A Riccione per il Premio Tondelli

Teatro, Fulvia Cipollari: «Proviamo a curare l’anima delle persone con la parola»

Una drammaturga, una docente di Lettere, una psichiatra mancata. Oggi vi raccontiamo la storia di Fulvia Cipollari e vorremmo che ne apprezzaste come noi le storie. Non sarà una lettura breve, ma crediamo ne valga la pena

12 minuti di lettura

«“Io sono Fulvia”. Così risponderei a chi mi chiedesse chi sono. Nient’altro. I miei genitori o i miei nonni avrebbero risposto con il loro mestiere, mentre noi oggi siamo prigionieri di una visione molto più privata della vita (che pure aborro), ma che ci costringe a un continuo movimento. La mia vera casa è attualmente l’auto». Dopo una lunga attesa (leggerete se ne è valsa la pena), dovuta ai frequenti spostamenti fra Roma e Perugia, riesco a incontrare la drammaturga Fulvia Cipollari nella sua città natale, Fermo. Siamo a pochi metri di distanza dal liceo scientifico “Temistocle Calzecchi Onesti”, dove è stata docente di Lettere nello scorso anno scolastico.

A volte è da un dettaglio che puoi cogliere l’insieme. E la prima cosa che colpisce di lei è la passione che la anima. E anche una certa teatralità nel mostrarla. «No, te lo metto subito in chiaro: del teatro mi piace tutto, ma non sono un animale da palcoscenico. Dammi anche da attaccare i cavi per le luci e lo farò con piacere (e d’altronde mi è capitato di occuparmi anche di quello di recente) ma non salirò sul palco. Io voglio mettere in scena i miei testi, questo è quello che mi piacerebbe sopra ogni altra cosa». I giornalisti (come me?) sanno che il tempo non è mai adeguato: se si va in un posto e ci si resta un giorno si scrive un articolo, se ci si sta un mese un libro, se ci si sta un anno non si scrive più nulla tanto complessa è la realtà. Pensavo proprio a queste parole del grande reporter Ryszard Kapuscinski nelle oltre due ore passate con lei. Il giornalista guarda, osserva, annusa e soprattutto ascolta. E poi a casa si mette a usare la testa per dare un senso al materiale.

Il Premio Riccione per il Teatro è il riconoscimento più importante per la drammaturgia teatrale italiana, quello che ha seguito le evoluzioni della scrittura, le innovazioni, le invenzioni dialettali, i cambiamenti tematici, gli incroci con altri linguaggi. Fulvia è stata recentemente finalista nel premio collegato, il “Pier Vittorio Tondelli” assegnato al miglior testo di un autore under 30. «Di cosa parla? È un testo in cui descrivo la condizione dei Millennials, una generazione di eterni figli: io, che ne faccio parte, non mi sento ancora nel mondo degli adulti. Lo dico con difficoltà, da nata nel 1993. Dall’esterno mi viene richiesto di essere adulta, ma al contempo né mi è stato insegnato né me ne viene data la possibilità. Ho cercato di tradurre artisticamente tutto ciò».

Difficile racchiudere in poche parole ciò di cui parla (e non solo perché non l’ho letto eh). «Diciamo che prima di scriverlo ho fatto questa riflessione: in un’Italia post-pandemica, come potrebbe ripartire il mio teatro? Dopo di che mi sono imbattuta in Montale. “Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto”. Si riferiva ad altro, ma i poeti parlano una lingua universale e tu li fai un po’ tuoi. In estrema sintesi racconto una storia d’amore sotto pandemia e di come la Storia con la S maiuscola si appropri della vita del singolo. I due sono forzatamente lontani e pian piano vedono spegnersi la loro storia, senza alcuna possibilità di replica. Le cose che muoiono nel silenzio sono quelle che poi fanno più rumore e questa pandemia mi ha lasciato questo silenzio, questa ferita che è difficile da rimarginare, una ferita che è lontananza, impossibilità di vedersi, toccarsi».

Parlando con lei, mi torna in mente il Paradiso, in cui Dante si domanda, nel passaggio dal cielo del Sole a quello di Marte, se i beati non vedano l’ora di riavere il proprio corpo dopo il giudizio universale e scrive «forse non pur per loro ma per le mamme». L’idea è che senza corpo, pur in paradiso, non si può del tutto esprimere il proprio amore: non si può abbracciare, non si può accogliere, manca la fisicità (aggiungo questa piccola digressione per far finta di essere colto).

