“Ma chi lo scriverà l’articolo?“. Mentre siamo in treno, mi rivolgo così a una mia studentessa. “La prossima volta potresti rallentare e non spiegare cinquanta slide alla velocità da rapper di Eminem: a me ora tocca studiarle“. Oggi lasciamo la provincia di Ascoli Piceno alla volta del capoluogo regionale, Ancona, per dirigerci a un simbolico sit-in di fronte all’Ufficio scolastico regionale. Nella duplice veste di conoscitore della materia scolastica e di giornalista militante, sono stato invitato a partecipare al ricordo di Giuseppe Lenoci, il sedicenne studente di Monte Urano (Fermo), impegnato in uno stage per l’alternanza scuola-lavoro e deceduto in un incidente stradale il 14 febbraio dello scorso anno a Serra de’ Conti (Ancona). Il ragazzo era a bordo di un furgone Ford Transit che si schiantò contro un albero: non ci fu scampo per lui.
A organizzare l’appuntamento la Rete degli Studenti Medi delle Marche, Robin Hood-Rete degli Studenti Medi Ascoli Piceno (li abbiamo intervistati QUI), Gulliver, UdU Ancona e Officina Universitaria. A dare sostegno anche la Cgil, in piazza con il segretario generale delle Marche Giuseppe Santarelli. “Non è scuola, non è lavoro” il titolo della manifestazione. Della questione dell’alternanza scuola-lavoro avevamo parlato diffusamente lo scorso anno QUI e… niente è cambiato nel frattempo. Non è cambiato il sistema del Pcto (la vecchia alternanza scuola-lavoro) e non è cambiato molto nell’indagine nata dalla morte del ragazzo. Recentemente è stato notificato l’avviso di chiusura indagini all’uomo di 38 anni guidava il mezzo: è accusato di omicidio stradale. Non ci sono state altre conseguenze.
“Uno studente morto sul lavoro prima ancora di diventare un lavoratore” l’ha definito la zia Angela Lenoci in un messaggio: era assente in quanto in serata, a Monte Urano, si sarebbero svolte una fiaccolata commemorativa e una messa alla presenza dell’arcivescovo di Fermo. “Mio nipote non è salito in macchina volontariamente. Qualcuno gli ha detto di salirci, di andare a fare quello che ancora oggi non sappiamo. Stiamo aspettando risposte dalla politica: una riforma dell’alternanza scuola-lavoro; un programma formativo, allineato con le finalità di orientamento e formazione; un albo per i tutor; il riconoscimento dello status dello studente, distinto dal lavoratore. Non mi fermo, perché mio nipote merita giustizia” ha concluso.
I manifestanti volevano ascolto: “Chiediamo ancora una volta al ministro Valditara di essere convocat3 al più presto: perché abbiamo un’idea chiara del rapporto tra scuola e lavoro che vogliamo. Occorre costruire percorsi che ci formino e insegnino a tutelarci, che non ci sfruttino, che non ci uccidano. Siamo per l’abolizione dell’attuale modello di PCTO, che non garantisce sicurezza e formazione a chi lo sperimenta durante il proprio percorso scolastico. Non possiamo pensare di riproporre anche all’interno delle nostre scuole le dinamiche disumane di un mondo del lavoro fatto di precarietà e sfruttamento”.
Questa la loro proposta: “Pensiamo ad un’alternanza riformata che ci aiuti veramente in futuro. Mandarci da un liceo a passare 90 ore seduti nell’angolo di un ufficio o, ancora peggio, lasciandoci in luoghi pericolosi senza nemmeno un’assicurazione perché stagisti, è incoerente e controproducente rispetto al reale scopo dei Pcto. Pretendiamo un percorso formativo che ci accompagni verso l’indipendenza. Nessuno ci insegna come trovare lavoro o come si pagano le tasse. Pretendiamo di arrivare pronti alla fine delle scuole secondarie. Pretendiamo che i Pcto avvengano presso centri di volontariato o scuole in modo da portare aiuto alla comunità invece di aiutare un privato che ne trarrebbe vantaggio economico“.
Siamo arrivati in autobus dalla stazione e ora corriamo verso la fermata per non perdere quello che ci riporterà lì. “Ma i vostri genitori lo sanno che siete qui?” fa una ragazza. “No”, “Io non ho detto nulla”, “Nemmeno io ai miei“. Ecco, quando si racconta una generazione di sdraiati. Che prendono i loro soldi e mettono 20 euro di trasporto pubblico per arrivare a far sentire la loro voce fisicamente, fuori dai social (ci ricordiamo il grido di Michele Santoro QUI). Che usano un intero pomeriggio per ricreare quella dimensione di impegno collettivo che da troppi decenni sembra perduta. Con le loro bandiere rosse, con le loro spillette con falce e martello sugli zaini strappati, che canticchiano Fischia il vento.