piano il volto dell’allora candidato alla presidenza Donald Trump nell’atto di pronunciare una dei suoi insulti più comuni nei confronti dei rivali, in un chiaro intento denigratorio.

Mettendo a confronto le due opere, pensare che invece Fairey, l’illustratore che è diventato celebre diffondendo il messaggio anti-capitalista del film di Carpenter, negli stessi anni è stato coinvolto nella realizzazione di immagini propagandistiche del candidato alla presidenza Obama, la dice lunga su quanto ormai i confini tra arte, politica e divulgazione di massa siano sempre più labili.

Come dimostrato anche dal caso di Paolo Cirio, la forma d’arte che più rimane al centro di questo dibattito è quella della street art, o della poster art, più incisiva sia per la sua veloce realizzazione e diffusione sia per la natura di arte di strada, che può essere fruita e allo stesso tempo portata ovunque, in modo da poter raggiungere le più grandi frange di pubblico e far parlare di sé anche il pubblico più disinteressato. Non è un caso che uno degli esponenti attualmente più importanti esponenti della street art al mondo, il misterioso artista Banksy, venga considerato il capofila della guerrilla art, una forma esplicitamente politica, e molto invasiva, di arte di strada.

Tra gli ispiratori di questa forma politicizzata di street e poster art possiamo annoverare nomi storici come Gary Grimshaw, importante grafico statunitense creatore di locandine musicali degli anni ‘60 e ‘70 che ne ha fortemente influenzato lo stile, ma anche attivisti come il cubano Rene Mederos, e la peruviana Favianna Rodriguez, artisti da sempre impegnati nella battaglia dell’integrazione dei popoli latini. Ad ingrossare le fila di questa forma d’espressione troviamo anche artisti francesi come Invader e Thierry Guetta, più vicini alla grafica, e gli italiani Sten, Lex, e Hitnes.

Non è un caso che alcuni di questi artisti, come Invader e Banksy, lavorino nel più completo anonimato, e riescano  nonostante questo a diffondere la loro arte nelle città in maniera capillare, e allo stesso tempo avere un enorme seguito internazionale.

Banksy, anche ispirandosi al lavoro di altri street artist a lui precedenti come Blek Le Rat, trova nella sua tecnica veloce di stencil art, la chiave della sua diffusione della sua efficienza. Spruzzando semplicemente la vernice su una mascherina già realizzata in precedenza (che è il vero oggetto del suo lavoro) riesce a riprodurre in pochissimo tempo le rappresentazioni che vuole lasciare sui muri, in modo da poterne disegnare un gran numero in più città possibile, e diffondere più facilmente il suo messaggio, senza andare incontro a problemi con la sorveglianza e le forze dell’ordine.

Lo stesso Banksy ha spesso deriso e affrontato la logica commerciale dietro la diffusione e la mercificazione dell’arte istituzionale, appendendo di nascosto nei musei opere che parodiano i più famosi stili della pittura classica e moderna con al suo interno messaggi politici e ironici di stampo moderno. Il suo Madama con maschera antigas è rimasto in vista al Moma di New York per due ore prima di essere rimosso.

Nel 2019, in aperto conflitto con una delle kermesse di arte contemporanea più importanti del panorama internazionale, la Biennale di Venezia, Banksy si è finto un pittore di strada per esporre nelle vie del centro una serie di quadri raffiguranti le celebri vedute della città d’arte oscurate dalla mole di un invasiva nava da crociera, denuncia al business turistico che permette a queste imbarcazioni di passare nel canale della Giudecca e nel bacino di San Marco, lasciando profondi danni allo stato di pulizia delle acque. In tutte le zone della città in cui il pittore ha deciso di esporre la sua opera, in poco tempo è stato allontanato dai vigili urbani in quanto “ospite non gradito”.

Come dimostrato anche dal caso di Paolo Cirio, la forma d’arte che più rimane al centro di questo dibattito è quella della street art, o della poster art, più incisiva sia per la sua veloce realizzazione e diffusione sia per la natura di arte di strada, che può essere fruita e allo stesso tempo portata ovunque, in modo da poter raggiungere le più grandi frange di pubblico e far parlare di sé anche il pubblico più disinteressato. Non è un caso che uno degli esponenti attualmente più importanti esponenti della street art al mondo, il misterioso artista Banksy, venga considerato il capofila della guerrilla art, una forma esplicitamente politica, e molto invasiva, di arte di strada.

