Storie, ricordi e memorie di “Shanghai” ad Ascoli Piceno

3 minuti di lettura

Senza memoria una persona non si riconosce più e si disperde, cessando di esistere. Analogo discorso vale per una comunità: senza memoria storica una comunità perde la sua identità. La trasmissione della memoria è dunque per le società umane qualcosa di essenziale e necessario. La memoria è, poi, la materia prima (anche se da trattare in modo particolarmente accurato) della storiografia, della scrittura complessiva della storia.

L’operazione di Erminia Tosti Luna (docente, giornalista, scrittrice) e Elena Fiocchi (docente) si rivolge “ai nostri figli e nipoti” e “a tutti coloro che, con un po’ di nostalgia, hanno ancora il nostro quartiere nel cuore“. Non siamo più a Tofare, di cui abbiamo parlato poco tempo fa QUI grazie a una canzone (anche se non mancano punti di contatto) ma, stavolta, pur rimanendo ad Ascoli Piceno ci spostiamo a “Shanghai”, nel quartiere di Borgo Solestà.

L’occasione è il loro bel libro, da poco pubblicato, intitolato “C’era una volta Shanghai a Borgo Solestà“. Grande formato, ricco di inedite fotografie d’epoca, ciò che incuriosisce subito è il nome: “Shanghai”. In varie località italiane, nella prima metà del Novecento, vennero denominati così quei quartieri caratterizzati da basso livello edilizio, con case popolari talvolta sottodimensionate rispetto al numero delle famiglie assegnatarie, considerati – a torto – covi di degrado sociale ed emarginazione. A questo era legato un ulteriore pregiudizio, che vedeva la Cina di quegli anni costellata di città sovraffollate, con quartieri abitati da categorie di esclusi ed emarginati.

Protagonista del libro è un gruppo di case progettato nel 1937 per la realizzazione di un Villaggio fascista di case popolarissime in una zona collinare, salubre e ben esposta al sole, dov’erano solo campi e pochi edifici rurali sparsi. Tutti appartamenti che sarebbero divenuti di proprietà degli affittuari dopo un certo numero di anni. Case dignitose per l’epoca, anche se ovviamente molto diverse da quelle odierne: le autrici ci aiutano a scoprirle in ogni dettaglio, aiutate anche dalle immagini. Ma quello che ancora di più interessa loro ricostruire non sono i luoghi quanto il pullulare di vita a cui facevano da sfondo, le abitudini, le tradizioni, i personaggi. Dai venditori ambulanti di ghiaccio alle lavoratrici dello stabilimento bacologico, dai mezzi per ovviare alla mancanza di acqua corrente allo scambio di fotoromanzi, fino alla visione comunitaria della televisione. Quello che emerge dal libro è la nostalgia per una dimensione di condivisione, certo in un contesto di povertà più estesa di quella odierna, ma che si è quasi totalmente persa.

La vita quotidiana emerge anche dai piatti che si cucinavano, dal ritmo delle stagioni punteggiato dalle festività, che comprendevano veri momenti di comunità. L’autunno con la festa di San Serafino da Montegranaro che, per esempio, oltre alla visita alla chiesa e al convento in cui aveva vissuto il santo, vedeva la pesca, la musica, il pesce fritto, le prime caldarroste. E poi la raccolta de “li spì” per “lu faore” in onore della Madonna di Loreto e così via. Sempre interessanti gli inserti dialettali, per una mimesi totale con l’epoca dei fatti. Il tutto, peraltro, è arricchito anche dalle poesie in dialetto dello storico console di Porta Solestà, Emilio Nardinocchi.

Non tutto resta immobile, anzi, e così il libro segue l’espansione del rione: il Piano Ina Casa – Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori; il fabbricato riservato ai profughi giuliano-dalmati, istriani e fiumani che giunsero numerosi in città; l’imponente ponte sul Tronto e via via tutte le altre costruzioni pubbliche e private, civili e religiose. Le ultime due sezioni sono dedicate: la prima, a una storia di Borgo Solestà attraverso i suoi monumenti (dal toponimo stesso al ponte augusteo, dalle chiese alle fontane, fino al convento cappuccino); l’ultima sezione è, invece, un’interessante raccolta di testimonianze di uomini e donne che hanno vissuto il quartiere in quegli anni e lo ricordano dal loro punto di vista, con i loro aneddoti.

Cosa resta oggi? Le case di cui abbiamo parlato all’inizio sono state demolite, sostituite da anonimi palazzi senza alcuno spazio verde. A livello più profondo, però, è quella umanità rievocata dal libro che non c’è più. Manca la comunità, anche in città piccole come Ascoli. Qualche anno fa, andava di moda parlare di “social street”, a partire dalla prima esperienza di via Fondazza a Bologna: “Ero stanco di non conoscere i miei vicini, di uscire di casa e non salutare nessuno. A causa del lavoro non avevo tempo di stringere amicizie. Mio figlio non aveva nessuno con cui giocare. Allora ho creato un gruppo Facebook per unire i residenti della strada in cui abito, stampato qualche volantino e promosso questa mia offerta di socialità” dichiarava all’epoca uno dei fondatori.

Scambiare conoscenze, professionalità, portare avanti progetti comuni, far nascere anche legami sentimentali: tutto per il bene di tutti. Ed è forse questo ciò che libri come questo vogliono dirci: a partire dal nostro passato capire quanto abbiamo ottenuto in più, oggi, e quanto invece abbiamo perso lungo la strada e, magari, provare a recuperarlo in modi sempre nuovi e originali.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Previous Story

Anastasia Fioravanti, vivere di musica si può

Next Story

Cemento, cemento, cemento… ma quanto suolo stiamo consumando?

Ultime da