Giuseppe Lenoci, il rapporto scuola-lavoro alla luce della morte del 16enne

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Ma che ci faceva mio nipote a 70 chilometri da casa?“. Questo si chiede in queste ore Angela, la zia del 16enne di Monte Urano Giuseppe Lenoci, morto in un incidente stradale mentre era impegnato in uno stage parte del suo percorso scolastico (ne abbiamo parlato QUI). Alla guida del furgone che si è schiantato contro un albero, c’era un operaio della ditta: è indagato per omicidio stradale e verrà interrogato a breve, mentre oggi si terrà il funerale in una giornata di lutto cittadino per la piccola realtà del fermano.

Non era prevista in maniera assoluta l’uscita dall’azienda, gli avvocati ci stanno aggiornando man mano, ma il ragazzo doveva restare in ditta. Non so dire se quel giorno la scuola avesse firmato un permesso, ma non era previsto dai protocolli” afferma sempre la zia Angela. I protocolli erano stato sottoscritti, come sempre prima degli stage, fra l’istituto di formazione – in questo caso Centro di formazione professionale Artigianelli – fondato don Ernesto Ricci sacerdote della Diocesi di Fermo e oggi gestito dalla famiglia religiosa dell’Amore misericordioso e riconosciuto dal ministero del Lavoro – e l’azienda tirocinante – in questo caso la Termoservicegas di Molini di Tenna, che installa caldaia dal 1985.

L’ipotesi che circola è che sarebbe stato il navigatore del furgone a portare i due su una strada sì più breve per Serra de’ Conti (Ancona), ma stretta e mal asfaltata: nonostante l’asfalto bagnato, il guidatore non avrebbe (parebbe) fatto scendere la velocità e sarebbe uscito fuoristrada in curva. La politica, intanto, dopo aver a lungo eluso il problema annuncia di voler riprendere in mano la questione, come richiesto anche dai parenti di Giuseppe: “La tragica morte di Lorenzo Parelli e di Giuseppe Lenoci, i due studenti morti a un mese di distanza l’uno dall’altro mentre stavano svolgendo un periodo di formazione in azienda, impone una attenta e profonda riflessione” hanno dichiarato i senatori del Movimento Cinque Stelle nella commissione d’inchiesta sulle condizioni del lavoro in Italia. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha detto: “Sia l’alternanza scuola-lavoro che la formazione professionale sono importanti” ma “con le Regioni bisogna rivederli per mettere al centro il progetto educativo, non può essere un surrogato del lavoro“. Attivare con “urgenza” il tavolo di cui avevano parlato lo stesso Bianchi insieme al ministro del Lavoro Andrea Orlando per “rivedere complessivamente tutte le fasi in cui” studenti e studentesse“ vanno sui luoghi di lavoro”, chiedono invece Manuela Ghizzoni, responsabile Istruzione del Pd, e Chiara Gribaudo, vice capogruppo alla Camera e responsabile Missione Giovani nella segreteria dem.

Si muove anche la politica locale, con la consigliera regionale del Pd Anna Casini: “Hanno ragione i giovani che protestano e che vogliono andare a scuola e in una scuola più adeguata, una scuola che formi ragazzi che POI andranno a lavorare e che non sia una scorciatoia per creare posti di lavoro a basso costo. Lo studio deve essere un’opportunità, non un lusso né una gara in un mondo che alimenta la competitività dei singoli mediante un sistema relazionale e informativo malato e invasivo“.

Il Fronte della Gioventù comunista protesterà anche in piazza a Fermo: “Il 18 febbraio ci saranno manifestazioni studentesche in tutta Italia. Anche nelle Marche scendiamo in piazza insieme ad altri collettivi e studenti per dire no alla scuola dei padroni, che ci vorrebbe schiavi senza diritti. Bocciamo il Governo, contro la nuova maturità. Hanno le mani sporche di sangue per la morte di Lorenzo e Giuseppe. Fermiamo i piani della Confindustria, che attraverso il PNRR rafforza il sistema della scuola-azienda. Meritiamo un futuro diverso da precarietà e sfruttamento. Tutti in piazza!“.

