Ithaca ospita con piacere, da oggi, una serie di articoli scritti per noi da @dallapartegiustadellastoria
L’8 e 9 giugno saremo chiamati a votare per il destino dei quattro quesiti referendari sul lavoro e per quello sulla cittadinanza, che garantirebbe la svolta storica di una legge –la n.91 del 1992– che non solo è specchio dell’arretratezza legislativa di un’Italia dalla società profondamente cambiata, ma limita anche libertà e diritti di centinaia di migliaia di italiani che lavorano, studiano e vivono qui, senza però che lo Stato li riconosca legalmente.

Emblematica è la notizia di qualche settimana fa, che ha fatto particolare scalpore: quella di una docente di un istituto superiore di Torino, la professoressa Rachela Baroni, che ha accompagnato la propria studentessa all’Ufficio Immigrazione della città, perché non le venisse impedito di svolgere l’esame di maturità che stava rischiando di non fare a causa del suo permesso di soggiorno scaduto.
La studentessa, nata in Italia e di origine nigeriana, stava provando da un anno ad accedere agli uffici per avviare le pratiche di rinnovo del documento, eppure i tentativi sono risultati vani –al punto che, a causa di questa condizione e nell’arco di questo tempo- non ha avuto neppure accesso a un medico di base.
Sono solo alcune delle parole rilasciate dalla professoressa, eppure è il pensiero che anche tante di noi, giovani italiani di fatto, ma non di diritto, abbiamo avuto, ogni volta che attendevamo nelle lunghe file in questura, semplicemente perché lo Stato ci riconoscesse come parte di esso.
Mattinate che iniziavano quando ancora del sole non vi era traccia, nel gelo invernale, in una macchina parcheggiata davanti la questura, piena di persone che stavano sacrificando qualcosa– ore di lavoro da recuperare, verifiche o lezioni a scuola– rimanendo nell’ansia dell’incertezza, sapendo che qualcosa sarebbe sicuramente andato storto, ma sperando che non si trattasse della situazione peggiore in assoluto: il rimpatrio forzato in un Paese che non avevamo scelto, che non era il nostro.

Difficile descrivere la nostra infanzia e adolescenza, scandite da giornate intere passate a tradurre documenti che non comprendevamo neppure noi, ma da cui dipendeva il futuro e la libertà delle nostre famiglie, con la paura di sbagliare qualcosa –che fosse una parola di troppo rivolta all’agente dello sportello immigrazione, o una lettera scritta male nella compilazione dei documenti– e la frustrazione di non avere gli strumenti (né l’età) adeguati, per spiegare ai nostri genitori i cavilli burocratici su cui questo sistema si basa.
Eppure, questa è la silenziosa realtà di centinaia di migliaia di studenti in Italia: secondo i dati del Ministero dell’Istruzione relativi all’anno scolastico 2020/2021, sono quasi 900 mila gli studenti con origine straniera, di cui più del 66,7% nato in Italia, ma senza cittadinanza italiana.
È importante evidenziare dunque che, anche se nati in Italia, questi studenti non acquisiscono automaticamente la cittadinanza italiana, in quanto la legislazione vigente, non aggiornata dal 1992, si basa sul principio dello ius sanguinis (letteralmente, diritto di sangue), conferendo la cittadinanza ai figli di almeno un genitore italiano: come se fosse una goccia di sangue a definire l’italianità di una persona.
Di conseguenza, persone nate e/o cresciute in Italia da genitori stranieri devono affrontare un lungo iter burocratico e soddisfare rigidi requisiti per richiedere la concessione della cittadinanza italiana – perché, infatti, non necessariamente l’avere “tutte le carte in regola” ti permette automaticamente di concludere questo processo, che può essere rallentato o, peggio, interrotto, senza ricevere spiegazioni chiare dei motivi.

Per chi nasce in territorio italiano e riesce a dimostrare di averci vissuto per almeno 10 anni ininterrotti e consecutivi, al raggiungimento dei 18 anni l’odissea burocratica si può concludere con la possibilità di fare richiesta della cittadinanza entro il compimento del 19esimo anno di età; diversamente va per la stragrande maggioranza di persone che non ha questo privilegio –come chi giunge in Italia a pochi anni di vita, o in età adulta– e che, quindi, deve sottostare all’infinito gioco dell’oca, le cui regole cambiano a seconda del vento politico che tira.
Chi proviene da Paesi extra-UE, infatti, deve prima passare attraverso un lungo periodo di attesa, dimostrando la residenza in Italia per 10 anni ininterrotti e consecutivi, e rinnovando ogni anno i permessi di soggiorno, che possono essere legati a motivi di studio, lavoro o famiglia.
In molti casi, il permesso di soggiorno è legato a un contratto di lavoro: perderlo significa rischiare di cadere nell’irregolarità.
Di conseguenza, molte persone con background migratorio sono costrette ad accettare condizioni lavorative precarie, sottopagate –se non in nero– pur di mantenere i documenti in regola. Questa realtà di precariato diventa, quindi, una condizione inevitabile per chi vive in Italia senza cittadinanza, e rende ancora più difficile raggiungere una stabilità economica sufficiente a soddisfare i requisiti richiesti dalla legge, come il mantenimento di un reddito stabile per almeno tre anni consecutivi.
Negare la cittadinanza a persone che sono di fatto parte integrante del tessuto sociale italiano, oltre a creare una discrepanza tra identità vissuta e status legale, può essere interpretato come una forma di abbandono da parte dello Stato.

