Eric Gobetti e i carnefici dimenticati: la verità rimossa sui crimini fascisti

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22 febbraio 2024. Un anno esatto dal passaggio di Eric Gobetti nella nostra città, Ascoli Piceno. Un arrivo condito da feroci polemiche (di cui scrivemmo QUI), che ci sembrano più che mai d’attualità, perché più che mai attuale è la tesi de “I carnefici del Duce“: un libro che si immerge nel rimosso della memoria italiana, senza nostalgie o indulgenze verso un passato che ci sembra ricordare sempre più sinistramente il presente. La sua è una ricerca che vuole ribaltare l’autoassoluzione nazionale, portando alla luce il ruolo attivo e consapevole di molti italiani nei crimini di guerra durante la Seconda guerra mondiale. E qui sta il punto: capire non significa giustificare.

C’è un elefante nella stanza. La rimozione dei crimini fascisti dall’immaginario pubblico italiano è così forte che per decenni il dibattito storiografico ha faticato persino a nominarlo. Mentre in Germania e in Giappone sono stati celebrati processi contro i responsabili delle atrocità belliche, in Italia si è scelto di non guardare. Nessun equivalente di Norimberga o Tokyo: anzi, il trattato di pace del 1947, che prevedeva l’estradizione dei criminali di guerra italiani, è stato abilmente aggirato con la complicità della Guerra Fredda e della paura di un’espansione comunista.

Dalla Jugoslavia all’Africa coloniale, l’esercito fascista non si comportò come un corpo di liberatori, ma come un esercito di occupazione. La repressione delle popolazioni locali seguiva logiche di terrore: rastrellamenti, fucilazioni, incendi di villaggi e campi di concentramento. Non si trattava di poche “mele marce” o di eccessi isolati, ma di un sistema preciso, consapevole e ideologicamente motivato, in cui militari, intellettuali, poliziotti e burocrati diventarono, senza troppi scrupoli, carnefici. Alcuni, come il generale Taddeo Orlando, continuarono tranquillamente la carriera anche nel dopoguerra, a testimonianza della continuità dello Stato e della mancata resa dei conti con il passato.

La Jugoslavia, in particolare, è il punto di osservazione perfetto per comprendere la brutalità dell’occupazione italiana. Gobetti ricostruisce episodi come la repressione in Montenegro, guidata dal generale Pirzio Biroli, che applicò le strategie sperimentate nelle colonie, dal saccheggio sistematico alla deportazione di massa. Il suo proclama alle truppe, nel luglio 1941, parlava di “repressione di estremo rigore e di esemplarità solenne“, negando solo “l’inutile crudeltà“. Ma nei fatti la campagna di riconquista fu un bagno di sangue: migliaia di civili trucidati, interi villaggi rasi al suolo e un sistema di repressione che anticipava le metodologie naziste in Italia. Non si trattava solo di brutalità bellica, ma di un vero e proprio piano di controllo e annientamento di ogni forma di resistenza, simile a quello che i tedeschi avrebbero attuato in Italia dopo l’8 settembre 1943.

Gobetti smonta la favoletta degli “italiani brava gente”, un mito alimentato con cura e funzionale a una memoria pubblica che preferisce considerare gli italiani solo vittime (delle foibe, delle bombe angloamericane, della guerra stessa) piuttosto che carnefici. Le prove, peraltro, sono schiaccianti: nel 1996, con la desecretazione di documenti d’archivio, vennero fuori ulteriori conferme sulle atrocità commesse dall’esercito italiano, ma l’opinione pubblica e la classe dirigente hanno continuato a rimuovere o minimizzare. Il caso dell’”armadio della vergogna”, il deposito di documenti giudiziari sui crimini di guerra italiani chiuso negli anni Cinquanta e riaperto solo negli anni Novanta, è emblematico di questa tendenza alla rimozione.

Non stupisce, dunque, che i lavori di Gobetti abbiano scatenato attacchi pesantissimi. I suoi studi sulla Jugoslavia lo hanno reso bersaglio di accuse e insulti da parte di ambienti neofascisti, ma anche di settori della politica che ancora si aggrappano a una memoria selettiva. Eppure, il suo approccio storico è lineare: non c’è bisogno di demonizzare oltre misura, ma di comprendere i meccanismi che portano persone ordinarie a commettere crimini straordinari. Come è accaduto, come potrebbe ancora accadere.

Questa è la forza del libro: mostrare che la violenza di guerra non è un’eccezione della storia, ma una possibilità concreta ovunque si creino le condizioni. Non ci sono popoli eletti all’innocenza: ci sono scelte, contesti e ideologie che plasmano il comportamento umano. Il fascismo “eterno” nell’interpretazione di Eco, persistenza di militarismo, razzismo e sessismo, crea proprio quelle condizioni. Ed è questo il nodo con cui dobbiamo fare i conti oggi: non solo con il passato, ma con la sua eredità nel presente. Il mancato confronto con questa storia non è solo un problema di conoscenza, ma un ostacolo alla piena maturità democratica del Paese.

Appena finita la presentazione, aveva preso la parola il pubblico, in una sala gremita di persone sedute e in piedi, con un anziano che si era chiesto: “Ma è vero che la sua presenza è stata vietata nelle scuole cittadine?”. ”Sì, ed è una vergogna” era stata la risposta lapidaria dello storico torinese. Un segno del nostro tempo?

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