L’inutile bellezza della storia: Ascoli medievale si racconta in un libro

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A che serve la storia?’. Ce lo chiedono spesso a noi storici, e io rispondo sempre allo stesso modo: A niente. Proprio come Caravaggio, come Vivaldi. Si può vivere beatamente senza sapere chi siano, senza mai ascoltarne una nota. La mia gatta, Miss Rossella Micia Rossa – l’amore della mia vita, a cui ho dedicato il mio ultimo libro – ignora del tutto l’esistenza di Giovanni Pierluigi da Palestrina, eppure vive felice. Un mio vecchio gatto, Sir George, faceva le fusa con la polifonia rinascimentale, ma lei? Niente, zero, ronfa e basta. E allora, perché la storia, l’arte, la letteratura? Perché sono inutili. E nell’inutile sta l’essenza dell’essere umano. Non siamo gatti coccolati che si accontentano di una grattatina sulla pancia: noi possiamo permetterci il lusso dell’inutile. Filosofia, musica, storia – tutto ciò che non serve a nulla è ciò che ci rende diversi, pensanti, vivi. L’inutilità è il nostro vero utile, il nostro distintivo di esseri senzienti. Altrimenti, siamo solo mici ben pasciuti. E io, che ho studiato e amo queste cose, mi sento un gradino sopra. Non per arroganza, ma per scelta”.

Così Duccio Balestracci, 76 anni, fino a qualche anno fa ordinario di Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Siena. L’occasione  è stata la presentazione, presso la Sala della Ragione di Palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno, de “Storia di Ascoli. Il Medioevo” (ed. Librati), secondo volume di un percorso che ricostruisca complessivamente la storia della città, alla presenza dei curatori: i proff. Roberto Lambertini, Giuliano Pinto e Antonio Rigon.

Proprio quest’ultimo ha ricordato la genesi del “progetto nato vent’anni fa e quando lo proposi, un membro d’allora del consiglio di amministrazione dell’Istituto superiore di studi medievali Cecco d’Ascoli, un po’ provocatoriamente, mi disse: ‘Ma a che serve?’. E mi spiazzò. Poi mi ricordai che anche il figlio di Marc Bloch, il più grande medievista del Novecento, fece la stessa domanda al padre. E Bloch rispose con un capolavoro, L’apologia della storia o mestiere dello storico’. Io non sono Bloch, sia chiaro, ma ci provai. Balbettai qualcosa di ovvio: la storia è conoscenza, dà identità a comunità e popoli, ti allena a incontrare l’altro da sé – l’uomo del passato. In un mondo globalizzato, ti costringe a guardarti allo specchio, a misurarti consapevolmente con la tua identità e con la contemporaneità. Nel confronto con le infinite identità locali, in Europa e oltre, offre il contributo, piccolo o grande che sia, della propria tradizione e della propria cultura vissuta attraverso i secoli. ‘E poi’, ribattei al mio interlocutore, ‘guardi che non saremmo affatto gli unici: in quegli anni città come Venezia o Vicenza, nel mio Veneto, pubblicavano opere di storia a raffica. Qualcosa vorrà pur dire, no?’”.

In sala non mancava il prof. Luigi Morganti, presidente dell’Istituto Cecco d’Ascoli quando io, liceale, lo avevo come docente di Disegno/Storia dell’arte al liceo scientifico. Ricordo la passione con cui ci faceva seguire quasi minuto per minuto l’organizzazione del Premio Internazionale Ascoli Piceno, ideato nel 1987 dal sindaco Gianni Forlini con la collaborazione del prof. Franco Cardini e di altri esponenti del mondo della medievistica e del giornalismo nazionale (come Enzo Carra, Antonio Donat Cattin, Franco Cangini e Mario Pendinelli) per portare la città nei grandi circuiti culturali, anche internazionali. Ricordo l’edizione 2008, nell’auditorium della Fondazione Carisap, quando trattenevamo il fiato in attesa del  video del più grande medievista vivente (ma troppo anziano per essere presente) Jacques Le Goff, rilasciata in esclusiva per l’Istituto nella sua residenza di Parigi al prof. Jean Claude Maire Viguer (e doppiata dallo stesso Morganti). Un mito, che era stato premiato nella prima edizione e a cui erano seguite personalità come quelle di Peter Dronke, Horst Fuhrmann, André Vauchez, Arnold Esch, Liliana Cavani, Pupi Avati, Franco Battiato, Vittorio Gassman, Cesare Segre e tanti altri. Mi ricordo il premio 2009 all’immensa Chiara Frugoni per il volume “L’affare migliore di Enrico. Giotto e la Cappella Scrovegni”: la sua lectio magistralis su Francesco d’Assisi ci lasciò tutti a bocca aperta. E poi c’erano, connesse annualmente al Premio, le Giornate di Studio, con la presenza di relatori provenienti dai maggiori atenei europei e ideate da uno specifico Comitato Scientifico/Giuria, presieduta anche allora dal prof. Rigon e formata da insigni studiosi che oggi vedono in particolare una mia ex docente all’Università di Bologna come Maria Giuseppina Muzzarelli, le cui lezioni di medievistica vedevano sempre una grandissima partecipazione.

