“Prof., lei meriterebbe il palco del sindaco. Ecco, se alza lo sguardo, mi vede”. Dal quarto ordine del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, una mia ex studentessa di qualche anno fa mi saluta appena un attimo prima di essere riassorbita dal suo lavoro di maschera. Sta smistando la folla di persone accorsa per ascoltare Vito Mancuso in occasione dell’Asculum Festival. Celebre filosofo e teologo, è stato docente all’università San Raffaele di Milano e all’università di Padova; attualmente insegna al master di Meditazione e neuroscienze dell’Università di Udine. Il suo pensiero è oggetto di discussioni e polemiche per le posizioni non allineate con le gerarchie ecclesiastiche, sia in campo etico sia in campo dogmatico. Il suo ultimo libro, come tutti i precedenti un bestseller, è Etica per giorni difficili (2022). Ha pubblicato più di venti volumi, alcuni dei quali tradotti in più lingue, tra cui: L’anima e il suo destino, Io e Dio, Il bisogno di pensare, I Quattro Maestri.
“Che cosa significa essere umani?”. Un religioso silenzio avvolge il teatro mentre il filosofo, da solo sul palco, esita qualche secondo prima di iniziare a parlare a braccio. Solo delle frasi su alcuni fogli a fargli da supporto. “Non è una domanda a cui si può rispondere in modo lineare. Non è una questione che possiamo oggettivare senza coinvolgimento… Quando si tratta di noi, la mente può mentire. Quello che vi chiedo qui stasera è un grande sforzo, un impegno nel raccoglimento: provare ad ascoltare le mie parole come se voi stessi le percorreste dentro di voi, le pronunciaste all’interno di voi stessi”.
“È così bello essere qui, in un teatro, il prodotto più originale di quella civiltà greca di cui siamo figli. Questo non nacque come luogo di spettacolo, se non nel senso etimologico di qualcosa che ha a che fare con lo specchiarsi, con la riflessione, con le speculazioni della mente che riflette. Era il luogo del raccoglimento. Vi si metteva in scena, infatti, l’umano alle prese con la vita, il dolore, l’amore, il fato, i mille perché, i mille non è giusto che sentiamo di dover dire rispetto a ciò che viviamo e che ci accomuna, appunto, a tutti gli altri esseri umani. Non è un caso che, contemporaneamente, nascesse la filosofia. Nasce una rappresentazione dei dolori e delle gioie della vita umana e nasce un pensiero che tenta di capire il perché di queste gioie e questi dolori alla luce del senso complessivo del cosmo, del mistero, le stelle, il sole, i pianeti, la vita, la morte”.
“Io non so come la chiamate la vostra interiorità, ma è a questa che faccio appello ora. Anima, spirito, mente, psiche, coscienza, cuore. Questa nostra capacità di sentire e di pensare”.
A questo punto il teologo fa un lungo e ricco elenco di possibili risposte, di segno opposto, alla domanda che dà il titolo alla sua relazione. Essere umani può voler dire: mostrare attenzione, rispetto, disinteresse; amare il sapere; far prova di onesta intellettuale (la più alta forma di onestà, da cui discende quella pratica); fare un uso accurato di parole pulite, luminose, veritiere; amare la libertà, individuale e collettiva, avendo il coraggio e la voglia di farne uso; lavorare con impegno e passione; darsi una regola di vita; creare bellezza senza fini pratico-funzionali; dilatare la propria mente, il proprio cuore, per accogliere pacificamente tutti i viventi. Essere umani può voler dire al contempo l’opposto di tutto quanto appena detto. Ignoranza, supponenza, violenza, costrizione, settarismo, bruttura, malvagità. A volte può persino sembrare più facile definire ciò che umano non è.
