Giornalismo, su Ithaca sbarca la Generazione Telemaco

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Siamo una generazione Telemaco. Nessuno parla mai di Telemaco ma, all’inizio dell’Odissea, Atena lo chiama e gli dice: ‘Non potrai mica pensare di restare qui ad attendere’. Anche la nostra generazione […] ha il dovere di riscoprirsi Telemaco. Ha il dovere di meritare l’eredità“. Così nel 2014 l’allora presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi concluse il suo discorso davanti al Parlamento europeo, inaugurando il semestre italiano alla guida dell’Unione Europea. A ispirare quell’immagine, c’era il libro del filosofo e psicanalista Massimo Recalcati dal titolo “Il complesso Telemaco”. Nel tentativo di costruirsi, scriveva l’autore, “si può sempre fallire, ripetendo semplicemente il passato per un eccesso di identificazione o rifiutando la memoria in nome di una libertà senza responsabilità. Telemaco è il giusto erede perché, a partire dall’assenza del padre Ulisse, si mette in viaggio per cercarlo, col rischio di smarrirsi, ma assumendo con coraggio la sua condizione“.

La potente metafora dei giovani di oggi con la loro (nostra) particolarmente ardua ricerca di identità, insieme al resto del discorso, era stato opera di Andrea Marcolongo: grecista milanese, classe 1987 e allieva della scuola Holden di Alessandro Baricco. Il bello? La ghostwriter se ne sarebbe andata sbattendo la porta da quel lavoro perché “non sono mai stata pagata, a parte una mensilità“. Quale più realistica (ma triste) rappresentazione di una condizione giovanile fragile, precaria e ipersfruttata?

Una sorte ben diversa è quella che auguro ad altri grecisti in erba, studenti e studentesse di un liceo classico in cui insegno (da precario anch’io, ovviamente). Li ho incontrati appena fuori dalle anonime aule di quello che potrebbe essere uno qualunque dei quasi 40mila edifici scolastici italiani, troppo spesso non-luoghi poco ospitali (ne abbiamo parlato una volta QUI). Ci siamo riuniti per parlare di scrittura, con la nostra disponibilità ad avviarli alla redazione di pezzi che ospiteremo prossimamente sul nostro giornale. Per farlo, ci siamo dati appuntamento nell’ampio ambiente industrial di un bar-pasticceria: uno stile che, con eleganza e un po’ d’irriverenza, scortica la superficiale levigatezza di architetture e arredi per mostrare “cosa c’è sotto”, in tutte le sue imperfezioni. Noi vogliamo farlo con il giornalismo.

Prof, vista la sua formazione e le passate esperienze professionali, ci darebbe modo di conoscere meglio il settore giornalistico e… magari potremmo provare a scrivere qualcosa, no?“. Tutto è nato così, spontaneo e dal basso, sorprendendomi un po’. In altre situazioni sono stato io a dover stimolare un (difficile) interesse per la scrittura: stavolta, però, siamo in un classico (?). In un composto gruppo WhatsApp ci accordiamo per un primo incontro. Non saremo tutti, troppi gli impegni scolastici: faremo un bis. Intanto, però, mi chiedo: come introdurre il mondo del giornalismo a un gruppo di (potenziali) nuove leve?

La teoria? Nel campo delle professioni, è relativamente semplice illustrare la natura e l’oggetto del lavoro di un avvocato, di un ingegnere, di un medico, attività ben delineate, anche se questi hanno accanto altre figure operative (una segretaria, un geometra, un infermiere). Per il giornalista è più difficile. Con questo termine sono genericamente indicate azioni diverse: un articolo, un commento, un reportage, una foto, un filmato, un’intervista, un titolo, una pagina di giornale, una fotografia, un talk show, una vignetta, una striscia fumettistica, una cartina geografica, un’infografica, un podcast, un post su Instagram, un breve video su TikTok, una diretta su Facebook, un intervento lungo su Youtube. Materiali non omogenei.

Inizialmente tengo aperta sul mio Pc la presentazione, che avevo preparato per un’altra occasione, dal titolo “Quarto potere”. Un’espressione coniata da Edmund Burke nel 1787, per indicare come la stampa sia un vero e proprio potere indipendente da quelli esecutivo, legislativo, giudiziario, teorizzati, qualche decennio prima, da Montesquieu. E uno dei filoni per studiare il giornalismo è proprio quello del rapporto con il potere: l’informazione controlla il potere ma al contempo il potere fa di tutto per mettere le mani sull’informazione. Il giornalismo si intreccia poi con l’innovazione tecnologica: il nostro giornale è online… anche se le riviste che tiro fuori dal mio zaino per mostrarle a loro sono splendidi esempi di come la carta possa avere ancora una sua nicchia grazie a comunità di lettori attente e attivi e alla collaborazione con giovani e talentuosi designer.

No, però, non mi sono concentrato sulla teoria del giornalismo. Stavolta, niente slide. Ma un discorso che parte proprio dal giornalismo come vita. Perché no, il giornalismo non è morto (anche se fra i più giovani la lettura dei giornali è un fenomeno tutto da approfondire). Non morirà finché ci saranno notizie e storie da raccontare. Non morirà finché ci saranno persone che vorranno raccontarle e persone che vorranno leggerle, ascoltarle, vederle. Ce ne sarà sempre bisogno.

Non c’è bisogno, invece, di comunicati stampa copia-incollati, con linee editoriali tutte uguali, con titoli ingannevoli, con video emotivi e fintamente incredibili, omettendo il contesto, interpretando male la differenza fra quantità e qualità, trattando male lettori, ascoltatori, spettatori, con arroganza e supponenza, travisando i fatti per superficialità o per altri scopi, con pezzi su gattini pelosi, con articoli irrilevanti.

Noi vogliamo giornalismo lento, Slow News: un giornalismo buono, pulito, giusto di cui abbiamo tanto bisogno e di cui si trovano ormai piccoli e grandi luminosi esempi. E ne avremo sempre di più, in un’era in cui, con la disinformazione, la misinformation, il news management, la propaganda, la personalizzazione dei contenuti, è ancora più difficile distinguere cos’è vero da cos’è falso. Non possiamo fare a meno di un punto di vista. Se riprendiamo alcuni edifici rimasti in piedi, possiamo far credere che una città distrutta dal terremoto è già stata ricostruita: dipende da dove puntiamo la telecamera. Che nel momento stesso in cui documentiamo e poi scegliamo, selezioniamo e raccontiamo, automaticamente facciamo una falsificazione della realtà.

Il giornalismo illumina il cambiamento, il giornalista fa, agisce perché dietro c’è la convinzione che un altro mondo è sempre possibile e che non si può avere paura del cambiamento. Lo spazio d’azione del giornalista è sul territorio (peraltro abbiamo scritto molto di giornalismo locale, QUI). Non dentro a una redazione, non dietro a uno schermo, ma fra le persone. A raccogliere voci, a farsi domande, a compulsare dati, a riflettere, a trovare modi sempre attuali e sempre più efficaci per raccontare le mille sfaccettature della realtà (abbiamo approfondito QUI).

“Sai, prof., mi è piaciuto molto” “Ah sì?” “Ha detto cose belle, interessanti. Era fluido, non impostato e ci ha indicato un modo diverso di raccontare e di raccontarci, di guardare il mondo e non vedo l’ora di metterlo in pratica”.

E, allora, viva l’Ithaca Academy.

Anche perché mi richiamano all’ordine: “Sì, ma dopo un’ora e mezza abbiamo finito il tempo che ti avevamo dato, eh!“.

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