“Lezioni di meraviglia” con Maura Gancitano e Andrea Colamedici al Teatro dei Filarmonici di Ascoli Piceno. I due scrittori e filosofi sono Tlon, un progetto di divulgazione culturale che si presenta come una delle realtà più interessanti, feconde e versatili degli ultimi anni. Tlon è una casa editrice, una libreria teatro, numerosi corsi, podcast, festival, conferenze e pubblicazioni. Un’attività intensa e dai ritmi serrati, che è valsa loro non solo la scalata delle classifiche di vendite o ascolti, ma la stima di filosofi dal prestigio internazionale e il fedele seguito di centinaia di migliaia di fruitori dei loro contenuti. Il loro segreto è la mescolanza di alto e basso, radicata nell’analisi di bisogni e significati del nostro tempo e nella comunicazione dell’ambiente accademico con il mondo pop.
Il nome Tlon viene dal racconto di Jorge Luis Borges Tlön, Uqbar, Orbis Tertius in cui si narra di un mondo generato dal desiderio congiunto di intellettuali, artisti, visionari. Ma è anche la storia di un mondo falso che viene creduto vero, che è poi il mondo delle fake news in cui è difficile trovare delle certezze. È un monito a desiderare insieme, ma anche a tutelare, la meraviglia del reale. La filosofia nasce aristotelicamente proprio dal θάυμα (thauma), cioè dal terrore, dallo scoramento, dall’apertura meravigliata nei confronti dell’ignoto. È questa meraviglia estrema il punto di partenza, il cominciamento del filosofare.
Affrontare il dolore è il primo passo verso la meraviglia. Davanti a quel dolore molti preferiscono restare nel guscio d’uovo che s’illudono possa proteggerli dall’urto del mondo. Accorgersi di essere gettati nel mondo è un grande atto di coraggio, perché significa ammettere di essere sperduti; e per perdersi davvero bisogna sapere di essersi persi. Per sapere di essersi persi bisogna avere la sensazione che da qualche parte ci sia un luogo da raggiungere, e non avere idea di come arrivarci. A partire dallo smarrimento l’essere umano può finalmente orientarsi: può, cioè, riconoscere la propria posizione e darsi un orientamento, prendendo una direzione nel mondo. Perché questo accada è necessario agire oltre la paura e cominciare a toccare il mondo. Attraverso il tocco qualcosa inizia ad accadere. Il mondo non è più soltanto ciò che viene incontro con violenza, da cui proteggersi e schermarsi. Non è più solo un pericolo ma anche una meta.
Oggi viviamo nella società della performance, in cui ogni cosa può meritare di essere usata per accrescere la propria reputazione e la propria visibilità. Il sociologo Vanni Codeluppi ha parlato di ‘vetrinizzazione’. È iniziata nel Settecento, con la comparsa della vetrina che, per la prima volta, metteva in scena e valorizzava oggetti in precedenza inerti e passivi. L’individuo si è trovato così da solo di fronte alle merci e ha dovuto imparare a interpretare il loro linguaggio senza l’aiuto del venditore, abituandosi a leggere la comunicazione visiva, ma anche ad affrontare la vita in solitudine, nella nuova condizione sociale imposta dall’urbanizzazione e dalla modernità. In seguito, spettacolarizzazione e valorizzazione hanno investito i principali ambiti delle società occidentali: gli affetti, la sessualità, il corpo, l’attività sportiva, i media, il tempo libero, i luoghi del consumo, gli spazi urbani e persino le pratiche relative alla morte; fino ad approdare, nel corso del Novecento, da un modello di fruizione collettiva (manifesti, cinema, televisione) a uno fondato sul consumo sempre più solitario (pay tv, streaming, internet). La maggior pervasività dell’uso dei social media ha portato ancor di più l’individuo a ‘esporsi’ online e a condividere ogni ambito della sua vita, da quello pubblico al più privato, nello spettacolo della Rete. Con il risultato che tutto oggi viene trasformato in fenomeno da ‘esporre in vetrina’.
