Social network, perché non servirsi di professionisti?

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Molti, moltissimi esperti di social media hanno lasciato le loro posizioni in agenzie e aziende per passare ad altri ruoli lavorativi, o, a limite, iniziare un progetto in proprio. Questo è successo un po’ ovunque negli ultimi anni. Perché? Nonostante quello che molti pensano, si tratta di un lavoro che esaurisce. Si lavora perlopiù facendo extra (non pagati) che vanno oltre gli orari d’ufficio, gli stipendi sono bassi e molto spesso senza veri e propri backup team, ovvero figure in grado di sostituirti. Il tutto mentre la richiesta di lavoro creativo non fa che aumentare (se ne è parlato molto pochi mesi fa a seguito di quest’articolo e di quest’altro).

Insomma, un lavoro complicato e frenetico: tra tutte le posizioni nel digitale, è il più esposto al rischio di burnout. Un social media manager, infatti, si ritrova a essere al tempo stesso designer, visual editor, strategist, community manager e data analyst. Eppure è da solo, è giovane, non ha una prospettiva di quello che potrebbero diventare in azienda. Un progetto a cui molti guardano è quello di una legge che regoli finalmente questa figura. La propone PA Social, l’associazione nazionale dedicata all’informazione digitale, che tra i suoi obiettivi ha quello di riconoscere e valorizzare la figura del social media manager e degli specialisti della comunicazione sul digitale. L’obiettivo è garantire “un vero riconoscimento economico e delle responsabilità di questi professionisti”.

Lavorare sui social è così poco considerato come mestiere, che tra il serio e il faceto, si moltiplicano gli appelli non semplicemente a valorizzare i professionisti ma proprio di lasciar loro spazio. Insomma basta col cugino social media manager: “Perché ce l’abbiamo tanto con loro? Diciamo cugino per indicare il fratello nerd, lo zio  smanettone, l’amico che ha un negozio di elettronica (?!), il conoscente che si è iscritto a Facebook nel 2008 e quindi deve saperne per forza qualcosa in più, l’amica che pubblica 10 foto al giorno su Instagram e che sicuramente sa utilizzare gli hashtag nel modo corretto” viene spiegato qui, in un simpatico pezzo che affronta la questione.

“Ecco i 5 motivi per non scegliere il cugino social media manager

  1. Non è in grado di elaborare una strategia social adatta alle tue esigenze
  2. Non spendi soldi (o ne spendi pochi), ma non ottieni risultati
  3. È un investimento di tempo inutile
  4. Essere presenti sui social non basta
  5. Alimenti un “sistema corrotto”: non è vero che tutti sanno fare tutto e manchi di rispetto ai professionisti”.

Perché questa lunga introduzione? Guardando le mosse social del Comune di Ascoli Piceno, queste sono le prime cose che ci sono venute alla mente. Qualche settimana fa avevamo seguito (vi rinviamo all’articolo qui) il gustoso avvitamento della giunta comunale sulla questione della scelta, della durata del contratto e del compenso di una giovane tiktoker ascolana presa per sponsorizzare il turismo in città. Più di recente ad attirare la nostra attenzione è stato lo sbarco direttamente su TikTok del Comune.

Vedendone il saggio che vi proponiamo, si capisce bene che, come al solito, si affida tutto al primo che passa (in questo caso chi si trova in Servizio civile). Certo a difettare non è la buona volontà o la simpatia, però mancano visione, strategia, esperienze. Non è un caso che l’Italia sia ancora molto indietro, per molti aspetti, nel digitale. E c’è voluta la pandemia per farle fare dei passi da gigante nel settore.

Che lo usiate o meno, ormai è impossibile non essersi imbattuti in qualche contenuto prodotto su TikTok. L’app ha pochissimi anni di vita ma è già esplosa a livello numerico, economico e sociale: il social network dell’azienda cinese ByteDance è stato scaricato 1.5 miliardi di volte, è valutato 75 miliardi di dollari, e ha più di 800 milioni di utenti—in larghissima parte giovani e giovanissimi. Funziona, innanzitutto, perché è estremamente coinvolgente: un video (che dura tra i 15 secondi e i 5 minuti) tira l’altro, e moltissime volte finisci a guardare roba che nemmeno ti piace.

Il profilo si presenta come un piccolo spettacolo di gusto tra l’insipido e il dubbio. Non basta fare qualcosa purchessia per esistere, occorre anche saper usare gli strumenti che scegli di utilizzare, in modo dignitoso. C’è sicuramente il tentativo di aderire al linguaggio specifico del social in questione, con risultati che risultano però un po’ alienanti. Buono il tentativo di intercettare le fasce giovanili della popolazione, però forse ci vogliono impegno, professionisti e soldi per non renderlo un azzardo controproducente.

A conferma che non si tratta di un caso isolato: a partire da dicembre entreranno in Comune quattro volontari del programma “Garanzia Giovani” (dedicato a giovani Neet, chi non studia né lavora) per “sviluppare le potenzialità degli strumenti a disposizione dell’ente” e “formare giovani collaboratori nell’utilizzo dei social per raccontare la città e promuoverla come meta futura”. Le domande, presentate fino allo scorso 18 ottobre, prevedevano il requisito aggiuntivo del “diploma di istruzione secondaria di secondo grado che permetta l’accesso al percorso universitario”.

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