Tra gli ispiratori di questa forma politicizzata di street e poster art possiamo annoverare nomi storici come Gary Grimshaw, importante grafico statunitense creatore di locandine musicali degli anni ‘60 e ‘70 che ne ha fortemente influenzato lo stile, ma anche attivisti come il cubano Rene Mederos, e la peruviana Favianna Rodriguez, artisti da sempre impegnati nella battaglia dell’integrazione dei popoli latini. Ad ingrossare le fila di questa forma d’espressione troviamo anche artisti francesi come Invader e Thierry Guetta, più vicini alla grafica, e gli italiani Sten, Lex, e Hitnes.

Nel versante dell’arte più militante, è impossibile non citare l’operato del collettivo artistico russo Vojna, che a sua volta ha ispirato le gesta delle Pussy Riot. Vojna (parola russa per “guerra”), nata alla fine degli anni 2000, è stato un collettivo di sinistra radicale composto da ex studenti delle scuole d’arte russe e non appoggiato da nessun curatore o galleria, che attraverso la street art, la performance art, e a volte anche attraverso il vandalismo, ha cercato di denunciare l’imbarazzante di assenza di democrazia nella Russia di Putin, tanto che i suoi membri sono finiti spesso nel mirino delle autorità russe. Le attività del collettivo sono forti, spesso sfidano direttamente le forze dell’ordine e mirano specificamente a screditarle e denunciarne le strapotere, cosa che li ha spesso posti nel mirino della censura, anche per le loro offese al buon gusto attraverso performance che mettono al centro il sesso e le oscenità, cosa che gli ha alienato anche il favore di buona parte del pubblico.

Alcune delle loro azioni artistiche hanno spesso travalicato il concetto stesso di performance, come da loro affermato, per arrivare a uno scopo prettamente politico e scandaloso: ad esempio nel 2011 alcuni membri del collettivo appiccarono un incendio doloso a una camionetta della polizia, affermando che fosse “un’ azione che va oltre l’artistico”. Un piglio deciso ed estremo che spesso, da parte dei media, ha fatto accostare le loro azioni a degli atti di terrorismo, compiuti con l’intento di destabilizzare l’ordine pubblico.

Sia Vojna che Pussy Riot hanno combattuto per anni le loro battaglie artistiche in nome della democrazia, almeno fino alla metà degli anni 2010, quando dopo anni di sfide poste all’ordine pubblico, le loro attività sono andate pian piano sfumando.

Il collettivo artistico delle Pussy Riot in particolare, che compone anche un gruppo musicale punk rock, si è espressa per anni con flash mob e performance collettive nelle maggiori città della Russia per denunciare la situazione di semi-dittatura che si vive nel paese europeo, performance che sono costate ai suoi membri due anni di prigione per offesa allo stato e alla sensibilità religiosa del pubblico.

Le componenti del collettivo sono state infatti fermate dalle pubbliche autorità dopo aver provato a improvvisare un concerto di protesta contro la rielezione di Putin (avvenuta sulla base di presunti brogli elettorali) all’interno della storica Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca.

Che sia a causa delle istituzioni, o di un pubblico riottoso, il tema della censura nell’arte torna dunque molto forte, se si pensa che nel solo 2020 hanno avuto luogo quasi 1000 casi di violazione della libertà artistica in 90 paesi del mondo, 82 artisti sono stati incarcerati per le loro opere e 17 invece sono stati uccisi. Allo stesso tempo la proposta di legge dell’articolo 13, stringente normativa sul copyright avanzata in sede UE, ha provocato reazioni conflittuali, dato che una legge del genere limiterebbe in gran misura la quantità e la tipologia di materiale audio e video pubblicabile online, in un periodo storico in cui la creatività e diffusione culturale avviene soprattutto su internet.

LA CENSURA NEL CINEMA

Così come ogni altro tipo di artista, anche nel cinema registi e sceneggiatori, hanno raccontato questa tematica e hanno cercato di valorizzarne l’importanza.

Ovviamente quando si parla del rapporto tra arte, libertà di espressione e censura, i primi titoli che vengono in mente sono i grandi capolavori di fantascienza distopica, ambientati in mondi futuri in cui a governare ci sono istituzioni totalitarie di stampo autoritario: oltre al già citato Essi vivono, vengono subito alla mente i grandi classici come 1984 (M. Radford, 1984), con la sua rappresentazione di un mondo in cui un organo di controllo incombe costante sui cittadini, come nel panopticon di Bentham, ma soprattutto Fahrenhei 451 (F. Truffaut, 1966), in cui l’argomento della censura dell’arte viene affrontato di petto. Entrambi i film sono tratti da grandi romanzi, ma il film di Truffaut, tratto dal romanzo di Bradbury, mette in scena chiaramente una società in cui la censura dell’arte è qualcosa di irregimentato e sistematico: nessuno nel futuro può possedere o leggere libri ed esiste uno specifico corpo di pompieri addetto al rogo della carta stampata, che va di casa in casa a cercare i libri e le persone che li leggono per poterli distruggere. In questo modo la società non viene corrotta dalle infiltrazioni e le storture provocate dal pensiero scritto e mantiene una sua linea di coerenza e omologazione pagata al prezzo della distruzione della libertà di espressione.