Per questo non ci si sente mai abbastanza e così si finisce col correre tutti come pazzi verso il nulla per paura di essere dimenticati, esclusi, messi da parte. Si finisce col sentirsi non più persone ma prodotti da pubblicizzare, perché tutto appare come commercializzabile. Si devono espungere le paure, i tentennamenti, il negativo per mostrare una propria autonarrazione assolutamente positiva, fatta di esperienze sempre incredibili e scevra di difetti. La società della performance fa sentire costantemente un senso di competitività verso chiunque, e costringe a sentirsi in colpa quando ci si vuole o ci si deve fermare.
“Se non ti fai nove ore di treno al giorno per andare a lavorare, se non discuti la tesi mentre stai partorendo… chi si ricorderà di te?”
Nel Panopticon, Jeremy Bentham propone un nuovo modello di prigione a pianta circolare e con la torre del sorvegliante: il recluso è soggetto ad una perenne vigilanza senza sapere se, in effetti, in quel momento è osservato. Noi oggi, di fatto, viviamo così. Siamo diventati noi i (peggiori) giudici di noi stessi. Ci precludiamo la fondamentale esperienza del vuoto, perché il peggiore giudizio morale odierno è quello di fannullone.
Quando chiesero a Pier Paolo Pasolini se ci fosse un’espressione del dialetto romanesco che lo colpiva più delle altre, rispose: “Ce n’è una che amo particolarmente. È anvedi. Perché è l’unico caso, l’unico momento in cui il romano si scopre. Cioè rivela di possedere la capacità di stupirsi e di non essere sempre apparentemente cinico o distaccato. Perciò anvedi mi piace molto”. Nel romanesco l’anvedi ha un temibilissimo avversario: il ma che te frega, che il mondo sussurra all’orecchio del filosofo. “Cosa t’importa? Perché ci pensi, perché ti ossessioni, perché te la prendi?”, gongola il mondo. “Perché è un dono che mi viene offerto”, risponde il filosofo. “Cos’è questo dono?”, insiste il mondo. È la “straziante meravigliosa bellezza del creato”, afferma sospirando Totò nei panni di Iago. È l’ultima battuta di Che cosa sono le nuvole?, l’episodio di Capriccio all’italiana girato da Pasolini. La vita ci pone costantemente di fronte a opportunità di anvedi da cui ci smarchiamo con paura e cinismo, e preferiamo rifugiarci nel già noto, nel già vissuto e quindi nel già morto.
“Bisogna reimparare a dire anvedi, anzi come lo direste voi in ascolano?” e il teatro in coro: “Ah…uà”. Ecco, così, “diciamolo tutti insieme!”. Bisogna rallentare, re-imparare a indugiare. Occorre stupirsi nel senso del latino stupeo: diventare un po’ stupidi, perché solo così si può accogliere il mondo. Ci vuole tempo per mettersi in ascolto. “Il popolo piceno è legato al picchio. Ogni specie di picchio produce suoni molto diversi. Impercettibili ma perfettamente riconoscibili dagli altri”. Se la società odierna ci spinge a pensare che siamo soli noi dobbiamo, invece, imparare a riconoscerci parte di una comunità. Per fiorire, le persone hanno bisogno della relazione con gli altri fiori, di vedere la fioritura altrui e del fatto che gli altri possano vedere la loro. Si cresce solo se pensati e ciò non significa semplicemente essere pensati a distanza, il pensiero si manifesta soprattutto nella relazione, nel sentire l’Altro vicino. L’originalità non è essere speciali, ma riconoscere la specialità dell’altro.
Per imparare a scrivere, il giovane Maupassant fu invitato dal suo maestro, Flaubert, a osservare per ore un oggetto. Niente di straordinario: basta anche solamente una foglia, un albero o una tazza. Qualsiasi oggetto. Che parole usiamo di solito per descriverlo? Quali, invece, potremmo trovare per la prima volta? A Flaubert l’esercizio piacque, tanto che scrisse: “La cosa più insignificante contiene un po’ d’ignoto. Troviamolo. Per descrivere un fuoco che divampa e un albero in una pianura, restiamo di fronte a quel fuoco e a quell’albero finché non assomiglino più, per noi, a nessun altro albero e a nessun altro fuoco. È così che si diventa originali”. Ecco, “il talento non è nient’altro che lunga pazienza”.