Quelle esperienze non sono rimaste senza risultato (almeno per quanto mi riguarda). La passione per la storia c’era già, ma entrare in contatto precocemente con personalità eccezionali come quelle, con il mestiere dello storico finalmente visto da vicino e ad altissimo livello… hanno contribuito a fare di me un laureato in Storia, fra l’Italia e la Francia, specialista di contemporanea. Oggi l’Istituto prova a rilanciarsi, si parla anche di una presentazione del volume anche a Roma. Ma, soprattutto, anche se “le attività non sono mai cessate, c’è stato un momento che spiega anche le difficoltà del volume, ormai superate. Ma ci auguriamo di ricominciare con i ritmi del dell’Istituto a cui la città è abituata e anche con l’impostazione che è stata data: quell’attività, in particolare convegnistica, e il Premio. Stiamo pensando in particolare ad un convegno su Girolamo d’Ascoli” dichiara Roberto Lambertini, ordinario di Storia medievale all’università di Macerata.

E aggiunge: “Auspico che possiamo ricominciare con i nostri ritmi perché Ascoli, come realtà esemplare, non serve soltanto a rafforzare il giusto affetto che gli ascolani hanno per la loro città. Da non ascolano, la storia ascolana mi appassiona, perché? In quanto aiuta a comprendere la storia del Medioevo italiano e non solo italiano, e questo è lo spirito con cui negli ultimi anni abbiamo lavorato e mi auguro che riusciremo a continuare nel futuro. In questa prospettiva, una prospettiva di una Ascoli che ci serve a capire un momento fondamentale della storia d’Europa e quindi della nostra storia.

Rincara la dose Giuliano Pinto, emerito di Storia medievale all’Università di Firenze: “Rimasi abbagliato dalla bellezza di questa città, dalle tracce imponenti che il Medioevo vi aveva lasciato e confrontavo questa bellezza, queste tracce così evidenti del Medioevo, all’assenza completa della sua storia dai manuali, ma anche nei lavori che riguardavano l’Italia comunale. Poi ebbi la fortuna girando per le librerie della città di imbattermi nei volumi di don Giuseppe Fabiani, volumi ricchissimi, pieni di spunti. E così mi dissi, ma mi interessa studiare anche questa città? E allora cominciai. Arrivai a collaborare con l’Istituto. Oggi mi auguro che questo volume circoli nelle biblioteche universitarie, negli istituti di cultura, in modo che Ascoli venga in qualche modo collocata al giusto posto nell’ambito di quella storia straordinaria che è la storia delle città medievali. Uno dei pochissimi momenti in cui la storia d’Italia è veramente storia europea. Ed è giusto non parlare solo delle grandi città, Venezia, Milano, Genova, Firenze, Napoli, ma anche di città di media importanza che sono l’ossatura della storia italiana: Ascoli è stata tanto trascurata nei decenni passati, che riacquisti il suo posto, il posto che merita”.

Nel 2014 uscì il primo volume storia di Ascoli, curato egregiamente dal prof. Gianfranco Paci, ordinario di storia romana a Macerata, dedicato alla storia antica. Era più facile scriverne, perché c’erano dei precedenti, molto più complicato era studiare la storia medioevale, molte più ricerche bisognava fare, non c’era molto di preparatorio e anche per questo ci abbiamo messo 10 anni, ma poi alla fine il progetto è andato in porto” dice ancora Antonio Rigon, già ordinario di Storia medievale nell’università di Padova. “Ma il lavoro non s’arresta. Ora ci aspetta un terzo volume, perché questo era il progetto originario, dedicato all’età moderna e contemporanea. Senza dimenticare però che c’è sempre da lavorare, c’è sempre da approfondire, c’è sempre da andare in archivio. I bollari nell’archivio della Diocesi, per esempio, cioè questi registri presenti a partire dalla seconda metà del ‘300 sono di grandissima ricchezza. Sono certamente conosciuti, ma solo piluccati Ci vorrebbe anche una lettura sistematica e ne verrebbe fuori un quadro nuovo e straordinario, secondo me, della storia non solo della Chiesa, ma dalla della città e del territorio. Io ne ho letti un paio, uno dietro l’altro, schedando, non cercando una cosa, vedendo cosa c’era. C’è tanto materiale ancora da studiare, tanto, non solo per il Medioevo. E adesso mi faccio un po’ di propaganda, entro la fine di quest’anno uscirà un libretto con dei piccoli scoop, e nemmeno tanto piccoli, sulla storia di Ascoli nel Medioevo”. 

