Stefano Massini e le sue storie incantano l’Ama Festival

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Pronto a gettarsi nella carriera accademica, Stefano Massini, all’epoca giovane brillante laureato in papirologia, non si aspettava che una domanda quasi banale potesse cambiargli la vita. “Hai mai scritto per il teatro?”. A pronunciarla Luca Ronconi, regista innovatore del teatro italiano. Dopo di allora, Massini diventerà romanziere, saggista e autore teatrale di fama internazionale, guadagnandosi numerosi premi e riconoscimenti. A distinguerlo è la straordinaria capacità di fondere il talento letterario con una narrazione vivace e coinvolgente, che il grande pubblico italiano ha potuto apprezzare anche in televisione.

Ad ospitarlo di nuovo, dopo una prima volta nel 2019, è l’Ama Festival 2023 dal titolo “I Care”. Il festival delle arti parlate, musicate e rappresentate si è svolto l’1 e il 2 luglio presso la Comunità Terapeutica “Casa Ama”, organizzato dalla Cooperativa Sociale Ama Aquilone. Il tema di questa edizione è stato l’avere cura, come messaggio di reciprocità: prendersi cura dell’altro, del pianeta, delle generazioni future, implica innanzitutto la cura di noi stessi. Inframmezzata dall’arpa armonica di Stefano Corsi, è stata proprio la cura il filo conduttore della cavalcata narrativa di Massini: scrivere, per lui, vuol dire infatti “I care you”.

Jorge Luis Borges, uno dei più celebri scrittori del XX sec., era divenuto cieco e aveva una donna ad accudirlo. Un giorno lei lo informò che la sua nipotina, saputo presso chi lavorava, ne aveva parlato a scuola e ora la sua classe sarebbe stata onorata di rendergli una breve visita. Borges fu entusiasta e così, un pomeriggio di primavera, la casa si riempì. I bambini erano stati aiutati a formulare domande e stendere una scaletta, ma a un certo punto Ramon, che non aveva preparato nulla, chiese: “Come fai a essere così vecchio?”. E lui, senza scomporsi, raccontò di grandi cisterne del periodo arabo in cui si immergeva da bambino, abitate da longeve tartarughe: si diventa ciò che si beve. “E perché uno scrittore?”, perché aveva bevuto l’acqua dei libri… se si fosse abbeverato di schifezze, chissà ora cosa sarebbe diventato. Scrivere è prendersi cura degli altri: la storia altrui è sempre importante, sempre interessante per noi e per questo va raccontata. Non c’è storia che non sia essenziale conoscere.

A Palermo, negli anni ’80, si combatteva all’interno di Cosa Nostra fra i vecchi e i nuovi capi: i cadaveri si accumulavano per le strade. Vito Ciancimino, assessore e poi sindaco, si scoprì essere colluso con la mafia. Per salvare la faccia, la Dc scelse un nuovo sindaco ed era una donna: la prima volta fra le grandi città italiane. Si trattava di Elda Pucci, primaria dell’Ospedale dei Bambini, che entrò in carica il 19 aprile 1983. La sua esperienza sarebbe durata appena un anno, perché la sindaca non ci stava a fare la bella statuina. Aveva studiato, aveva notato i costi esorbitanti dei servizi pubblici dati in gestione ai soliti noti: si era messa in testa di fare finalmente le gare d’appalto. Inoltre, per la prima volta, la città di Palermo, durante il suo mandato, si costituì parte civile in un processo di mafia. Elda Pucci voleva cambiare le cose, ma glielo impedirono sfiduciandola in Consiglio comunale. E, appena dopo, la sua casa di Piana degli Albanesi saltò in aria spinta da due cariche di esplosivo. Una volta, in seguito, le chiesero che cosa mancasse per sconfiggere la mafia, secondo lei che era stata in prima linea. A sorpresa, rispose che era necessario insegnare ai bambini parole di verità su cosa sia la criminalità organizzata.

Un grande educatore come Don Milani sosteneva la stessa cosa, quando prendeva i figli di operai e contadini e voleva offrirgli un’educazione di qualità. L’obiettivo non era farne forzatamente degli intellettuali, ma insegnare loro le parole per diventare esseri umani migliori, condividendo e comunicando con gli altri. Proprio il contrario, invece, di quanto Manzoni fa dire a Renzo: più parole si usano più cercano di fregarti, le parole servono al contrario a raccontare ciò che abbiamo dentro.