Lavoratore, Industria, Industriale, Fabbrica

Per inquadrare meglio la questione, è forse necessario fare un passo indietro. In Italia, quando si parla di istruzione professionale si intendono due cose distinte: da una parte lo Stato centrale con gli Istituti Professionali (IP), che rilasciano diplomi quinquennali validi su tutto il territorio nazionale, e dall’altra le Regioni che finanziano diversi enti di formazione professionale (FP) privati, spesso di natura religiosa, sindacale o creati da associazioni di categoria. Questi enti organizzano corsi per adulti che devono riqualificarsi o hanno perso il lavoro, giovani diplomati che vogliono approfondire la propria formazione e giovani che devono assolvere l’obbligo scolastico: questi acquisiscono una qualifica di formazione professionale triennale riconosciuta a livello europeo. Nella realtà, però, si tratta perlopiù di una qualifica priva di qualunque riconoscimento sul mercato del lavoro. Questi enti privati dipendono dalle politiche delle singole Regioni, dal tipo e dall’entità dei finanziamenti, dalla cultura organizzativa dell’ente stesso e dal rapporto col tessuto produttivo (oltre che dal tipo di tessuto produttivo stesso): una realtà estremamente disomogenea a livello nazionale.

Quali giovani in obbligo scolastico li frequentano? Oltre la metà sono ragazzi che hanno abbandonato i percorsi d’istruzione tradizionale a causa di bocciature o insuccessi scolastici; più del 50% sono maschi, mentre le ragazze sono concentrate perlopiù in percorsi legati a professioni tradizionalmente femminili come l’estetista; al nord molti sono di origine straniera. Si tratta di giovani che non frequenteranno l’università, una minoranza potrebbe in seguito tornare sui banchi di scuola dopo alcuni anni per prendere il diploma. In molti casi, si tratta di studenti reputati “difficili”: necessiterebbero di interventi educativi specifici, di essere motivati, di attenzioni individualizzate, di un orientamento, di ricostruire la fiducia in sé stessi. Non potranno prolungare la loro adolescenza nell’Università: diventeranno a 18 anni lavoratori, precari o disoccupati. “Rispetto al lavoro non hanno nessun idealismo, ad attirarli è soprattutto la possibilità di diventare adulti e conquistarsi una certa indipendenza dalle famiglie, di poter avere una casa, una famiglia propriaspiega Fulvia Antonelli.

Lavoro Minorile, Figli, Schiavitù, Dimostrazione

Nella scuola statale italiana, in generale, il rapporto fra scuola e lavoro consiste sostanzialmente nei PCTO – Percorsi per le competenze trasversali e l’Orientamento, che hanno una durata minima di 90 ore da svolgersi nel triennio nei licei mentre negli istituti tecnici il monte ore è di 150 e nei professionali di 210 ore. In alcuni Paesi, come la Germania, l’inserimento di momenti di lavoro all’interno del percorso formativo fa parte di una tradizione di lunga data ma l’organizzazione è molto diversa e allo studente spetta una remunerazione (altrimenti non è lavoro, è sfruttamento per parafrasare il celebre libro di Marta Fana). In Italia esistono pochi, limitati, casi di successo ma si tratta di esperienze fortuite, legate a contesti specifici. Le scuole sono completamente lasciate a loro stesse: non ci sono né fondi né personale dedicato, appositamente formato e remunerato. Il tutto risolve in fastidiose (e noiose) perdite di tempo, per tutti: sicuramente per studenti e studentesse, ma anche per i docenti che, oltre a sottrarre tempo prezioso all’insegnamento in classe, si trovano a dover organizzare obbligatoriamente queste “esperienze”.

Gli studenti, anche quando non si dimostrano contrari, mettono alcuni paletti (di assoluto buon senso): il primo elemento è l’attinenza della destinazione con il percorso formativo e le inclinazioni del singolo studente, la presenza di una remunerazione, l’assoluta sicurezza. In quest’ultimo caso, manca nelle scuole una cultura della sicurezza sul lavoro e in generale sui diritti del cittadino-lavoratore: proprio una repubblica che si vuole “fondata sul lavoro” si limita burocraticamente a impartire qualche stanca e inutile ora, con presunti esperti esterni. Occorrerebbe allora forse ripartire dal ruolo e dalla dignità del lavoro, coinvolgere i sindacati, diffondere consapevolezza: i diritti non sono privilegi e per lavorare non si può pagare e rischiare, magari, la vita.

Come scrive oggi Silvia Truzzi sul Fatto quotidiano, citando Claudio Magris: “Una volta a uno studente che mi spiegava che non veniva a un seminario, che pure gli interessava, perché non dava crediti, ho chiesto: ‘Hai mai baciato gratis una ragazza?’. Investire non vuol dire guadagnare ma spendere. L’idea che ogni cosa che uno fa deve essere tradotta in un vantaggio distrugge la libertà e la creatività”. La giornalista prosegue lapidariamente: “Il ministro Berlinguer diceva che gli studenti sono ‘clienti’, ora sono diventati manodopera gratuita per le aziende. La scuola forma cittadini, non lavoratori: c’è tutto il tempo, dopo, di imparare a lavorare. Prima bisogna imparare a pensare, anche per non farsi sfruttare“.

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