Perché, una cosa che colpisce, e che si scopre leggendo il libro è “la consapevolezza che nel Medioevo gli ascolani avevano, l’orgoglio per la bellezza della città. Negli statuti di Ascoli del 1377 qua e là si dice che la città è bella e che bisogna rispettare certe regole, anche d’igiene, per esempio in Piazza del popolo. Mi colpì tanto, non sono un gran lettore di statuti, però, per quanto ne so, pur se Ascoli in questo non è un’eccezione, comunque gli statuti ascolani si distinguono per questo. E d’altra parte i visitatori di Ascoli se ne accorgevano che la città era bella”.
Lottiamo per continuare difenderne la bellezza e la cultura, aggiungiamo noi.

Di seguito lo splendido intervento di Duccio Balestracci per presentare il volume.(Trascrizione quasi integrale a cura dell’autore del presente articolo)

“Quando ho preso in mano questo libro per presentarlo, non è mai facile presentare un libro miscellaneo. Mi sono chiesto: qual era la chiave per capire un volume come questo? La chiave me l’ha prestata una locuzione talmente conosciuta che mi vergogno persino a dirlo, è veramente cheap ripeterla: è quella definizione di città che a suo tempo dette Roberto Sabatino Lopez. La città è uno stato d’animo. Bellissimo. Questo birbaccione non l’aveva mica detto lui, l’ha rubata. L’ha presa da Robert Park, un architetto della scuola di Chicago che l’ha usata in un suo libro. Per la verità, anche Bartolo da Sassoferrato diceva che le città non sono gli edifici, le mura e così via, ma chi ci vive dentro. Beh, in fin dei conti, se ci pensate, è quello che è approdato in quella pagina, forse la più bella delle Città invisibili: la città di Ersilia, raccontata da Calvino. Non è stato facile cercare la chiave di interpretazione di un volume come questo, con curatori di altissimo livello e contributi all’altezza dei curatori. Tra l’altro, scritto – questo è già stato detto, ma ci tengo a sottolinearlo – con un linguaggio agilissimo, di una lettura piacevole, il che non è sempre scontato. Per non dire della veste editoriale: è già stato detto, ma ci tengo a ribadirlo anch’io, è veramente sontuosa. Ha un apparato iconografico meraviglioso, una grafica accurata ed elegante come raramente si vede.

Quando si incomincia a capire di che cosa stiamo parlando per la Ascoli medievale? Certo, la carenza di fonti scritte non aiuta granché. È vero che vengono in aiuto le fonti archeologiche, però le fonti scritte hanno una funzione, le fonti archeologiche ne hanno un’altra. Sono contigue, si integrano, si surrogano l’una rispetto all’altra, ma ognuna di queste ha un suo statuto epistemologico. Non possiamo pensare di colmare le une con le altre in maniera automatica. Comunque, in questo volume c’è un’appendice formidabile, perché ci dice quali sono i giacimenti di documentazione: i musei, gli archivi, il lascito stesso dell’archeologia. All’interno di questa appendice si ricostruisce la mappa, diciamo così, attraverso la quale si può ricostruire una storia come quella della città di Ascoli. Una storia della città di Ascoli che incomincia a uscire dalla nebulosità, bisogna dirlo, con il pieno Medioevo. Sì, certo, c’è la filigrana della struttura antica romana, che viene fuori anche dal punto di vista urbanistico e che si evince abbastanza bene. C’è questa figura fondamentale di Sant’Emidio, assunto come patrono: Sant’Emidio di Treviri, martirizzato fra il 303 e il 309, grosso modo, con una biografia estremamente incerta e, come è stato detto, anche dal punto di vista cronologico molto discutibile. C’è una storia fatta di leggende nere sulla conquista longobarda: bellissima quella storia macabra che viene fuori, che probabilmente è la silloge, la metafora di una difficoltà di contatto fra le popolazioni autoctone e questa popolazione che arriva a invadere l’Italia. C’è una lacunosità fra l’età longobarda e l’età franca, diciamo pure fino all’età ottoniana, che ci mette in forte difficoltà per capire il passaggio tra la tarda antichità e il proto-medioevo ascolano.