A questo proposito, interessante è il caso Tahiti. Negli anni ‘50, una ricerca condotta dall’antropologo e psicoterapeuta Robert Levy gettò luce su un mistero: il fenomeno dei numerosi suicidi a Tahiti. Levy fece una scoperta sorprendente: i tahitiani non avevano parole per descrivere il dolore, al di fuori di quello fisico. Mancavano di un vocabolario che potesse abbracciare la sofferenza spirituale che, nonostante fosse presente nella loro vita, rimaneva senza un nome e un concetto definito. L’assenza di parole per esprimere fragilità, tristezza e angoscia rendeva le loro emozioni incomprensibili, portando a un tragico cortocircuito che spesso sfociava nel dramma del suicidio. Questa storia così tragica dimostra che le parole, più di ogni altra cosa, possono definire e plasmare la nostra esperienza umana.

Freud disse, infatti, che dal trauma ci si può salvare se lo si racconta. Allora più parole conosciamo, più riusciamo a raccontarci. Ogni volta che parliamo, la nostra mente compie una scelta. Anche per le cose più stupide, dipende sempre tutto da quello che abbiamo intorno e da come ci relazioniamo con esso. È insopportabile allora chi dice: “L’ho detto tanto per dire”.

Tullio De Mauro ha dimostrato che, quando c’è una dittatura, il dizionario perde il 10-15%: parliamo di meno, parliamo peggio. Immaginiamo un bambino emarginato perché tutti gli altri giocano a un gioco stupido; pensiamo di avvicinarci e chiedergli cosa succeda: “Uno decide e gli altri fanno come dice”, risponderebbe. Ecco, la dittatura è pigrizia: lasciare ad altri l’incombenza di proporre, di inventare, di scegliere. Non c’è più bisogno di parole, c’è qualcuno che parla per te. E non è un caso che nel classico di Johann Heinrich Pestalozzi, “Leonardo e Geltrude” si veda che, nonostante sia stato fatto fuori il despota, tutto era rimasto come bloccato, nel Paese di cui si racconta nel libro, in quanto gli abitanti avevano disimparato a parlare e allora dovevano reimparare a farlo, a scegliere le parole.

Ngugi wa Thiong’o, uno dei più importanti scrittori e intellettuali africani contemporanei, a un certo punto rinnegò la propria fede cristiana e l’uso della lingua inglese, abbandonando anche il suo nome ‘coloniale’. Quindi, iniziò a scrivere esclusivamente nella lingua nativa del suo popolo, il kikuyu, e in swahili, esprimendo posizioni politiche sempre più apertamente ostili al potere politico di quegli anni. Un’opera teatrale lo portò in carcere, lì scrisse il suo primo romanzo in gikuyu su alcuni rotoli di carta igienica: la parola non si può fermare. Bisogna “Decolonizzare la mente”. Il mezzo più potente di cui si serve l’imperialismo post-coloniale è infatti il linguaggio. A scuola insegnavano che erano stati i bianchi ad aver scoperto l’Africa. No, abbiamo dentro di noi le bellezze di un continente inesplorato e non bisogna aspettare che qualcuno fuori te lo faccia scoprire.

Franz Kafka dedicò tre fra le sue ultime settimane di vita a scrivere lettere a una bambina che aveva incontrato in un parco, dove l’aveva vista piangere disperata per la perdita della sua bambola preferita. Lo scrittore fece credere alla bambina che la bambola fosse partita per un viaggio in giro per il mondo, raccontandole le sue avventure. Alla fine, le regalò una bambola, ovviamente diversa da quella perduta, ma in un biglietto accluso spiegava: “I miei viaggi mi hanno cambiata”. Avrebbe poi commentato: “Mai come in queste settimane mi sono sentito più utile. Far smettere di piangere un’unica bambina. Questo, secondo me, è il senso vero del raccontare”.

A Bram Stoker venne diagnosticata fin da bambino una grave malattia, gli venne detto che era praticamente un morto che camminava. Eppure, sopravvisse e fu l’autore di “Dracula”. Ogni storia è una metafora, diceva Borges. Anche la parte più morta di noi può tornare a camminare.

Sul finale Massini ha virato, nelle sue storie, su di un lato più ironico. Concludendo, poi, con queste parole: “Prendersi cura degli altri è scegliere le parole, il più grande rischio che corriamo è quello di usare parole preconfezionate, luoghi comuni, verità di cui ci si serve sapendo che verranno condivise. ‘Mi prendo cura di te’, quando le cose che ti dico sono quelle che sento. E non a caso il mio incubo ricorrente è raccontare storie usando interamente frasi fatte e stereotipi”. Qui il ritmo delle parole accelera nel racconto di questo sogno allucinato, le risate si levano fragorose sulle ali delle parole ‘facili’ di cui sono infarcite le nostre conversazioni quotidiane.

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