Fare caso è proprio uno degli aspetti della fioritura: niente e nessuno è normale visto da vicino. Noi invece ci aspettiamo sempre di trovare la meraviglia solo se sopra c’è un’etichetta con scritto “meraviglia”. E corriamo, corriamo con foga alla sua (inutile) ricerca in un continuo altrove. Allora “visto che ci si aspetta un po’ troppo, anche metaforicamente, che le cose accadano soltanto sul palco… adesso proviamo a guardare finalmente l’altro che ci sta accanto in silenzio assoluto, senza ridere: vi lasciamo un paio di minuti”.
Ci vuole metis, un termine greco che indica l’intelligenza vivace, pratica, capace di adattarsi alle circostanze. La capacità di accogliere l’esperienza della vita quando ti si presenta davanti. Pensiamo a come Dario Fo definiva l’improvvisazione: portarsi un bagaglio culturale vastissimo e poi riconoscere il kairos (momento opportuno) per tirarne fuori il pezzo giusto. Oggi ci manca la capacità di vivere poeticamente.
Scrisse Tiziano Terzani: “Mi sono spesso chiesto, strada facendo, da dove sarebbe arrivata la soluzione al problema che affrontiamo, quello dell’umanità che mi sembra stia annaspando nella sua ricerca di una soluzione a quello che non va. Una volta, attraversando in nave lo stretto di Malacca, in una di quelle belle serate in cui si stava sulla tolda della nave a guardare il tramonto, vidi all’orizzonte decine di splendide isolette e mi venne la divertente idea che la soluzione sarebbe arrivata da una congiura di poeti. Perché soltanto la poesia mi pareva potesse ridarci una spinta di speranza. Identificai un’isola lontanissima, insignificante, che non era segnata su nessuna carta, ma in cui immaginavo crescesse una generazione di giovani poeti che aspettavano il momento di prendere in mano le sorti del mondo. Avevo in qualche modo il sentimento che non c’era una soluzione nei partiti, nelle istituzioni, nelle chiese, dove tutti ripetono le stesse cose”.
In un mondo in cui tutto accelera e la vita si allunga, dovremmo recuperare la lezione di Seneca. La nostra vita non va allungata, va allargata. E, per farlo, è importante anche non prendersi troppo sul serio. “Ecco, ora al mio tre cantate tutti insieme l’inizio della vostra canzone preferita!”. Ci vogliono delle vere e proprie figuracce consapevoli.
C’è bisogno di spazio per autorealizzarci. In questa società che ci isola, che ci vuole sempre e ovunque performanti, che ci vuole ossessionati solo da noi stessi, sempre sopraffatti da un senso di colpa per non essere all’altezza… diamoci spazio. Proviamo a dire noi, invece di dire soltanto io. Nel dire che non possiamo stare insieme, che vogliamo decidere il nostro futuro da soli… ci scaviamo solo la fossa. Incontriamo l’altro e recuperiamo un ritmo che ci ricordi un approccio essenziale per la vita: la gratitudine. Come nella Parigi nei suoi anni d’oro, mettiamo da parte Google Maps e perdiamoci. “Flâner” è il termine che indica appunto il vagabondare, l’andare a zonzo. E guadiamoci intorno meravigliati.
E così la serata si è conclusa, dopo la lettura di “Bello mondo” di Mariangela Gualtieri, con un ultimo invito rivolto al pubblico: “Ma voi, invece, per cosa siete grati?”.
Gran finale fuoriprogramma con il vescovo di Ascoli, Giampiero Palmieri, che ha rievocato nello spazio dedicato alle domande dal pubblico – con un visibile apprezzamento dei due Tlon – una storia della Cabala ebraica in cui Dio, per creare il mondo, si sarebbe ritratto (“Tzimtzum”), lasciando così spazio all’Altro. Limitarsi per permettere all’altro di esistere, insieme a noi. E amarlo.