Il fantasma di Mengele al Linus festival: tra fumetto, storia e memoria

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Il fumetto a tema storico ha la capacità di rendere tangibile il passato, di trasformare le ombre della memoria in immagini vivide, dettagliate, capaci di toccare le coscienze. Durante la terza edizione di Linus – Festival del fumetto ad Ascoli Piceno, un’interessante conversazione guidata dallo scrittore Sandro Veronesi (e che avrebbe meritato una più forte partecipazione) ha visto protagonista “La scomparsa di Josef Mengele“, adattamento a fumetti del grande successo del 2018 dello scrittore Olivier Guez, vincitore del Prix Renaudot. Una graphic novel che, grazie agli splendidi disegni di Jörg Mailliet e alla efficace e serrata sceneggiatura di Matz (l’unico assente), scandaglia una delle pagine più oscure del Novecento: la fuga e la vita in clandestinità del medico di Auschwitz, l’angelo della morte.

Josef Mengele fu uno dei più noti criminali nazisti, medico delle SS ad Auschwitz e responsabile di esperimenti disumani su prigionieri, in particolare su gemelli, bambini e persone con disabilità. Era ossessionato dalla genetica e dalle teorie razziste del Reich, e nel campo di sterminio operava con assoluta freddezza, selezionando personalmente chi dovesse morire nelle camere a gas e chi sarebbe stato sottoposto ai suoi esperimenti. Le sue ‘ricerche’ includevano mutilazioni, iniezioni di sostanze tossiche negli occhi per cambiarne il colore, sterilizzazioni forzate e amputazioni. Mengele agiva con un’arroganza e un sadismo impressionanti, convinto di stare portando avanti studi scientifici che avrebbero migliorato la razza ariana. Dopo la caduta del Reich, riuscì a fuggire dall’Europa grazie ai ratlines, le reti di fuga organizzate da settori compiacenti della Chiesa cattolica e da ex nazisti, trovando rifugio in Sudamerica.

Foto dal profilo di Elisabetta Sgarbi

L’Argentina di Perón è benevola e sembra che il mondo voglia dimenticare i crimini nazisti. Ma c’è chi ricorda, la caccia riprende e Mengele deve scappare in Paraguay e poi in Brasile. La sua latitanza è stata resa possibile grazie a una fitta rete di protezione. “La sua fuga non fu un colpo di fortuna, ma il risultato di una rete strutturata, dove ex ufficiali delle SS, gerarchi in esilio e perfino uomini d’affari lo aiutarono a nascondersi” e persino funzionari corrotti che chiusero un occhio sulla sua vera identità. Nel 1956 riuscì persino a ottenere un passaporto tedesco a suo nome, senza che le autorità tedesche battessero ciglio, un segnale inquietante della continuità di certe complicità postbelliche. Il Mossad israeliano lo aveva individuato più volte, ma non lo considerava una priorità rispetto alla minaccia araba. L’intelligence tedesca, dal canto suo, era piena di ex nazisti che non avevano alcun interesse a braccarlo davvero. Gli americani, poi, erano concentrati sulla Guerra Fredda e non consideravano la caccia ai nazisti una priorità strategica.

Mengele riuscì a mantenere un tenore di vita sorprendentemente alto per un fuggitivo. Visse in case spaziose, si muoveva con discreta libertà e intratteneva rapporti con altri nazisti in fuga. Tra i suoi contatti vi erano Rodolfo Freude, uomo chiave nell’organizzazione della fuga dei gerarchi nazisti in Argentina, e Hans-Ulrich Rudel, pilota della Luftwaffe, ancora idolatrato dai circoli neonazisti. La sua protezione fu assicurata anche dai governi autoritari che vedevano in lui e nei suoi simili “tecnici” di valore, uomini da impiegare nel nuovo equilibrio della Guerra Fredda. “Non è solo il caso che molti dei criminali nazisti abbiano trovato rifugio in Sudamerica, ma è anche il risultato di una politica di complicità silenziosa”.

Uno degli aspetti più inquietanti della sua latitanza fu il suo senso di impunità. Mengele, nonostante fosse consapevole di essere ricercato, continuava a vivere con un senso di superiorità, come se la sua cattura fosse impossibile. Per decenni, non smise mai di considerarsi uno scienziato incompreso, perseguitato ingiustamente per aver compiuto studi che considerava scientificamente legittimi. Questa mentalità emerge chiaramente nelle lettere e nei diari che scrisse durante l’esilio, in cui si lamentava del trattamento ricevuto, della decadenza della Germania moderna e della viltà dei suoi ex compatrioti. “Era convinto di aver fatto il proprio dovere. Il mondo, per lui, si era solo dimostrato ingrato”.

