Parigi, metro linea 1. “Macron è uscito dal didietro di Hollande”, fra le tante frasi che si sentono scandire all’improvviso, questa mi rimane impressa. Sono un gruppo di sindacalisti della Cgt, l’equivalente della nostra Cgil (ma ben più radicale), e stanno raccogliendo, attraverso i vagoni, i fondi per sostenere coloro che si asterranno dal lavoro: le persone sembrano appoggiarli con entusiasmo. È il 23 marzo 2023, mentre la Francia sta iniziando la sua ennesima giornata di sciopero, noi scendiamo a Châtelet, una delle stazioni più grandi per spostarsi nella capitale francese. Abbiamo scelto quella linea perché è automatizzata, a prova di sciopero. Ma facciamo un passo indietro.
François Hollande era il presidente francese di sinistra che aveva scelto come suo ministro dell’Economia Emmanuel Macron, che poi alle successive elezioni si era presentato alla presidenza con un programma liberista e lo aveva rimpiazzato. Io, all’epoca, stavo per laurearmi a Parigi in Histoire et civilisations comparées, grazie al sostegno di una generosa borsa di Sorbonne Paris Cité e all’aiuto alla ricerca della Fondation de Wendel. Mi sono specializzato in Storia dell’impresa e del lavoro. Stavolta, però, non sono a Parigi in veste di studioso, ma di accompagnatore. Siamo 3 docenti e 37 studenti e studentesse del liceo linguistico Trebbiani di Ascoli Piceno e ci addentriamo, prima pachidermici e poi sempre più svelti, nell’intricato (e affollato) trasporto pubblico parigino. Siamo stati ore, uno per volta, ad acquistare le tessere che ci permettono ora di muoverci fra 16 linee di metro e poi tram, autobus, treni regionali di ogni genere. Tutto è iniziato alle 2 e mezza di notte del sabato precedente, per uno stage linguistico che è terminato nella nottata del venerdì successivo. Quasi 20 km al giorno di camminate, 3 ore e mezza di lezione di francese (per loro) e una lista di innumerevoli visite in quasi tutti i luoghi simbolo della Ville Lumière: protagoniste due classi terze, una delle quali è quella che ha la fortuna (?) di avermi come insegnante di Storia e filosofia.
Insieme alle colleghe di Francese e Storia dell’arte alloggiamo, come anche i ragazzi e le ragazze, presso famiglie locali. Nel nostro caso, ci accoglie una signora ultrasettantenne che, con un’auto scassatissima, ci porta insieme alle nostre valigie verso casa sua al quindicesimo piano di un palazzo nell’estrema periferia, a Pantin (con una splendida vista panoramica). Mentre inizia a cadere la classica pioggerellina parigina, il discorso cade subito sulla situazione delle proteste in corso da tempo nel Paese. “Io proprio non capisco cosa vogliano, l’età della vita si è innanzata. Io, alla mia età, mi mantengo attiva e continuo a lavorare come decoratrice d’interni. Mi piacciono le mie stoffe. Basta con questi disagi, sta diventando invivibile. Cosa vogliono, vivere a spese di chi?”.
Giusto, per cosa stanno protestando i francesi? Da fine gennaio di quest’anno, si susseguono enormi cortei e scioperi di massa contro la riforma delle pensioni voluta da Macron. Gli scioperi stanno provocando grossi disagi: spesso i trasporti pubblici sono fermi, le lezioni a scuola si interrompono, le stazioni di servizio rimangono senza carburante e così via. Una cosa che mi ha colpito molto, però, – avendo conosciuta la città in altri periodi – è la spazzatura: i marciapiedi di Parigi ne sono ingombri perché le discariche e i netturbini si sono fermati e non la raccolgono più. I ragazzi e le ragazze la fotografano stupiti. Eppure, c’è una certa dignità con cui i mucchi si ingrossano e i parigini ci fanno i conti. Sostengono la protesta? Un recente sondaggio ha rivelato che il 65% dei cittadini vuole che le manifestazioni continuino, anche se la legge è stata approvata. In quei giorni, prima dello sciopero, abbiamo vissuto anche il momento dell’approvazione. Mi ricordo la nostra ospitante che ce lo aveva annunciato con nonchalance a colazione: “Finalmente!”. Il problema è che l’82% dei francesi ha un’opinione negativa sull’utilizzo del controverso articolo 49.3 della Costituzione francese, che permette a determinate condizioni di far approvare una proposta di legge del governo senza un voto del parlamento. Macron, temendo una sconfitta in parlamento, però, l’ha usato.