Un regista che ha trattato in modo simile queste tematiche con un dittico fantascientifico di grande interesse è stato l’inglese Terry Gilliam che con i suoi film Brazil (1985) e The Zero Theorem (2015) ha raccontato una società tecnologizzata ed estremamente burocratizzata, in cui non c’è più spazio per il pensiero libero e anticonformista,  ne per la fantasia e il sogno, se non quando essa è rivolta verso la superomistica ricerca del senso ultimo della vita, qualcosa di illusorio e fugace, lontano dalle pragmatiche esigenze di una società in crisi.

Negli anni registi e cineasti hanno iniziato a chiedersi anche quali fossero i confini di ciò che viene definito arte, espressione artistica, e cosa invece non è qualcosa di illegale, immorale, contorto e vietato: un po’ lo stesso interrogativo che aveva posto il collettivo Vojna al grande pubblico durante il suo operato. Ad esempio tutto il film Holy Motors (L. Carax, 2012) gioca sottilmente su questa tematica, cercando di restituire la complessità dell’interrogativo che ne sta alla base. Nel film un personaggio, che poi si scopre essere un attore, o più semplicemente un trasformista, spostandosi per Parigi su di una limousine, interpreta diversi personaggi, diverse figure che cambiano e si muovono per la città, ognuno con un aspetto, un fine, una storia diversa. Da uomo d’affari, a padre apprensivo nei confronti della figlia, a maniaco omicida, ad amante appassionato, il protagonista sposta ogni volta l’asticella della sua performance verso un limite non scritto che non si credeva fosse facile raggiungere, fino a che le sue azioni non incidono nelle vite delle altre persone attorno a lui, provocando ogni volta reazioni ed eventi inaspettati: tutto all’interno di una performance. A questa riflessione si sottrae il ruolo dei mezzi della comunicazione, che nel film sono assenti: non c’è mediazione, tutto il mondo è un palcoscenico, ed è la performance in sé, l’arte, a porre delle domande al pubblico, non la sua diffusione o la sua ricezione.

Una pellicola interessante che rappresenta in maniera fedele quali possono essere invece i conflitti che intercorrono nel rapporto tra artista, rappresentazione artistica e mezzi di comunicazione è Man on the Moon (M. Forman, 1998), film biografico sulla vita del comico e showman Andy Kaufman. Andy Kaufman è stato un attore e personaggio televisivo che raggiunse il successo in America tra la metà degli anni ‘70 e la metà degli anni ‘80 con la serie televisiva Taxi, ma che si era già fatto un nome nelo showbizcon i suoi spettacoli di comicità estrema in cui riusciva a mettere seriamente alla prova la pazienza e il buongusto del pubblico. Non era inusuale per Kaufman improvvisare interi spettacoli in cui a contare non era tanto la risata scatenata nell’audience quanto la performance che si susseguiva in maniera imprevedibile, da cambi di personaggio, a offese rivolte al pubblico fino a reading di interi libri eseguiti di fronte agli spettatori. Un personaggio scomodo per i broadcast e per la televisione americana dell’epoca, che cercò sempre di limitare e dare un freno alle scatenate esibizioni dell’artista, fino alla sua morte sopraggiunta prematuramente a 35 anni.

Persino Martin Scorsese in uno dei suoi primi film ha affrontato in maniera collaterale il tema dello strano rapporto che sussiste tra mezzi di comunicazione, arte e la sua diffusione. Nella pellicola Re per una notte (1983) racconta la storia di Rupert Pupkin, un comico spiantato sulla trentina che vorrebbe a tutti i costi apparire in un noto programma televisivo per esibirsi col suo pezzo comico. Forse perché è un personaggio eccentrico, forse perché il suo pezzo non è abbastanza valido, la sua candidatura viene continuamente rigettata, fino a quando Pupkin decide di intervenire in prima persona: rapisce così il conduttore dello show e occupa lo studio dello show, assicurandosi i suoi 15 minuti di celebrità. Un modo simile di affrontare l’argomento è stato ripreso anche dal film Joker (T. Phillips, 2019) in cui il disturbato protagonista, sbarcato finalmente nel suo programma televisivo preferito, ruba infine la scena al suo conduttore uccidendolo in diretta. Un modo peculiare di raccontare il nevrotico rapporto che si è creato negli ultimi 50 anni, nel pubblico e nel mondo della creatività, tra l’idea del successo e della fama, e le persone che a quella fama e a quel successo ambiscono, frustrate di non far parte di quel mondo scintillante e disposte a tutto pur di accaparrarsi la loro fetta di gloria in quel mondo.