Si comincia a mettere a fuoco qualche cosa quando, proprio in età ottoniana, X-XI secolo, incomincia a emergere la figura del vescovo, che in qualche modo va di pari passo con la costruzione di un’identità civica. Possiamo, volendo, sillogizzarla nella dedica della cattedrale a Sant’Emidio, insieme alla dedica alla Madonna. È qui che si incomincia a creare un’identità civile con la costruzione, appunto, dell’identità che possiamo vedere nella prima redazione della vita di Sant’Emidio martire e, soprattutto, nell’espansione degli edifici sacri: la cattedrale, il battistero, che vengono ristrutturati, ampliati all’interno del tessuto urbano. In questo contesto incomincia a emergere, importante, fondamentale, la figura del vescovo, che ha immediatamente un ruolo profondamente dinamico dal punto di vista della costruzione delle istituzioni e dei rapporti sociali. Molto bello il percorso che viene fatto per uscire da un equivoco. Le storie del periodo vescovile, giustamente, sono state messe sotto il bisturi. È stato analizzato il concetto di “vescovo conte”, un concetto abusatissimo, che si trova molto spesso anche nei libri di scuola ed è sbagliato, estremamente sbagliato, addirittura in qualche modo debitore di un tardo positivismo. In questo caso, invece, viene esaminato. Questo percorso ci fa vedere i vescovi ascolani che hanno un’ampia libertà di azione, ma che non sono conti nel senso giuridico del termine. La cessione di diritti fiscali, di patrimonialità, non significa fare di un vescovo il conte. È vero che quando si arriva alla metà del XII secolo, con il vescovo Presbitero, nell’entourage di Corrado III, si dice che questo vescovo è “in consortium principum nostrorum”, nel consorzio dei nostri principi. Ma è un titolo attribuito ad personam, non è un titolo attribuito al vescovo in quanto rappresentante istituzionale. Proprio questa analisi ci aiuta a uscire da certe torsioni che continuano ancora, ahimè, a incrostare questo momento iniziale.

È estremamente interessante notare, peraltro, che questo periodo di formazione della grandezza episcopale di Ascoli va di pari passo con una collaborazione forte con il Capitolo. Il Capitolo è l’espressione del vescovo nella cura animarum, nell’organizzazione delle pievanie e delle parrocchie. Questo contesto – vescovo, capitolo e quant’altro – ha forti legami e forti contiguità con l’Impero, con il rapporto che c’è già con Federico I e anche poi con quelli che verranno dopo. Ci fa vedere che c’è un rapporto estremamente stretto, che poi, peraltro, incomincia a incrinarsi, ma per ragioni che non sono ideologiche, ben chiaro. Togliamo da questo discorso ogni superfetazione ideologica che talvolta ci viene rimbombata nelle orecchie. Bisogna andare a vedere momento per momento, caso per caso, situazione per situazione, per capire che cosa sta succedendo. Con la morte di Enrico VI questo rapporto si incrina, ma si incrina perché, nel frattempo, intorno al vescovo si è creata la prima formazione, la proto-formazione comunale, che ha anche una sua manifestazione urbanistica, se vogliamo. Quando si dice che il Comune di Ascoli nasce nel 1183… no, dicono quelli che hanno scritto il libro, è una data farlocca. È una mezza verità, perché in questo periodo, è vero che si vedono, si apprezzano delle consorterie legate al vescovo. Abbiamo esperienze di questo genere in altre parti d’Italia: ad Asti succede qualcosa del genere, e così sia. Alla fine del XII secolo, nei diplomi, accanto al vescovo compaiono figure come consules e populus. Ora, se consules è un termine che ci sta in questo periodo, fino alla fine del XII secolo, va forse capito – come dicono gli stessi curatori – il significato di un termine come populus, che probabilmente, ditemi se l’ho capita male, non può essere assimilato al concetto di popolo che troviamo tradizionalmente in Toscana e cose di questo genere. È una terminologia di cui bisogna non soltanto di capire il significato, ma capire il significante, il contenuto rapportato al momento e alla situazione specifica della costruzione sociale e istituzionale di questa città. Consoli e podestà. C’è un’alternanza, dicono gli autori. Sì, è probabile che ci sia un’alternanza. Esiste qualcosa del genere anche in moltissime altre realtà: una volta ci sono i consoli, poi arriva il podestà, poi si ritorna ai consoli, poi magari il podestà prende il sopravvento. Ma quello che è importante è vedere che questo inizio di comune, si vede in collegamento con la figura del vescovo e poi non va avanti però su questa strada di collaborazione, sulla quale nasce, non ultima ragione, per una difformità – a quello che ho capito dalla lettura di questo libro – nel rapporto fra le istituzioni cittadine e le aristocrazie del contado. Non c’è una comunanza di idee fra il vescovo e il comune.

