Carcere, il reportage di un’esperienza di volontariato

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Il primo risultato della nostra Ithaca Academy, di cui abbiamo parlato QUI. Un articolo sull’esperienza in carcere in presa diretta, che si inserisce all’interno di un filone di nostro interesse (QUI un articolo).

L’altra settimana ho cercato di impiccarmi”. Segue una piccola risata. Così sono stato accolto dal detenuto con il quale sono rimasto di più. Frequento ormai da un po’ una comunità religiosa con la quale ho deciso di intraprendere un piccolo percorso di volontariato nella Casa Circondariale di Ascoli Piceno, che conta 115 detenuti. La prima volta che sono entrato in quella struttura e che ho camminato dentro quei corridoi mi ha pervaso un senso di appartenenza, quasi come se già io, in quelle mura, ci fossi stato.
Con quella sensazione di casa, mi sono immerso completamente nelle storie di quegli occhi che mi si erano seduti di fronte. Erano occhi anziani, giovani, scuri, chiari, tutti diversi ma con una sola cosa in comune. Dentro quegli occhi, dentro ognuno di loro, si celava un senso di tristezza e di dolore. Erano pigmenti mescolati a una sorta di ombra oscura e, forse, è proprio lì che venne a galla il mio senso di appartenenza: mi riconoscevo in quel buio da cui gli altri compagni attorno a me cercavano di allontanarsi.

Il primo a parlarmi è stato un ragazzo di nome Manuel, di quasi trent’anni. Manuel era stato arrestato per crimini commessi 8 anni prima. Dietro a un paio di tatuaggi, occhi neri e un numero indefinito di cicatrici, si nasconde una persona mangiata dalla droga, consumata da uno sbaglio forse commesso per superficialità. Manuel mi ha raccontato della sua bambina, avuta a 18 anni da una ragazza che ora, trasferitasi in un paesino della Sardegna, si rifiuta anche solo di fargliela vedere in foto. Mi ha raccontato che, dopo che la madre se l’era portata via, era iniziato il suo periodo più buio. Aveva imboccato le vie dell’illegalità: aveva iniziato a rubare, a spacciare e a fare uso di ogni tipo di sostanza. Mentre raccontava, sono rimasto letteralmente attonito: sembrava così simile alle mie esperienze passate. Ritrovavo, in quelle parole, la storia di mio padre.

Quando mi ha detto che, però, nel luglio del 2022 si era reso conto, grazie alla sua nuova compagna, che non poteva più continuare così, dopo che lei lo aveva trovato in casa con oltre 1200 euro di crack già fumato, ho sentito come un getto d’acqua fredda. Quella storia non era la mia. Non ero io il bambino che quell’uomo aveva lasciato, non era lui mio padre. Era una persona diversa, distinta, con la forza di rialzarsi da terra. Ho lasciato così il mio primo incontro con un detenuto, con la consapevolezza di aver conosciuto una persona capace di rialzarsi e spegnere il fuoco dell’inferno che aveva lui stesso appiccato, forse per colpa delle sue conoscenze, forse delle situazioni familiari o forse semplicemente per sfortuna.

La seconda volta che sono andato, Manuel non c’era. C’erano ad aspettarci dei detenuti della Zona Filtro (per chi non lo sapesse, nella zona filtro ci sono persone che hanno commesso reati come abusi e violenze sessuali o ex guardie che hanno violato la legge). Quattro uomini. Due ragazzi e due anziani. Un ex latitante, una guardia con accuse di stalking e violenza sessuale sull’ex moglie, un ragazzo che aveva violato i domiciliari e un ragazzo con l’accusa di rissa aggravata.

Quella volta si sono avvicinati a me i due ragazzi, avevano lo sguardo perso e stupito. Era la prima volta che vedevano qualcuno di esterno al carcere, che non fosse una guardia o un altro detenuto. Sembravano come bambini per la prima volta al parco giochi. Mostravano un velo di euforia misto a gioia, entrambi sudati perché appena usciti dalla ‘palestra’. Da appassionato quale sono e conoscendo abbastanza questa disciplina, ho chiesto quali esercizi stessero facendo e se, per caso, come me, avessero un sacco da box. E alla risposta affermativa è seguita la dimostrazione: in carcere non avevano a disposizioni guanti o fascette e nelle nocche avevano così delle cicatrici, recenti e vecchie, le stesse che incidono anche le mie.
Mi hanno detto che per loro, quello, era l’unico modo per passare il tempo: in una cella senza nemmeno una finestra, anche la semplice sopravvivenza è un’impresa. Quale miglior modo di consumare le ore se non muoversi e stancarsi con dell’esercizio fisico? La palestra per loro costituiva la libertà, era il loro modo di esprimersi, il loro dialogo con un mondo che li ha dimenticati. Uno di loro ci ha detto quale fosse il suo più grande sogno: essere un cuoco. Aveva iniziato a lavorare in cucina a 15 anni e era stato amore a prima vista per lui. È passato così il mio secondo incontro con un detenuto, tra risate e chiacchiere su ricette varie.

La terza volta che sono entrato in quel posto sono stato accolto da un abbraccio stretto di Manuel. C’era e si ricordava di me. Non penso che qualcuno mi abbia mai stretto così tanto forte. Qualcosa nei suoi occhi però era cambiato, erano più scuri, più spenti, cupi. Subito la domanda mi sorse spontanea “Come stai?”. Fece un sorriso amaro e disse: “La scorsa settimana tentato di impiccarmi, non ce la faccio più qua dentro”.

In otto dentro una cella stretta e piccola, dove manca di umanità e ogni forma di comodità, niente ti porta più ad avere la voglia e la forza di continuare a vivere. Un appello, una denuncia sulla disumanizzazione delle carceri, le quali dovrebbero aiutare le persone a reinserirsi nella società, rieducare le persone che hanno commesso errori per dar loro un’altra possibilità. Ci siamo dimenticati di chi siamo e di chi sono loro: persone che hanno commesso un errore.

Oggi, etichettati come animali in gabbia, ombre lontane, figure anonime e meritevoli di cadere nell’oblio. La loro condanna non è stare dentro al carcere, la loro vera condanna inizia quando usciranno da quelle mura perché si ritroveranno proiettati in un mondo che ormai è distante, diverso da come l’hanno lasciato e con nessun tipo di affiancamento o educazione sul come comportarsi per non evitare di tornare dietro le sbarre.

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