Il titolo del suo testo, “L’esperimento di Young”, mi aveva colpito fin da subito. Un afflato scientifico apparentemente inusuale per un’ex-allieva del liceo classico “Annibal Caro” di Fermo, laureata in Filologia all’università di Perugia. «Ma ti rassicuro, è stata solo la fortuita conversazione con una fisica che mi ha fatto riflettere su quanto la realtà cambia a seconda di come la si osserva, non solo in ambito quantistico. Fa sempre un po’ effetto per noi umanisti considerare che quello su cui elucubriamo esiste, è un fatto. Metaforicamente il mio testo vuole dire che, se nessuno ti guarda, perdi consistenza o almeno cambi a seconda di chi ti guarda. Questa, che pure sembra una banalità, va sempre collocata all’interno del contesto pandemico».

Hannah Arendt diceva che, nella vita individuale e collettiva, esiste sempre l’Evento, quel qualcosa che periodizza e scandisce un prima e un dopo. «Credo che non si possa non fare i conti con quello che il Covid-19 ha prodotto nelle nostre vite. Scrivere facendo finta che questa parentesi di morte non sia esistita per me è impossibile, impossibile dimenticare l’involuzione politica e artistica a cui è stato sottoposto questo Paese, il tempo che è passato senza lasciare traccia. Il senso di abbandono che noi lavoratori dello spettacolo abbiamo patito».

Fulvia non si definisce artista, io invece simpaticamente l’ho etichettata più volte così, in presenza e a distanza. «Io sono una drammaturga. Sono arrivata relativamente tardi al teatro, al secondo anno di università, ho partecipato al laboratorio teatrale “Tre Atti” a cura del Teatro di Sacco: si è creato un gruppo veramente bello. Di comune accordo col regista, abbiamo deciso di attivarci e creare il “Collettivo Cantiere”. È stata la mia palestra, lì sono state le mie esperienze come attricetta di periferia e di provincia. Un’emozione forte la scena, che raccomando a tutti: così intensa da non essere per me. Poi ho questa cadenza importante che non aiuta… E così mi sono allontanata dai riflettori e ho pensato a come unire le mie due passioni: la filologia e il teatro. Una volta laureata, sono andata a Roma, all’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio d’Amico”, dove ho studiato Drammaturgia e Sceneggiatura per due anni intensi, con orari dalle 8 alle 20».

Una scoperta tardiva quella del teatro, al punto che inizialmente l’università prescelta era stata Biotecnologie. «Io volevo fare Medicina. E così iscrivendomi a quel corso di laurea mi stavo preparando al test, il problema è che poi all’università andavo a seguire le lezioni di Lettere: di nascosto prendevo le mie cosine, mentre il tipo parlava di matematica, e me ne andavo nell’altra sede poco distante; quindi, mi sono messa tutti gli esami a scelta in materie umanistiche… Insomma l’anno dopo ho capito che dovevo iscrivermi a Lettere. L’idea iniziale era nata perché mio nonno era psichiatra e quindi ho sempre avuto una certa sensibilità rispetto a una cura a livello mentale (ma il sangue mi terrorizza!). Volevo curare l’anima delle persone e forse non mi sono nemmeno troppo spostata da lì in fin dei conti (poi magari non ci riesco, però è quello che voglio fare)».

Quando le ho chiesto chi fosse oggi, mi ha risposto «Io sono Fulvia». Al che io, con raffinatissima ironia, le ho fatto il verso alla maniera di Giorgia Meloni. Ma allora cosa fa Fulvia oggi? «Quando partecipai alla mia prima lezione effettiva da studentessa di Lettere, ed era latino, mi veniva quasi da piangere dall’emozione perché sentivo che era quello che dovevo fare. Non mi facevo ancora progetti lavorativi precisi, dopo la laurea mi sono iscritta nelle graduatorie per la scuola. È stata una bellissima scoperta; sono una persona realista e pensavo che la scuola sarebbe stata un probabile sbocco ma… la mia prima volta l’anno scorso, entrata in una classe virtuale (eravamo in Dad), mi sono trovata così bene coi ragazzi e le ragazze. La bellezza sta nel rapporto che costruisci: in fondo gli studenti sono i migliori colleghi che puoi avere (nulla contro di te, voglio precisare!); non mi immaginerei mai in un lavoro d’ufficio con dei colleghi barbosi. Sono sempre stata dell’opinione che uno deve fare quello che gli piace, quindi se mi fossi accorta che questo non era il mio lavoro, non avrei mai continuato».