Tale esclusione, infatti, rischia di alimentare dinamiche classiste e razziste, perpetuando disuguaglianze basate su origini etniche e sociali.
Da un lato, infatti, emergono ostacoli evidenti, nonché diretta conseguenza di una legge vecchia più di trent’anni, come il non poter partecipare a concorsi pubblici, bandi Erasmus, competizioni sportive o all’ iscrizione a diversi albi per cui si è economicamente e umanamente investito per una vita, l’impossibilità di partecipare a viaggi d’istruzione in Paesi esteri (la maggior parte delle volte, i tempi di richiesta di un visto per chi non è cittadino europeo sono, infatti, maggiori rispetto a quelli dell’effettiva organizzazione di una gita scolastica disincentivando, dunque, gli insegnanti a includere anche gli studenti senza cittadinanza italiana) e, soprattutto, il non poter votare o essere parte della vita politica del Paese, né in maniera attiva, né passiva.
Dall’altro lato, invece, questa sistematica esclusione di quasi 6 milioni di persone –stando ai dati ISTAT del 2023– comporta anche conseguenze invisibili che, a cascata, alimentano un effetto deprimente, di allontanamento e sfiducia verso la società, già avviato dai salatissimi sacrifici e sforzi fatti quotidianamente per esser parte di un Paese che continua ad ignorarli.
Infatti, continuando sulla scia del racconto di noi cosiddette “seconde generazioni“(figlie e figli di operai, ristoratori, cuochi, badanti o negozianti che, nel loro Paese di provenienza erano medici, sindacalisti, commercialisti, infermiere o insegnanti, la cui formazione, in Europa, non viene neppure considerata), vivendo in un contesto di precarietà e abbandono dal punto di vista economico, abitativo e socioculturale, la forbice di opportunità –ad esempio il raggiungimento livelli d’istruzione elevati– si riduce notevolmente: com’è possibile dedicarsi ai doveri (e diritti) dell’adolescenza, come lo studio, la cultura, lo svago, se si vive nell’incertezza, nella costante idea che da un momento all’altro ti può essere negato tutto ciò che hai, dal lavoro dei tuoi genitori alla casa in cui vivi, e tutto ciò che gravita attorno al soddisfacimento dei bisogni primari della cosiddetta piramide di Maslow?
Il tutto, senza considerare la spensieratezza e la possibilità di sbagliare, di cui questa fase di vita dovrebbe essere particolarmente intrisa: come ci si può permettere di vivere con leggerezza o di commettere un errore, sapendo quanto e come le nostre vite siano strumento di propaganda d’odio, e sapendo già che si è destinati a scartare certi sogni o progetti di vita, per la trappola di documenti su cui non puoi avere alcun controllo? E se vogliamo esprimere un nostro pensiero in una piazza, o addirittura in privato, come possiamo sentirci al sicuro –poiché staremmo esercitando un diritto costituzionale, e uno dei pochi che in teoria potremmo esercitare, visto che non possiamo neppure votare – se poi, però, rischiamo di ritrovarci improvvisamente con la revoca dei nostri permessi di soggiorno, se non direttamente in un CPR– centro di permanenza per il rimpatrio– da un giorno all’altro?
E se estendessimo il discorso parlando di chi ha davvero scelto l’Italia come Paese dove porre le proprie radici, il proprio futuro, le proprie speranze, come i nostri genitori e coloro che appartengono alle cosiddette “prime generazioni”–il cui lavoro rappresenta più dell’8% del PIL del Paese– vedremo che il quadro si fa ancor più complesso.
Tenendo a mente le difficoltà che il vivere in una società utilitaristica comporta (il valore dell’esistenza di un individuo si misura attraverso quanto esso riesce a produrre e incrementare la società), infatti, avremmo comunque lo spaccato di una realtà estremamente escludente e discriminatoria che, oltre allo scenario descritto prima, trova ulteriori aspetti preoccupanti, come la messa in dubbio della garanzia di accesso alla sanità (dal semplice medico di base alla volontà di interrompere una gravidanza indesiderata), alle tutele in ambito lavorativo, al diritto alla casa, fino alle situazioni più vulnerabili, come nel caso di situazioni di violenza dove, per la paura di non avere i documenti in regola, si è costrette al silenzio, pure se si vorrebbe solo giustizia.
Da questo quadro, che delinea soltanto superficialmente gli aspetti concreti che gravitano attorno al diritto alla cittadinanza emerge, dunque, quanto esso sia una questione che riguarda la società italiana tutta –contrariamente a quanto il governo attuale ci vuole far credere– e che, quindi, il voto diventa non solo cruciale strumento di resistenza, ma soprattutto di solidarietà e umanità, che dovrebbe andare oltre qualsiasi colore politico.
L’Italia è già cambiata: è tempo di riconoscerla.