Riccardo Vesprini e l’importanza di chiamarsi “dress maker”

Nella seconda parte dell'articolo una mostra virtuale delle sue opere

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Cosa mai potrai trovarci d’interessante in un articolo su di me?”. Così esordisce Riccardo Vesprini, classe 2002, ex studente del liceo scientifico Temistocle Calzecchi Onesti di Fermo e originario di Monterubbiano (FM). “Forse ti interessano così tanto i giovani perché siamo ancora illusi da tutto”. Vero, mi piace la giovinezza come tempo del possibile. E, forse per questo, lavoro come docente. Tornando a lui, gli chiedo se posso definirlo artista, per presentarlo. “No, mi fa strano. Secondo me non ha senso dare questo tipo di etichetta. Rubo a John Galliano una citazione: lui non si sente né stilista né designer, ma dress maker. È un modo oggettivo per definirsi: noi facciamo delle cose”. Lo provoco allora chiedendogli cosa sia per lui l’arte. “Non voglio esprimermi, tutto potrebbe esserlo o non esserlo: non lo so neanch’io. Ti dirò di più, non è una domanda che mi pongo: non mi serve farmela per fare quello che faccio”.

E allora, cerchiamo di capire cosa fa a Roma. “Mah, sai che me lo chiedo pure io a volte? No, dai… diciamo che studio e disegno. Disegno e studio. Ancora e ancora. Sto frequentando l’Accademia Costume & Moda, anche se non era previsto così, all’inizio. Ero deciso per la Naba a Milano, ma con la borsa di studio era comunque troppo onerosa per me e così… mi sono messo a esplorare tutte le formazioni sulla moda in Italia e all’estero. Il Covid-19, per una serie di ragioni, mi ha impedito l’accesso alla Central Saint Martins di Londra. Ora sono comunque in una delle più prestigiose scuole del settore al mondo. Quando seppi di essere stato ammesso iniziai a piangere e corsi a dirlo ai miei. Però non era ancora finita, la retta è davvero troppo elevata e quindi tutto dipendeva dalle borse di studio che avrei potuto ottenere. Ho superato tutta una trafila di richieste, di test, di progetti da presentare. Quando a maggio del quinto anno di liceo mi arrivò la fatidica chiamata… mi chiusi in bagno per riprendermi, con i bidelli che bussavano per chiedere se andasse tutto bene”.

Un vero talento della moda, quello di Riccardo, che tutti avevamo notato ai tempi. “Eh, no. Non parlare di talento, che è una stronzata. Esiste, non esiste? Io credo che la differenza la faccia la disponibilità a osservare tutto ciò che ci circonda. Il talento è una cosa del romanticismo ottocentesco per giustificare la figura dell’artista dannato che va contro il tradizionalismo borghese ma che, in realtà, lo riperpetua perché mette nelle mani di poche persone la possibilità di fare arte. Invece l’arte è per tutti, l’innatismo è limitante: nemmeno ti dà la gratificazione per ciò che realizzi. Io non faccio perché so fare: dietro a una collezione di moda ci sono anni di studio, di notti al lavoro. Anche tu nei per i tuoi (splendidi, ndr) articoli: dire che saper scrivere sia qualcosa con cui nasci svaluta il tuo impegno. Se non avessi disegnato di continuo, tutti i giorni, negli anni del liceo, coi quaderni pieni, non avrei il tipo di mano, il tipo di visione, non avrei la percezione e, magari, nemmeno l’interesse che ho. Ci ho dedicato voglia, forza, ed energia”.

Ed ora questo sforzo non può che essere massimo. “Si lavora tanto, è dura. E in un modo diverso dalla scuola, qui si crea. Se qualcosa non va bene te lo dicono subito, in faccia. È un posto che ti insegna a lavorare, ed è molto severo. Però è davvero stimolante, cerca sempre di darti spunti nuovi, idee nuove. Io mi trovo benissimo con i colleghi (che sono amici, poi, persone che con cui condivido 50 ore di lezione a settimana e con cui si ride, si scherza). Tutte persone particolari, che ti danno sempre un’angolazione diversa da quella a cui pensavi e ti stimolano a crescere. E questo grazie all’estrema diversificazione dei modi di essere, di vivere”.