Quando viene eletto vescovo Ascoli Marcellino, siamo nel 1228, che è una creatura di Gregorio IX, è una figura energica che curva in un certo modo il rapporto con l’aristocrazia del contado, ma che si mette, proprio in questo senso, come elemento ingombrante nei confronti del comune. Un rapporto difficoltoso che trova il punto di riferimento alla metà del XIII secolo, quando la conflittualità interna fra vescovo e comune presenta momenti abbastanza significativi. Fino al momento in cui la figura del vescovo incomincia a diluirsi, a sfumare. Il comune cerca di costruire la sua territorialità, senza riuscirci, sui poteri territoriali del vescovo. Ma è significativo il passo in cui nel libro viene sottolineato che negli statuti del 1377 – che sono, come direbbe uno, un’agenzia di costruzione della ridefinizione dei rapporti istituzionali, ma ci arrivo fra un attimo – il culto di Sant’Emidio è un culto che viene connotato fortemente come un culto civico, nel quale viene poco meno che obliterata la carica vescovile di Emidio. Questo è interessantissimo, è sintomatico da questo punto di vista. Emerge con chiarezza dal volume che, pur all’interno di questa frizione tra quello che era stato il momento aurorale del comune, c’è comunque un momento di crescita, un momento di crescita istituzionale e altrettanto un momento di crescita demografica. Fra il XIII e il XIV secolo, Ascoli recupera ampiamente quell’antico ruolo che aveva avuto prima dell’appannamento conseguente alla crisi dell’Impero. Soprattutto, però, come lo ottiene? Lo ottiene con una politica che possiamo definire di svuotamento delle risorse umane a danno delle aristocrazie del contado. Abbiamo sempre detto, almeno io quando insegnavo ai ragazzi dicevo: attenzione, diffidate da quella formuletta che ci hanno insegnato a tutti, “Stadtluft macht frei”, l’aria della città rende liberi. Perché non è così. Andiamo a vedere l’iscrizione di Porta San Vito a San Gimignano e mi sa che lì questa cosa vale, e pare di capire valga anche per Ascoli Piceno. Perché Ascoli Piceno, nel XIII secolo, applica l’idea che l’aria della città rende liberi. Lo fa nei confronti dei contadini, che vengono invitati a immigrare, indebolendo così i rapporti fra il ceto contadino e le signorie. C’è una traccia di tutto questo addirittura negli statuti del 1377. Il Medioevo sta già salutando, eh, il Medioevo come lo conosciamo noi: un’immigrazione forzosa, anche della stessa aristocrazia fondiaria, che viene costretta a immigrare perché il comune la vuole controllare. Questa sì, accetta di immigrare, ma lo fa obtorto collo e a costo di mantenere forti tensioni fra l’aristocrazia inurbata e il comune, soprattutto quando poi il comune prende caratteristiche di tipo borghese, ma ci arriviamo fra un attimo.

Certo, fra XII e XIV secolo Ascoli è una città turrita e popolosa. Le torri sono la testimonianza di una dinamica del potere in mano a un’aristocrazia tutt’altro che tranquilla, sempre pronta a rimettere in discussione i bilanciamenti istituzionali e le camere di compensazione che pure si cerca in qualche modo di trovare. È un fatto che il secolo fra il 1250 e il 1340 è stato giustamente definito in questo volume i “cento anni d’oro” di Ascoli. Ascoli arriva ad avere intorno ai 25.000 abitanti, che per una città medievale è una cifra di tutto rispetto. Non è come oggi: 25.000 abitanti oggi sono un paesone, ma nel Medioevo sono una bella realtà, una bella realtà urbana, che ha intorno un territorio fragile, caratterizzato dall’assenza di castelli importanti o di terre con caratteristiche urbane. Ringrazio i curatori e chi ha scritto questi saggi – che Dio gli dia cent’anni di salute e di felicità – perché non hanno mai usato il termine “quasi città”. Questo termine, coniato con grande intelligenza e con grande protocollo di idee da Chittolini, è stato applicato a orecchio. Ora qualsiasi borgo un po’ più grosso è una “quasi città”: è una scemenza. Andiamo a rileggere che cosa diceva Chittolini, qual era il protocollo serio e discutibile. Chittolini e Cammarosano hanno battibeccato parecchio su questo. Una volta che ho fatto questo discorso, Cammarosano mi ha detto: “Mi fa piacere vedere che anche tu sei molto tiepido nei confronti della quasi città”. Tiepidissimo. Ma insomma, per fortuna qui questo termine non viene mai usato a orecchio. Quindi, un territorio estremamente difficile, con certe spine nel fianco: Arquata, pensate al castello di Arquata, che è sempre stato una spina nel fianco. Nel 1293 Arquata viene sottomessa, in una sottomissione tutt’altro che tranquilla, perché in realtà questo non toglie gli elementi di frizione.