Una tematica simile, anche se presentata in modo diverso, viene esaminata anche nel film Nightcrawler – Lo sciacallo (D. Gilroy, 2014), in cui vengono portate le storture e depravazioni a cui possono portare l’ambizione per il denaro e la mancanza di un’etica, di un’ autocensura quando si lavora nel mondo dello spettacolo e dell’informazione. Il protagonista del film è Lou, uno sfaccendato operatore video che, dopo aver assistito a un incidente stradale, capisce quanto può essere remunerativo vendere in esclusiva le immagini di eventi sanguinosi e delittuosi ai giornali e alle emittenti televisive. Uno scoop dopo l’altro Lou lascia da parte il suo senso della misura per arricchirsi sempre di più procurandosi immagini di violenza, fino a entrare in un circolo vizioso che lo porterà a essere protagonista di quella violenza.

Per chiudere questa disamina delle pellicole aventi come argomento il rapporto tra arte e censura, vale la pensa segnalare una piccola perla uscita negli ultimi anni che tratta questo argomento in modo diretto e allo stesso tempo scanzonato, come una piccola fiaba che racconti dei rapporti che sussistono tra arte e potere. Il film è Guava Island (H. Murai, 2019), musical prodotto dall’attore e rapper Donald Glover alias Childish Gambino. In un mondo fantastico, esiste l’isola di Guava, un’isola tropicale in cui la terra è abbondante di frutti e tutti vivono in armonia tra loro; almeno fino a quando una famiglia più potente delle altre, la famiglia Red, riesce ad accaparrarsi il monopolio della produzione del baco da seta ceruleo, la più grande ricchezza dell’isola. Tutta l’isola viene sottoposta al giogo della famiglia Red nella fabbriche della seta, ma il musicista Deni è ancora l’ultimo artista che si sottrae alle angherie dei Red, e cerca di diffondere il suo messaggio di pace attraverso la musica. Questo lo porterà ad affrontare numerosi problemi con le autorità, in nome della battaglia per la libertà di espressione.

Il film si inserisce nel filone delle ultime produzioni artistiche del rapper statunitense che in molte delle sue canzoni (la celebre “This is America”, eseguita anche nel film) denuncia la situazione di razzismo e povertà culturale che si vive negli Stati Uniti nell’ultimo decennio, un paese che dovrebbe essere all’avanguardia in tutto ma che ha ancora delle grandi lacune da colmare in tema di libertà civili, soprattutto in una società varia e stratificata come quella americana.

Passando all’ambito televisivo, è impossibile non citare le innumerevoli suggestioni avanzate da una serie come Black Mirror (C. Brooker) che fin dal suo esordio, mette continuamente alla prova lo spettatore con interrogativi profondi sulla moralità della azioni dell’uomo, su quanto possa spingersi lontana la sua libertà, e delle sue conseguenze in un prossimo futuro, ponendo sempre il suo pubblico in una posizione scomoda di relazione critica con le tematiche trattate.

Persino nel suo tono scanzonato, anche una serie italiana come Boris (L. Manzi), è un prodotto indicativo per mostrare, nella sua più generale denuncia di una situazione di povertà culturale e immobilismo sociale del nostro paese, come la creatività sia sempre qualcosa che va mediato e controllato da parte delle istituzioni, per fare in modo che il pubblico abbia sempre quello che desidera piuttosto che qualcosa di nuovo e stimolante, una legge ancora più valida nel mondo commerciale e di larga fruizione come quello della televisione.

Nel campo del cinema documentario può essere indicativa la visione proposta dai film The Social Dilemma (J. Orlowski, 2020) e The Great Hack (K. Amer, 2019), film che mettono in guardia soprattutto dalle minacce in cui possiamo incorrere su internet con la diffusione dei nostri dati personali, e che mostrano piuttosto fedelmente come, con la nostra presenza su internet, siamo già involontariamente soggetti di un panopticon che ci monitora costantemente che è la nostra società.

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