Cosa prevede la riforma? L’aspetto più contestato è il cosiddetto articolo 7, che prevede l’aumento progressivo dell’età pensionabile da 62 a 64 anni (contro i 65 preventivati in un primo momento). L’aumento di due anni è accompagnato da un progressivo aumento degli anni di contributi a 43. La riforma segna poi la fine dei cosiddetti regimi pensionistici ‘speciali’ di cui godono i dipendenti di alcuni grandi gruppi d’Oltralpe (ma solo per i nuovi assunti). E restringe le maglia per usufruire degli anticipi pensionistici per chi svolge dei lavori usuranti. Macron tenta di riformare le pensioni dal suo primo mandato come presidente. Si potrebbe dire che i francesi sapessero a cosa andavano incontro quando l’hanno votato, eppure le cose non stanno proprio così. Al primo turno delle presidenziali ha votato il 73,69% degli elettori francesi e solo il 27,85% di questi ha votato per Macron. Al secondo turno, quando si contendono la presidenza i due candidati più votati del turno precedente, molti hanno votato più contro l’esponente dell’estrema destra Marine Le Pen che a favore di Macron stesso.
Si respira aria di rivoluzione ovunque nella capitale francese. Intendiamoci, tutto funziona normalmente. Certo, si vedono sfrecciare continuamente camionette delle forze dell’ordine, capita che alcune stazioni restino chiuse (costringendomi a continui cambi creativi di percorso), la frequenza dei treni sembra più bassa, sulle sgargianti pubblicità delle stazioni e in giro per Parigi compaiono frequentissime stelle rosse o A anarchiche, insieme a slogan cruenti contro il presidente o il capitalismo. In un tardo pomeriggio eravamo al mercato coperto di Les Halles quando, un po’ come fa il meteo parigino che passa dal sole più splendente alle nuvole più plumbee, l’atmosfera si carica di tensione e si capisce che sta per palesarsi una delle tante e continue manifestazioni selvagge di questa fase.
Tutto questo mi ricorda il mio ultimo anno di vita nella capitale francese. Esattamente a fine marzo 2016, il presidente Hollande fa approvare a colpi di 49.3 una riforma del mercato del lavoro che vuole precarizzare il mercato del lavoro. I giovani parigini (ma non solo), con un movimento che si allargherà in decine di altre città francesi ed europee, scendono in piazza. E ci rimangono: è Nuit Debout (“notte in piedi”). Mesi di occupazione di Place de la République, un luogo simbolico per la Francia. Alla base c’era la “convergence des luttes” (convergenza delle lotte), tanto è vero che in tutto il Paese si provano saldature fra lotte specifiche e variegate. “Contre la Loi travail et son monde” (contro la legge sul lavoro e il suo mondo) è uno degli slogan: contro un mondo in cui l’individuale sopravanza il collettivo, dove il denaro ha la preminenza rispetto all’interesse generale, in cui gli interessi dei potenti hanno la priorità rispetto a quello dei cittadini. Quella piazza parigina diventa in pochi giorni un villaggio delle lotte. Ogni giorno, centinaia e centinaia di persone (anche note), in una fresca primavera, si ritrovano insieme in questo spazio urbano che era un vuoto in cui tutto sembra possibile: ci sono assemblee generali semi-permanenti, commissioni tematiche di ogni genere (dalla logistica all’educazione, dalla sicurezza alla banlieue, dall’ecologia alla discriminazione), circoli più informali, laboratori, nuove gestualità e meccanismi di consenso per ordinare la discussione. Insomma, una messa in discussione totale della democrazia per come la conosciamo, una riappropriazione del termine in direzione della decisione diretta e della de-rappresentazione della politica. Oltre a discutere e lavorare insieme, si mangia alla mensa a prezzo libero, si prendono o lasciano libri alla biblioteca popolare (ne ho ancora uno dello storico Emmanuel Todd), ci si cura o ci si fa curare, si fruisce o si producono varie forme d’arte. E io da solo, o con un’amica italiana che ho incuriosito, partecipo appena posso. Mi ricordo una serata passata a girare fra gli stand, fra cui mi colpisce quello sull’antispecismo (la filosofia che rimette al centro la questione animale), o un pomeriggio a vedere un documentario e poi ascoltare Baptiste Mylondo su un tema d’estrema attualità come la decrescita e il reddito universale. La piazza si trasforma poi anche in giardino urbano, grazie alla rimozione dei blocchi della pavimentazione e alla cura di mani esperte. Questo villaggio effimero possiede i suoi propri media: Tv Debout, Radio Debout, la Gazette Debout. E poi non mancano gli artisti: Photographes Debout, Documentaristes Debout, Cinéma Debout, Chanteurs d’actu, Théâtre Debout, tutte le arti in piedi e in piazza. Oggi, quando vedo quell’ampia distesa di pietra grigia, non posso fare a meno di immaginarla brulicante di vita: Da grève générale a rêve générale, dallo sciopero al sogno, come dicevamo allora. Stavolta non ci sono tornato, sarà per la prossima.