Ecco allora che “l’umano può essere colto nella maniera più autentica con le antinomie, risaliamo alla dialettica di Platone”. E, mentre si sposta da una parte all’altra del palco, continua “se io resto fermo, vedo soltanto il mio punto di vista, ma se cambio posizione ho la possibilità di avere un ‘panorama’, una visione totale. Questo è il movimento dell’intelligenza che ama la realtà, che non vuole che il proprio punto di vista risulti ‘vincitore’ e ‘dominatore’. Vuole che resti letteralmente un punto, un frammento, e quindi si mette nella prospettiva di accogliere altri punti di vista. Invece di combattere per avere ragione, bisogna ascoltare le ragioni dell’altro. E, se lo si fa con onestà intellettuale, si entrerà in contraddizione. Chi ha coraggio, chi non si ritrae dalla contraddizione e la accoglie, la rende un’antinomia, ovvero una contraddizione pensata. Letteralmente uno scontro di due leggi legittime, legali entrambe, eppure opposte. Se non ci si pone in questa prospettiva non si potrà mai capire l’essenziale della vita e dell’essere umano. Il sapore di tutti noi, quello vero della vita, non è dato della teoretica ma dall’etica. Questo significa che il valore dell’essere umano non è dato da ciò che sa ma da ciò di cui sa. Siccome la teoretica è antinomica, il cui sapore è indefinito, solo giungendo al sapore dell’etica puoi dare a te stesso e agli altri un sapore unitario. Ed essere una persona affidabile”.
E qui Mancuso si ferma per togliersi la giacca, si sta accalorando. E inizia a citare, ma ci si potrebbero passare ore e giorni interi, le differenti antropologie di filosofi e teologi. A Leonardo che diceva che l’essere umano è microcosmo potremmo accostare il biologo Dawkins che dice invece che è gene egoista o lo zoologo Desmond Morris che lo definisce una semplice scimmia nuda. Oppure il filosofo Sartre che ne parla come di una passione inutile mentre al contrario un altro filosofo suo contemporaneo, Heidegger, come del pastore dell’essere. E così via. Ma c’è una polemica sorta nel III sec. a. C. che più di tutto il resto è esemplare.
“Il grande commediografo romano Plauto fa dire, nell’Asinaria, a un mercante la frase: ‘Homo homini lupus’, ovvero che l’uomo è per l’altro uomo qualcosa di feroce, bestiale, da cui si deve proteggere. Venti o trent’anni dopo Cecilio Stazio, altro commediografo di cui però non ci sono rimasti che frammenti dice: ‘Homo homini deus’. Chi di noi può dire, nella sua breve o lunga esperienza di vita, di non aver visto entrambe le cose? La violenza, la brutalità fisica o psicologica che si scarica sull’altro. Al contempo la beatitudine dell’abbraccio, la tenerezza dello sguardo, l’amare e il sentirsi amati da parte della persona che ci sta a fianco che ci fa sentire un’energia bellissima, pulitissima, luminosissima.
Un credente potrebbe dire che si trattava di pensatori pagani, ma uno apre la Bibbia e non succede proprio niente di diverso. E infatti il cardinal Martini una volta mi disse che bisognerebbe ricostruire la dottrina cristiana a partire dalla Bibbia e allora sarebbe, ben più che una serie di risposte precise, una serie di domande, che magari ti scavano dentro e diventano sorgente di veridicità. Nella Bibbia, nella teologia e a volte nello stesso autore potete trovare la medesima contraddizione, credetemi sulla parola”.
Prendiamo l’esempio di Agostino. Scrive: ‘Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas’, cioè ‘Non uscire da te stesso, rientra in te: nell’intimo dell’uomo risiede la verità’. Se quindi la cosa più preziosa è l’interiorità, siamo di fronte a un umanista? Agostino è lo stesso che parla degli esseri umani come di una massa di dannati a causa del peccato originale, che condanna la concupiscenza, che mette all’inferno tutti i non battezzati dall’inizio fino alla sua epoca, fossero anche bambini innocenti morti prima della cerimonia del battesimo. La contraddizione è ben presente in lui, perché la nostra natura è tale. E siamo gli unici nel mondo naturale ad essere tali dato che, per il resto, la malvagità è del tutto assente”.