Quando poi, intorno agli anni ’80 del Trecento, incominciamo a trovare i rappresentanti della borghesia imprenditoriale, dei ceti artigiani, dei ceti mercantili, siamo in presenza di un comune che sta accentuando le sue caratteristiche popolari. Infatti, non a caso, si sposta in un circuito guelfo-angioino: basta guardare da dove vengono i podestà di Ascoli Piceno. Con uno spazio urbano all’interno della città che si rimodella, si ridisegna, si riscrive sulla base proprio di questi nuovi equilibri, di queste mutazioni. Il Palazzo dei Capitani del Popolo, nella piazza dove c’è un’importante chiesa, è complementare rispetto allo spazio della cattedrale e del palazzo comunale. Quando Nicolò IV, nel 1288, viene eletto podestà, la prima impressione che si può avere è: “Vabbè, Ascoli è mani e piedi legata al Papa”. No, non è assolutamente questo. È la costruzione e la sperimentazione: nel Medioevo le istituzioni politiche sono una continua forma di sperimentazione. È una sperimentazione che non ha nulla a che fare con le istituzioni locali, ma che cerca di creare un raccordo tra il papato e le istituzioni locali, come tentativo di antidoto alle lotte di fazione. Giustamente è stato sottolineato che siamo nel periodo d’oro di Ascoli, ma attenzione: nel periodo d’oro di Ascoli non deve niente a Nicolò IV podestà, perché Ascoli ha sviluppato il suo periodo d’oro da solo.

In questo periodo d’oro – è stato già evocato nei saluti – ha un momento, un ruolo fondamentale, un’importanza fondamentale, un peso, un gradiente enorme l’aspetto della vivacità del mondo religioso ascolano, il ruolo fondamentale delle istituzioni ecclesiastiche, gli insediamenti benedettini nel territorio, il monachesimo riformato con il monachesimo di Chiaravalle, di Fiastra e di Fonte Avellana. La proposta importante che viene avanzata dagli enti monastici femminili: c’è un protagonismo di religiosità femminile che è enorme da questo punto di vista e che ha un peso nella costruzione di questa idea di città, di questo senso di città. Ha un peso fondamentale il monachesimo femminile, legato al pauperismo, all’influsso francescano e con rifrazioni, e in qualche caso anche frizioni. Gli ordini mendicanti sono il termometro della vivacità della città. C’è una corsa, sottolineata nel libro, degli ordini mendicanti ad accaparrarsi i punti chiave dell’urbanistica cittadina, i punti significativi. Mettere un convento qui o là non è la stessa cosa: ci sono punti in cui bisogna, comunicativamente, essere presenti. Proprio questa trasformazione dello spazio urbano è il segno della vivacità, esattamente come lo è anche altrove, ma anche qui, in maniera molto chiara. Quell’aspetto di scardinamento che i mendicanti ad Ascoli creano all’interno del modello di comunità parrocchiale, a favore, come è stato giustamente detto, di una appartenenza di elezione: non è più la parrocchia il punto di riferimento, ma sono queste istituzioni, i mendicanti. Questo ha un rebound, prima di tutto, dal punto di vista dell’organizzazione dello stato delle anime, questo è fuori discussione. Ne ha uno – perdonatemi questo aspetto terra-terra, ma c’è pure questo – anche economico, perché l’adesione a una parrocchia o a un convento di un altro tipo significa lasciti, donazioni, oblazioni e quanto altro. Le due cose si tengono in maniera assolutamente inscindibile.

Quando arriva Nicolò IV – capirai, Nicolò IV è un francescano, figuriamoci se non favorisce i francescani – ogni volta che prendete, per esempio, la diatriba fra il comune e i monasteri femminili per la gestione dei mulini, una diatriba che arriva fino allo scontro armato. Non è che c’è soltanto una dialettica, c’è proprio uno scontro, uno scontro armato. Giustamente si dice: in questo momento i cantieri ecclesiastici sorgono come funghi nel centro. Veniva promossa la promozione del culto di quelli che vengono chiamati “santi novellini”, i nuovi santi, che sono spesso di provenienza minoritica. I mendicanti, qui come altrove – non è soltanto una caratteristica ascolana, ma è anche una caratteristica ascolana – tengono la documentazione pubblica del comune. Sono quindi un corpo a latere del comune, sono loro che conservano gli archivi, sono loro che conservano le carte. Ma ci rendiamo conto di che cosa vuol dire? Vuol dire avere in mano la memoria politica ed economica dell’intera città. Certo, ci sono anche tensioni da questo punto di vista. Molto bello il fatto che gli eremiti insistano per avere un abito diverso dai minoriti, perché non ci sia confusione: “Chi siamo noi e chi siete voi?”. Estremamente interessante. Così come, vabbè, questo succede qui come altrove, uno scontro fra mendicanti e clero secolare. Ma un qualcosa che, comunque, all’interno di questo aspetto magmatico, turbolento, molto fluido, se vogliamo, ci dà la contezza dell’importanza del gradiente – ripeto ancora questo concetto che ho già detto – della presenza ecclesiastica nella costruzione e poi nell’attività di attrazione dei laici all’interno di questo mondo. Quindi un qualcosa di attivo, un eccipiente continuamente attivo all’interno della vita cittadina.