Siamo stati colleghi lo scorso anno, io e lei, anche se non ci siamo mai parlati dal vivo. Ho seguito online i suoi successi (so già che criticherebbe quest’affermazione) e giocare al giornalismo è un’ottima opportunità per conoscere chi vorremmo conoscere. «Io credo che i giovani oggi non li ascolti più nessuno, è importante avere chi lo fa a scuola. I ragazzi vogliono essere ascoltati, una volta coinvolti rispondono, reagiscono, apprendono. Bisogna solo trovare la chiave giusta. Mi ricordo i miei docenti: i classici professori del classico. Non mi hanno trasmesso quello di cui avevo bisogno, quello di cui i ragazzi e le ragazze avrebbero bisogno. Per questo occorrono docenti più giovani. Ho scoperto il teatro dai collettivi, ma non solo. A loro devo anche le novità letterarie. C’era dibattito, partecipazione, vita. Non si può lasciare tutto alla famiglia, non solo per le inevitabili disuguaglianze ma anche perché l’adolescenza è una fase troppo delicata e particolare».

Teatro o scuola, teatro e scuola, scuola a teatro. «Per una scuola di Sant’Elpidio a Mare ho curato un corso di corti cinematografici: siamo arrivati in finale a un festival a Torino (arrivo sempre in finale, senza quasi mai percorrere l’ultimo tratto.. speriamo stavolta mi portino fortuna). Mi capita di fare questi laboratori: mi occupo di tutto il lungo percorso che, dalla scrittura, porta poi alla produzione scenica o cinematografica. Mi è piaciuto proprio il momento della scrittura collettiva, una scrittura fatta di condivisione. Mi piace trasmettere l’amore che ho per il teatro, che è massima libertà e quindi massima espressione di sé: ti puoi prendere la libertà di fare quello che vuoi e sublimare tutte quelle pulsioni che nella vita di tutti i giorni risultano anche ridicole o negative. Secondo me, soprattutto oggi, è l’unico modo per esprimere una delle poche cose che nessuno può toglierci: la parola e a insegnarmelo è stata la pandemia. Purtroppo ora pare esistano solo le materie scientifiche, viviamo ormai scollegati da un retroterra che è molto nostro».

Abbiamo accennato più volte alla drammaturgia, ora è venuto il momento di definirla meglio. «È la scrittura per il teatro. Si tratta di una forma di scrittura che non è dogma: il testo è sempre servo della scena. E questo mi mette una relatività tranquillità, nel romanzo sei tu a decidere e a dettare le regole; il teatro, invece, è sempre cambiamento, uno studio aperto. Da adolescente il bisogno di scrivere era più un sogno, che non avevo mai messo in pratica, anche se sentivo quell’urgenza da rigurgito continuo di pulsioni. Tutto piano piano poi si incanala e ho conosciuto le regole per la scrittura. In Accademia ho studiato la scrittura anche per il cinema, le serie tv e il fumetto. Il fumetto (che è la modalità che mi è più lontana) ha delle regole sue che non sono quelle del cinema, che non sono quella delle serie (che ne ha veramente tante, importate dall’America) che non sono quelle del teatro. Il teatro mi lascia molta più libertà: se un personaggio, a un certo punto, vuole fare un monologo… lo fa; nel cinema o sei Woody Allen o il meta-cinema te lo scordi. Comunque io nei miei testi sono piuttosto realista».

Il testo di cui abbiamo parlato finora non è l’unico a essere premiato. «Quest’anno sono stata finalista anche alla rassegna di corti teatrali “Sostantivo Gender”. Si trattava di un dialogo un po’ sperimentale. Per ragioni tecniche e pratiche avevamo un’attrice sola e così mi sono prestata a fare la voce registrata. Il tema era in qualche modo l’identità di genere, ma non nella maniera ordinaria, ma più filosoficamente. Era un ragionamento sull’inconsistenza del genere umano: se non vengo guardato dagli altri, poi non esisto e perdo identità, perdo riconoscimento. Prima invece scrivevo di più per una necessità più intima, più interna. Ad esempio un testo, che ha vinto due concorsi, si chiama “Come piante” e parla di questi due fratelli che hanno un amore incestuoso e sono due serial killer e di come il loro amore sia all’incastro di un nemico comune». 