Certo, per noi ignoranti, è difficile capire cosa sia la moda. “Semplicemente è il modo in cui l’essere umano si interfaccia con l’esterno. C’è un libro che ho letto poco tempo fa, ‘Moda e politica’, in cui si spiega quanto questa sia intrinsecamente politica perché ha a che fare con la presentazione del corpo e con la modifica della percezione di esso. Il corpo è politico in quanto è il primo punto di incontro fra l’essere umano come mente e l’esterno, è la prima cosa che si percepisce di te ed è per questo che è importante. Per questo la moda non può che essere politica. La moda è il craft è l’arte fisica, non c’è un termine in italiano: si tratta di realizzare cose fisiche che si interfacciano con il corpo. T’avrei potuto anche rispondere in maniera paracula dicendo: ‘La moda è mettere i vestiti alle persone’. E dopo questa, ci starebbe bene il classico meme della Fanelli. Comunque, di trattati sulla moda ce ne sono tanti, ne ho ventimila ancora da leggere. Però ecco, questa è la mia risposta al momento. Alcuni anni fa ti avrei detto che è il modo con cui far evolvere il corpo. Mi piace molto quest’idea dell’evoluzione. Di come corpo e vestiario si modificano a vicenda”.

Parlando con Riccardo si sente tutta la passione che lo anima. “Non so dire quando sia nata. Ho sempre disegnato, non mi ricordo un vero momento d’inizio. Inizialmente pensavo di dedicarmi all’arte in un’accademia di Belle Arti. Però, accanto, c’era la moda. Nel 2011 era un anno dalla morte di Alexander McQueen e veniva inaugurata una grande retrospettiva a lui dedicata: Savage Beauty. Mio fratello mi fece vedere il video di presentazione e c’era qualcosa di talmente viscerale… C’era un livello di meraviglia, qualcosa che mi ha fatto dire: ‘Forse è questo quello che voglio fare’. Ero piccolo.. non sapevo fare riflessioni importanti sul significato del vestiario, ma qualcosa è scattato. Ora tra i centinaia di libri che ho e le visite… so tutto di McQueen: dalle corna applicata sulle spalle delle giacche ai vestiti dipinti con le macchine da tinteggio delle auto, ai corni di unicorno”.

Io sono un ex studente pentito di un liceo scientifico e speravo di trovare un alleato: chi meglio di un dress maker? E, invece, no… anche qui mi sbagliavo. “Rifarei la scelta. Per quanto riguarda la moda, guardavo video online, compravo libri, studiavo immagini… Nell’arte, invece, ho fatto gavetta fin da bambino da un lontano zio pittore, Giancarlo Amurri. Tornava d’estate al paese e io passavo le mattine a copiare i suoi dipinti: nature morte, vedute, paesaggi. Viveva a Milano e si era dato completamente all’arte soltanto a quarant’anni, quando si era diplomato a Brera col massimo e poi aveva iniziato a insegnare discipline pittoriche. E da lì mostre, riconoscimenti… Non è il tipo d’arte che mi preme fare ora, ma per me è stato tutto. Ricordo lo stare lì, con i suoi consigli, ciò che andava e ciò che non andava. Diceva sempre ‘l’ombra non è mai nera ma colorata’”.

Una curiosità che mi sorge sempre, da non artista, è quella relativa all’origine del processo creativo. “È molto diversificata. Lo vedo anche dai miei compagni, che magari fanno una cosa bellissima ma io non l’avrei mai fatta in quel modo. Ciò che faccio nasce sempre da una necessità: comunicativa, personale, di rielaborazione di qualcosa che ho in testa ma non riesco del tutto a concettualizzare. Poi tutto dipende dal format che si utilizza: non potrei fare ciò che ho fatto per una collezione di moda per un dipinto, un disegno, un’installazione. Nell’arte sono molto viscerale, quello che mi sento dipingo o disegno o scolpisco. È sempre una riflessione su quello che ho dentro in quel momento, è una sorta di psicanalisi. Utilizzo allora tecniche che mi permettono di essere immediato e incisivo. Dal pastello che non puoi più cancellare, altrimenti rimane il segno, a dei taglierini per graffiare la carta, all’olio che, pur se ti permette di rielaborarlo, non avrai mai lo stesso effetto delle prime 5/6 ore. Se ci penso troppo, l’idea si rovina e perde tutta la sua potenza. Nella moda, invece, c’è molta sistematicità: devi fare ricerca, devi trovare un modo per dire quello che vuoi dire. Il processo è molto più complesso: non è un 2D e, poi, hai a che fare con qualcosa che verrà utilizzato, hai a che fare con un corpo che l’indossa con tutte le problematiche che ne conseguono. Devi ragionare su tutto, dal tipo di materiale al taglio che usi, ai colori, a quello che vuoi metterci sopra, alla forma che gli dai. Io parto da un’idea che trovo così, guardandomi intorno. Da lì inizio a ricercare quelle possibili influenze, correnti, guide che conducano a realizzare la collezione finale. Dopo di che sviluppi, disegni, fai le prove (su supporti vari). Provi a manipolare i tessuti, vedi come cadono, vedi come va avanti l’ispirazione: anche quella cambia, per me è un processo molto additivo, è una ricerca fino alla fine”. 