“Ci sono momenti bestiali e divini anche nella stessa persona, anche nella stessa giornata. Io parlo di libertà come di uno spazio di indeterminatezza, di potenzialità, d’assenza di costrizione”.
“Sono certo che qualcuno potrebbe rispondermi che essere umani vuol dire primariamente far uso dell’intelligenza, di quella analitica che scompone e di quella sintetica che intuisce collegando. Oppure l’aspetto caratterizzante potrebbe essere visto nei sentimenti, nelle emozioni o ancora nella stazione eretta, nel pollice opponibile, nella neocorteccia. Eppure, la vera capacità umana consiste nell’usare tutte queste cose distanziandoci, anche dai risultati dell’intelligenza, anche dalle nostre emozioni… cambiandole, cambiandoci. Ecco la libertà, che probabilmente negli altri viventi non c’è o comunque non in questa estensione: per questo siamo i più creativi”.
“Avete mai visto una specie vivente che costruisce un teatro? O un campo di concentramento? Due cose, una meravigliosa e l’altra terribile, che però in nessuno dei due casi hanno a che fare con una necessità di tipo biologico. Noi siamo antinomia”.
“A questo punto la domanda diventa: che cosa significa essere liberi? La risposta è che si tratta di una processualità, di uno stato a cui a volte possiamo pervenire compiendo così la nostra umanità.
- Il primo livello è la libertà da. Da cosa? Dal corpo, dall’età, dalle passioni, dai sentimenti, dall’epoca in cui si vive, dal nostro carattere. Insomma, dalla nostra prevedibilità, dalle nostre catene.
- Il secondo livello è il libero arbitrio, ovvero quel bivio fra la via larga e la via stretta, che puoi vedere solo se ti sei liberato. A quel punto, puoi compiere una scelta consapevole e responsabile. Tutto quello che facciamo non è sempre così, anzi. Quando insegnavo al San Raffaele un collega neuroscienziato mi disse che in realtà tutto è istinto, perché la parte del cervello che entra in funzione è sempre prima quella dell’azione e poi della riflessione. Eppure, è dimostrato che gli esseri umani cambiano, che fra quella reazione di un tempo e quella che daremmo oggi possiamo avere una differenza data dalla nostra capacità di trasformazione e ripensamento.
- Il terzo livello è la libertà per. Quando non siamo più per noi stessi ma ci dedichiamo a qualcosa che è più grande di noi: l’amore, il bene, la comunità, la bellezza, la giustizia.
- Il quarto e ultimo livello è la libertà con. La cooperazione che sorge attorno a esseri umani liberi e dediti a qualcosa di grande: la squadra nasce sempre. Si coopera tutti insieme per un ideale più grande”.
“E per quanto attiene rispetto al significato complessivo della vita? Essere umani vuol dire essere come questi bellissimi fiori sul palco che presto serviranno a generare altra vita dopo essersi decomposti? Oppure esiste la possibilità di poter unire una parte di noi all’eterno? Questo è il più grande mistero”.
Per questo concludo con due brani, il primo di uno dei più grandi intellettuali che abbiamo avuto come Norberto Bobbio, che per tutta la vita si dichiarò non credente. Nella lettera che fece pubblicate post mortem scrisse:
“’Vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all’ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi.”
“Un mistero a cui noi possiamo dire sì, no, non so”.
E poi Seneca nell’Epistola 41 a Lucilio:
“Non bisogna alzare le mani al cielo, né pregare il guardiano del tempio, perché ci faccia accostare all’orecchio della statua, come se così potessimo essere meglio ascoltati: dio è presso di te, è con te, è dentro di te. […] In ciascun uomo buono «quale dio è incerto, ma abita un dio»”.