Vivere per il Teatro, il Teatro per vivere. «È un discorso un po’ scomodo da fare, ma oggi quello che detta davvero le regole è il mercato: si vende quello che si compra. Chi se lo prende il biglietto per venire a teatro, a quel costo? La signorotta in pelliccia che è una mummia: so che è in cliché, ma è la realtà. O metti in cartellone l’Edipo, la Medea o gli altri titoli noti oppure hai l’attorone dietro… le drammaturgie più giovani chi te le produce? E così la pandemia ha accelerato una tendenza già in atto e tante realtà contemporanee, fresche e giovani stanno finendo. Vivere di solo teatro è impossibile e io devo pur dire che nell’ultimo anno sono stata fortunata. Ho lavorato in particolare per il Teatro di Roma come dramaturg, una figura particolare. Essenzialmente ho affiancato registi per la riscrittura di testi, ho fatto poi l’assistente alla regia, trattavo con i teatri amministrativamente. C’è stata anche una cosa, con Metamorfosi cabaret su YouTube, che avevo sempre vissuto male: lo streaming a teatro. Credevo non potesse rendere l’odore del legno, le luci del palco, la bellezza dei corpi. Oggi, grazie all’uso forzato dovuto al Covid-19, penso che questi mezzi (ho fatto un grande lavoro su me stessa!) siano delle importanti possibilità».

Flessibili o precari? A lungo (come ho scritto altrove) molto si è esaltata la libertà di scelta data dalla flessibilità del lavoro, oggi parliamo più di precarietà perché si tratta di una condizione imposta e perlopiù negativa. «Io non mi sposto con un grande malessere: andare ora una settimana a Roma è stato bellissimo, nonostante dormissi su un divano a casa di amici. Però che dire, mi piacerebbe un posto fisso. Col teatro si vive se ti metti in testa di fare tante tante cose diverse e precarie, con orari assurdi. Io oggi so che non abbandonerò mai il teatro, però so anche che per fare quello che sto facendo devi avere una pazienza che adesso ho ma non so se l’avrò sempre quest’energia. Pur non essendo direttamente politici, i miei testi mettono al centro una generazione che non ce la fa a crescere, perché l’indipendenza economica, alla base di qualsiasi possibilità di emancipazione, si raggiunge con estrema difficoltà».

L’impegno nuoce gravemente alla letteratura, si potrebbe riassumere così il pamphlet di Walter Siti “Contro l’impegno”. Eppure la letteratura è un mezzo sorprendente, cosa ce ne facciamo se non può stimolare un cambiamento radicale dei modi di pensare? «L’arte non ha granché senso se non viene collocata in contingenze storico-culturali. L’opera nasce come esigenza di dire qualcosa che per noi è importante, che possa essere la rivendicazione di un diritto, una nostra verità. I miei testi nascono da una mia urgenza, da una ferita non rimarginata. Se non l’arte, chi è che parla della nostra generazione? [si infiamma, ndr]. Senza essere didascalici o moraleggianti, c’è la necessità di una spinta per parlare dei grandi temi: il lavoro, il precariato… chi se non coloro che la vivono in prima persona! Io mi sento una donna in un mondo maschilista, una giovane in un mondo di vecchi e potrei continuare. In un mondo di dicotomie faccio parte della minoranza meno privilegiata».

E se il teatro per Fulvia è libertà, come scriveva la Arendt: “Il senso della politica è la libertà”. «Il discorso è che la letteratura oggi è diventata una serialità di significanti. Ovviamente la bellezza è sempre qualcosa da raggiungere, ma non può restare lì di per sé stessa, altrimenti facciamo l’Arcadia: questi bellissimi versi, questa forma perfetta… bisogna un po’ sporcarsi con il significato, anche nell’arte. Altrimenti resta il vuoto, una sterilità che non porta nulla, che non lascia la nostra anima arricchita. “Politica” non è una parolaccia. Oggi abbiamo riscoperto le battaglie per i diritti civili, che sono essenziali, ma se non si incarnano nei diritti sociali restano solo belle parole. Riprendiamoci la politica, impegniamoci».

Lei da Fermo, io da Ascoli entrambi ci troviamo in una condizione simile: il ritorno nella provincia italiana. «Entrambi abbiamo vissuto, come tanti altri, un ritorno a casa un po’ tragico. Nel testo per il Tondelli una trentenne torna nella provincia dalla grande città, passa dall’affollarsi degli stimoli culturali al vuoto. Ho fatto un discreto lavoro su me stessa per dirti che ora sento che occorra impegnarsi per creare qualcosa di bello qui. Basta andarsene, lasciando qui il deserto dei tartari. Bisogna unirsi, proviamoci».

Fulvia Cipollari la trovate su LinkedIn, Instagram e Facebook. Seguitela, ma soprattutto andate a teatro! E non accontentatevi dei soliti noti, perché il teatro non è che l’ennesimo mondo in cui è l’uomo bianco cisgender a farla da padrone «e si passa dal paternalismo alla misoginia. Sono una donna, sono giovane e vivo con questo senso di rabbia: non vengo presa sul serio». E ora corriamo (anche voi signore impellicciate) a leggere i suoi testi e a vederli rappresentati.

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