È in questa situazione molto fluida che si apre un laboratorio bellissimo su Ascoli Piceno, ovvero il laboratorio per verificare i rapporti fra comune e signorie, forme di signoria che si alternano o convivono. Attenzione: quando si parla di signorie, quando andavo a scuola io, retroactis temporibusci veniva ancora propinata la lezione che c’era il comune democratico. Una stupidaggine più grossa di questa non c’è. Intanto, il comune medievale non esiste: il comune medievale è un ologramma, perché è un grappolo di interessi corporativi che poi, giustamente, si dà le sue istituzioni per trovare i meccanismi di compensazione e di bilanciamento, perché sennò sarebbe il caos. La signoria, poi arrivano i cattivi signori che sono i tiranni: un’altra scemenza che ci hanno insegnato. Certo, Ascoli, che non è proprio una città pacifica, pacioccona, tranquilla – Albornoz dice “volubilis velut rota et labilis ut anguilla”, scivolosa come l’anguilla – presenta forme di manifestazioni di poteri signorili in mano a privati, come avviene un po’ dappertutto. È un fenomeno che non tollera la scorciatoia e la semplificazione del “poi arriva il tiranno”. Le forme di potere personale convivono con le istituzioni, si bilanciano con le istituzioni. Gli esempi potrebbero essere tanti. Forse il più interessante è quello della metà del Trecento, di Gomez Albornoz, che è il nipotino dell’Albornoz che tutti quanti conosciamo. È, come dire, un tentativo, una sperimentazione. Quando si parla di queste cose bisogna sempre parlare solo di sperimentazione del potere: una sperimentazione di un governo misto fra la sovranità del Papa e l’ampio autogoverno cittadino. Questo bilanciamento trova poi il suo riverbero, come ho anticipato prima, negli statuti del 1377, che sono, nella volgarizzazione del 1401, un monumento linguistico. Quando io insegnavo, li leggevo sempre ai miei studenti, i quali si divertivano molto perché sono scritti in una lingua ascolana, in una cadenza ascolana, che sembrava quasi stessimo facendo un teatrino del dialetto. No, no, no. Sono un monumento linguistico da questo punto di vista, ma sono una formidabile agenzia di tentativo di chiarificazione istituzionale. La favola che sono stati scritti in una sola notte non è soltanto folklore, non è soltanto una cosetta per fare il sorriso: ci dà il senso dell’urgenza, della cogenza, della necessità di uno strumento che sia un tentativo di bilanciamento di queste sperimentazioni del potere. Non è stato fatto in una notte, ma ci sarebbe stato bisogno di farlo al più presto possibile. Questo intende la metafora del discorso, ed è l’elemento che ci interessa.

Si va avanti con queste sperimentazioni e – sto accelerando perché sennò ci si fa tardi – con la formazione, nel Quattrocento, di una classe dirigente fra arti e mercatura, con tentativi e sperimentazioni di signorie, ma l’ho già detto. Ci portano all’interno di quello che è un nucleo fondamentale, un nocciolo fondamentale in questa opera, in questa storia, ossia lo sviluppo economico di Ascoli Piceno. Ascoli Piceno ha a suo favore la geografia. Fermi, time out: non c’è in questa narrazione nessuna traccia di determinismo geografico. “Siccome la geografia è così, allora è successo questo”. Io sono senese e a Siena ancora scontiamo una frase bellissima di Ernesto Sestan, che non so se vivo la riscriverebbe ancora una volta. Parlando di Siena disse, questa è bellissima: “Siena è figlia della strada”. Intanto, se gli avessero dato un euro per tutte le volte che questo concetto è stato citato a orecchio, sarebbe diventato miliardario. In seconda battuta, questo è stato letto in una chiave che era del tutto aliena a Ernesto Sestan, quella di un determinismo geografico. Siccome c’è la strada, è successo questo. C’è anche San Gimignano, ma San Gimignano non è diventato Siena. Ci sono anche altre località, ma altre località non sono diventate né Siena né Viterbo, che erano pure sulla strada.

Quindi, nessun determinismo geografico, ma non si può mettere in parentesi il fatto che il territorio ascolano è in una posizione strategica, in una cerniera fra il Patrimonio di San Pietro, il Regno, fra l’Italia comunale e il Sud: un territorio di insediamenti modesti, di redditività limitata, perché non è in grado di soddisfare i bisogni della città, per esempio sul piano del cereale. Però è un territorio con delle potenzialità molto importanti: l’olio, il guado per la tintura, gli ovini, il travertino. L’attività manifatturiera ascolana ha una proiezione nel Sud: i mercanti di Ascoli si trovano nel Regno e si trovano nelle intermediazioni dei panni con la Toscana. Si capisce questa loro aspirazione per uno sviluppo che abbia davanti il mare, che è fondamentale. Esce che, avendo questo obiettivo, debbano fare i conti con quella che è, bene o male, la signora dell’Adriatico, ossia Venezia. Venezia, dal punto di vista politico-istituzionale, è una città cannibale per quel che riguarda la terraferma; per l’elemento liquido non sente rombi, esercita un’egemonia e pretende di esercitarla. È la stessa cosa, per esempio, che succede se si guarda alle signorie malatestiane o addirittura a quelle del Montefeltro, che devono fare i conti con i mercanti veneziani. Il comune è estremamente attivo nel potenziamento delle infrastrutture. La stessa Chiesa, all’inizio del Trecento, appoggia il rilancio del porto ai trattati con Venezia, che porta allo scontro inevitabile con Fermo. No, nella storia non c’è niente di inevitabile, mi è scappato un lapsus, ma si capisce bene che si arriva allo scontro con Fermo per forza, ci si pestano i piedi a vicenda. Il rapporto è un rapporto estremamente travagliato.