La sua paranoia aumentò con il passare degli anni. Si sentiva accerchiato, tormentato dall’idea di essere catturato. Le sue condizioni di salute peggiorarono e morì annegato nel 1979, colpito da un ictus mentre nuotava. La sua famiglia, ancora potente in Germania, riuscì a occultare la notizia per anni, mantenendo il mito della sua possibile sopravvivenza. Solo nel 1985 le autorità brasiliane identificarono il suo cadavere. Il suo nome era diventato leggenda, con voci che l’avevano voluto ovunque: in Uruguay, in Cile, persino a Miami. Questa mitizzazione aveva contribuito a rendere la sua cattura ancora più difficile, ma ha anche fatto sì che la memoria storica si sia persa tra finzione e realtà.

Il rapporto tra storia e fumetto è stato un tema centrale della discussione. La graphic novel ha un potere evocativo che spesso manca nei testi accademici: non si limita a informare, ma coinvolge emotivamente il lettore. “Non è solo una questione di raccontare la storia, ma di farla sentire. Il fumetto permette di immergere il lettore in un’esperienza visiva che lo costringe a confrontarsi con la realtà in modo diverso”. Questo è particolarmente vero in questo caso, dove le immagini restituiscono la tensione, il senso di paranoia e l’orrore.

Foto dal profilo di Elisabetta Sgarbi

L’arte e il fumetto condividono la capacità di raccontare la storia in modo viscerale. Si è parlato infatti del ruolo del disegno nella costruzione dell’immaginario storico. L’uso del tratto, della luce e del colore non è mai casuale: ogni scelta stilistica contribuisce a rafforzare il messaggio. “Abbiamo giocato molto sulle ombre, sullo spazio, sulle proporzioni. Il modo in cui si disegna un volto può cambiare radicalmente la percezione di un personaggio”. In questo fumetto, l’uso del bianco e nero accentua il contrasto tra luce e tenebra, riflettendo l’ambiguità morale del protagonista, mentre scelte cromatiche mirate nelle sequenze oniriche amplificano la sensazione di angoscia e paranoia del fuggitivo, insieme a inquadrature claustrofobiche, linee spezzate e prospettive deformate. “L’uso del colore, quando presente, diventa una forza narrativa: nei momenti di crisi, toni freddi accentuano il senso di isolamento, mentre in altre scene, colori saturi esprimono il dolore e il fervore del passato”. E poi abbiamo voluto utilizzare il bianco e nero per evocare il contrasto tra luce e ombra, simbolo delle doppie facce della storia e della natura ambivalente del potere”.

Il rapporto tra il fumetto e la narrazione storica va ben oltre la mera rappresentazione dei fatti. “Il fumetto ci offre una prospettiva unica, dove ogni tratto, ogni ombra, racconta una storia. È un mezzo che trasforma la fredda documentazione in un’esperienza emotiva, in grado di scuotere anche il lettore più distaccato”. Esso non è, quindi, “solo un’illustrazione della storia, ma un mezzo per reinterpretarla, per darle nuova vita”. Il fumetto diventa così uno strumento per fare i conti col passato, per mettere in discussione i miti consolidati e per esporre le verità che la storiografia ufficiale spesso trascura. Raccontare il passato, infatti, non significa solo riportare fatti, ma interpretarli, connettere documenti e testimonianze per dare loro un senso. “Fare storia è come costruire un puzzle, ma molte tessere sono mancanti. Bisogna ricostruire con attenzione, senza inventare, ma anche senza censurare”.

“Il passato non è mai neutrale; ogni forma di narrazione, dal saggio alla graphic novel, partecipa alla costruzione della nostra identità collettiva”. Fare i conti col passato, dunque, significa riconoscere e denunciare non solo gli orrori commessi, ma anche la complicità che ha permesso a questi orrori di essere sepolti, per poi riemergere sotto forme revisioniste. “Il passato non si cancella e, se non facciamo i conti con esso, per quanto sia doloroso, i fantasmi torneranno a perseguitarci”.

Foto dal profilo di Elisabetta Sgarbi

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