La conclusione di questa chiacchierata non può che porsi come ponte verso il futuro. “In realtà io spero solo di non finirci sotto un ponte, anche se il sogno per il mio futuro è ovviamente quello di cambiare (un po’) la storia. Di avere un mio brand, o comunque un qualcosa che mi permetta di fare quello che voglio, di dire quello che voglio con la mia voce. Ed è il sogno un po’ di tutti nel mio campo, che la propria voce conti. Nell’immediato il mio sogno sarebbe Parigi con la Maison Martin Margiela. John Galliano è il direttore creativo: uno dei più grandi designer ancora in vita, di quelli che hanno cultura, che sanno come si fanno le cose, che sanno quello che c’è dietro, che amano il proprio lavoro. E questa Maison è uno dei punti di riferimento assoluti: una moda non solo come vestito. C’è espressione artistica, personale, idee forti che vanno a formare aspetti a cui nessuno aveva mai pensato e che cambiano il modo e/o che rispondono ai cambiamenti del mondo. Un team di camici bianchi che fanno assurde collezioni di moda sperimentale e artistica”.

Al mio augurargli un grosso in bocca al lupo per il futuro, il mio interlocutore butta lì che nel giornalismo di moda potrei ottenere importanti successi. Io confermo che mi piace lanciarmi in settori non miei “Magari diventerebbe un interessante sguardo diverso su un ambiente che non t’appartiene”. T’appartengo, rispondo io. E concludiamo con Riccardo che canta Ambra.

VI PROPONIAMO UNA NOSTRA MOSTRA VIRTUALE DI RICCARDO VESPRINI

“Vi propongo innanzitutto quello che mi piace chiamare ‘Ciclo familiare’. Per me è una riflessione sulla mia origine, sul mio contesto di provenienza, su come sono cresciuto. L’ho visto come un modo per affrontare i miei problemi con tutto questo. Ovviamente poi ognuno è libero di vederci qualsiasi cosa voglia. La cosa che a me premeva era cercare di capirmi in relazione alla mia famiglia, ai miei luoghi d’origine, anche negli aspetti culturali. Insomma, tutto quello che mi ha formato: sono dipinti di formazione”.

“I disegni sono una cosa che nasce dalla necessità di mettere su carta quello che sento. E lavorare su se stessi è difficile, ti mette in discussione, affrontare la propria autorappresentazione. In un articolo che lessi si diceva che, da quando la responsabilità dell’arte è spostata dall’esterno all’interno dell’artista che la compie, è iniziato il periodo problematico dell’arte. Non c’è più da fuori qualcosa che ti dice che cosa devi fare, ma sei tu che da dentro devi cercare di raschiare e tirare fuori ciò che vale. Per questo l’arte è autodistruttiva, perché sei sempre a contatto con te stesso anche nei momenti peggiori: è proprio lì che entri in contatto con l’insondabile. La ritrattistica mi piace moltissimo. Ho un archivio su Pinterest solo di ritratti di tutti le epoche. D’altronde ti danno ispirazione anche per la moda (in cui vesti, appunto, persone). Prima i miei che vi presento li vedevo come più concettualmente prorompenti, mentre ora forse ci ho fatto l’abitudine ed è brutta come cosa”.

“L’ultima collezione che ho realizzato mi ha segnato molto, mi ha fatto davvero crescere dal punto di vista concettuale, ideale. Mi ha spinto a rimettere in discussione molte cose, ad approfondire sempre di più le mie idee e la loro trasmissione. Sulla scia anche dei miei ultimi dipinti, si parla del passato e di come pesa sul presente e di come i vestiti alla fine diventano un modo per testimoniare questo continuo ritornare del passato. È un discorso sul cambiamento, su come gli eventi ci cambiano. È molto narrativa, mi piace quando una collezione racconta una storia. Un filo conduttore unico che dà forma a un concetto”.

Ci racconti una tua mostra passata?

“Nel 2019 ho autoprodotto un’esposizione di tutti i miei lavori fino a quel momento. Era abbastanza grande e la sede è stata la chiesa di un’ex convento. Un’architettura tardogotica con frammenti di pitture che accoglieva tutti gli strumenti di un falegname, di cui era stata a lungo la rimessa, c’era addirittura un clavicembalo, poi mucchi di biciclette senza ruote. Mio fratello si è occupato della curatela.
Per la moda è più complicato. Ho realizzato i costumi per un qualcosa che ancora non si può rivelare. Il problema della moda è che ti richiede tanto tempo. Non è un dipinto che puoi fare e rifare 10mila volte a casa tua, da solo. Devi provarlo, rivederlo, fare i cartamodelli, i modelli di prova, poi addosso, c’è da comprare il tessuto, c’è da rifinire. C’è da fare molta economia, insomma…. e io ho solo 9 euro sulla mia carta”.

Una vita da affrontare creativamente, quale migliore conclusione.

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