Poi ci entra anche il discorso dell’abbazia di Farfa lo lascio perdere, perché sennò… A fronte di difficoltà strutturali non piccole, manca la liquidità monetaria. Si deve ricorrere ai prestatori. Ovviamente c’è una discontinuità e una insufficienza da parte della zecca locale. Poi, certo, arriva il momento della tragedia: arriva la metà del Trecento con quello che… Fra la metà del Trecento e l’inizio del Cinquecento siamo a una popolazione quasi dimezzata, uno spopolamento. Si parla di meno di 10.000 abitanti per questa città che ne aveva più del doppio, come abbiamo detto. Questi abitanti della città e del territorio presentano una modestia sociale robusta: nel 1381 il 60% della popolazione è a meno di 10 lire. Sono pochine, eh, guardate che sono veramente pochine. È piena di nullatenenti. La forbice sociale è una forbice dilatata in maniera preoccupante. È un paradigma conosciuto, beninteso, ed è conosciuto anche il sistema per ripianare questo problema: l’immigrazione di manodopera dall’Oltralpe, dall’oltre Adriatico, i cosiddetti “lombardi” – cioè tutto quello che era l’Italia del Nord – che porta dalla Dalmazia, dall’Albania, dalla Schiavonia. Questo conduce a tensioni sociali, a frizioni fra questi immigrati, che non vengono assimilati o che vengono visti comunque come un’anti-società. Probabilmente c’era già nel 1471, quando i problemi di convivenza sono piuttosto forti, qualcuno che diceva addirittura che questi immigrati portano la peste. C’era qualcuno che probabilmente proponeva di sparare ai gommoni o l’equivalente.

Bene, concludo, perché questo volume contiene poi una seconda parte che è un libro nel libro, che io non ci metto nemmeno le mani, ma ci ho messo gli occhi. Gli occhi di queste storie nella storia, che sono impossibili da analizzare qui, ma che analizzano la vicenda culturale e artistica di Ascoli Piceno, che sono due vicende da far paura. Figure di rilievo a mai finire: Enoc d’Ascoli, Antonio Bonfini, altri. Un umanesimo, come vogliamo dirlo… Cecco non lo sto neanche a nominare, perché venire a parlare di Cecco qui è un po’ da ridere. Sono espressioni di un umanesimo che io amo definire “umanesimo di periferia”. Lo amo definire così perché, quando insegnavo ai miei studenti, ci tenevo a dire: guardate che l’umanesimo, il Rinascimento in Italia non sono soltanto le punte clamorose di Firenze, di Ferrara, di Venezia. C’è un umanesimo diffuso, che è un umanesimo minore, che è un tessuto connettivo fondamentale, che ci presenta nel Quattrocento e nel Cinquecento non alcuni fari, alcune punte, ma un’Italia complessivamente intesa. Non parlo dell’umanesimo messinese, che è stato analizzato bene dagli storici meridionali, per esempio, ma per dire che esiste un tessuto connettivo all’interno del quale Ascoli è un elemento fondamentale, dal punto di vista dell’arte, dal punto di vista… Basta pensare agli studi intorno agli ordini mendicanti. Gli Studia intorno agli ordini mendicanti oggi si tradurrebbero… Non si possono definire università, perché per esserci un’università bisogna che ci sia il diploma del Papa o dell’imperatore. Benissimo, d’accordo, chiamiamoli in un altro modo, ma quello fanno: sono strutture di tipo universitario. C’è un pensiero estremamente chiaro, estremamente forte, estremamente vivace.

Concludo con da dove ero partito: qual è lo stato d’animo, qual è il senso di questa città, così come viene fuori da questo bellissimo e denso volume? Un senso di fragilità e potenzialità, di ricerca di un bilanciamento e di un governo fra la fragilità e le potenzialità, all’interno del quale viene fuori questa vivacità culturale in grado di competere alla pari con realtà culturali coeve, un laboratorio di un tessuto urbano intermedio. Quali sono gli sviluppi? Che cosa avviene di questo patrimonio creato nel Medioevo nell’età moderna? State sintonizzati sulle nostre frequenze e al prossimo volume lo saprete. Grazie”. 

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