Mi torna in mente tutto questo mentre, camminando sul Pont Neuf, una studentessa mi chiede: “Ma perché loro lo fanno e noi no?”. E questo ‘noi’ è interessante. Lei intendeva noi italiani, ma io credo – inconsciamente – anche noi liceali. Mentre camminiamo verso il nostro autobus di ritorno non posso fare a meno di notare un liceo occupato, davanti ai nostri occhi. Sono centinaia in tutta la Francia. Un aspetto interessante di questa lotta del 2023, infatti, è la totale unitarietà dei sindacati ma anche delle fasce d’età. Si vedono giovanissimi delle superiori nelle manifestazioni e sono tantissimi. Perché? Come ha scritto tempo fa uno storico francese, se le classi dirigenti inglese adottarono un riformismo fatto di progressivo allargamento delle proprie basi democratiche, in Francia si pende periodicamente fra conservazione e rivoluzione. I francesi sono abituati a protestare, una certa violenza è maggiormente tollerata, perché l’immaginario legato alla rivoluzione è sempre presente, sempre alimentato, sempre ripreso. A scuola si insegna molto lo spirito critico, a ragionare criticamente sotto forma di dissertazione. E così come nel dibattito pubblico si assiste a furibonde polemiche intellettuali di tutti i tipi. Il patto sociale su cui si regge la Francia è un po’ diverso dal nostro. Per i francesi il sistema di sicurezza sociale (così si chiama il Welfare State) è un orgoglio nazionale, costituisce parte dell’identità di quel Paese. Se sulla carta la Francia è uno degli Stati più diseguali, grazie a quanto viene poi redistribuito diventa uno dei più egualitari.
Il lavoro, il lavoro, il lavoro. In Italia se ne parla, giustamente. Ma gli avvenimenti della Francia di questi mesi ci raccontano che non esiste solo la carriera, ci raccontano di un profondo contrasto fra tempo libero e tempo di lavoro. I movimenti internazionali di questi anni, come il fenomeno delle Grandi Dimissioni (tendenza volontaria a lasciare il proprio posto di lavoro) o del Quiet Quitting (lavorare nei tempi e nei modi indicati dal contratto, senza fare straordinari o assumersi responsabilità straordinarie) hanno radici antiche in Francia. La decisione più popolare del presidente socialista Mitterand negli anni ‘80 fu la quinta settimana di ferie. Il governo socialista di Jospin negli anni 2000 è universalmente noto per aver fissato a 35 ore la durata della settimana lavorativa. Più recente, la legge per il diritto alla disconnessione (ovvero non essere sempre reperibili per il lavoro). E d’altronde ogni sei settimane di scuola ce ne sono due di vacanza. In questo contesto si inserisce la protesta: già oggi l’età media di pensionamento è 63 anni in Francia, ma volontaria. Si fanno scelte personali e libere. E i giovani partecipano perché pensano anche a loro e al momento di lasciare il lavoro. Sostengono che ci siano altri modi per risolvere i problemi: tassare i ricchi, tassare le aziende (d’altronde in Francia l’imposta patrimoniale non è rimessa in discussione da nessuno). C’è sempre un’alternativa.
Agli studenti, a partire dalle nostre tre discipline (storia, arte e letteratura) abbiamo cercato congiuntamente di trasmettere la chiave di lettura dello spirito francese al Louvre, di fronte alla Libertà che guida il popolo. La prima opera politica della pittura moderna, una vivida rappresentazione del popolo di Parigi in tutte le sue componenti sociali e anagrafiche colto nella furia della lotta, con in primo piano i corpi dei caduti, la violenza e la morte. L’allegoria della libertà, la sola donna fra tutti uomini, che marcia verso di noi – un po’ dea greca, un po’ vigorosa popolana, con i suoi peli sotto le ascelle – è a seno nudo come una sorta di nutrice del popolo parigino; indossa il berretto frigio, simbolo dell’affrancamento degli schiavi romani, e diverrà nell’immaginario collettivo il simbolo della nazione francese vittoriosa. Fra gli sguardi stanchi ma interessati di studenti e studentesse, ci siamo soffermati sul ragazzo che guarda verso di noi. Simbolo dei “gamins de Paris” che hanno partecipato ai moti del 1830. Rappresenta la giovinezza in rivolta per l’ingiustizia, nutrita com’era fin dall’infanzia da storie sulla rivoluzione dell’89, e il sacrificio per le nobili cause. Con il suo berretto di velluto nero da studente evoca il personaggio di Gavroche ne ‘I miserabili” di Victor Hugo.
Il numero del giornale satirico Charlie Hebdo di quella settimana recava la testa ghigliottinata di Macron che rotolava da una scalinata: “Può risalire?”. Il sistema francese è comunemente detto monarchia repubblicana. E, dunque, non può che esserci l’idea che a un certo punto il monarca vada decapitato.
“Prof., ma quando torniamo a Parigi? È stato così bello imparare a risolversi in un contesto così diverso dalla nostra piccola realtà, così pieno, così pulsante… Anche solo essere autonomi con i trasporti pubblici” “Non preferite provare a fare la rivoluzione a casa?”. C’è sempre bisogno di una ghigliottina.