foto di Andrea Vagnoni
“Chi chiamare per un evento importante ad Ascoli?” “Ce l’ho io il nome, speriamo solo ci dia la disponibilità!”. Così è nato “Dazi, missili e moneta: il prezzo del disordine mondiale”, un evento di Ascoli Bene Comune, lista civica rappresentata in Consiglio comunale da Gregorio Cappelli. A lui, dopo il suo saluto e i doverosi ringraziamenti alla libreria Rinascita e a Daniela Albertini per l’organizzazione, l’onore di presentare il nome che abbiamo fortemente voluto: Marco Veronese Passarella, professore di politica economica all’università dell’Aquila e ricercatore senior (visiting) in economia presso la Leeds University Business School, oltre a tanto altro in giro per l’Italia e il mondo.
Alle quattro di pomeriggio di un sabato stranamente soleggiato di questo maggio, la sala si riempie. Senza nemmeno un manifesto stampato, con un semplice tam tam dai social. Il tema è di strettissima attualità dopo le ultime dichiarazioni del presidente Usa Donald Trump, ma al contempo la materia è molto tecnica: “ho tentennato, pensavo non fosse adatta a me, ma invece sarei rimasta ancora a lungo ad ascoltare” esclamerà una ragazza alla fine, fra mormorii d’approvazione mentre si formano una serie di capannelli che aspettano il loro turno per complimentarsi con l’ospite.


L’Atene classica, l’impero romano e gli Usa: un’introduzione
Io, in rappresentanza di Ithaca (media partner dell’evento), ho introdotto il pomeriggio, partendo da un recente articolo di Pino Arlacchi, sociologo, politico, già vicesegretario dell’ONU e per decenni una delle voci più autorevoli in tema di sicurezza umana. Il suo invito è quello di andare oltre la narrazione occidentale, non cedendo alla tentazione di proiettare il nostro disastro sull’intero pianeta. Non tutto il mondo sta bruciando. Gaza e l’Ucraina sono tragedie autentiche, ma sono prodotti specifici dell’Occidente. Il resto del mondo le osserva con sconcerto, ma non le riconosce come parte della propria traiettoria. Perché il resto del mondo — quello che Arlacchi chiama il Grande Sud, o “mondo non-occidentale” — sta conoscendo un’espansione silenziosa, ma epocale. Socioeconomica, culturale, perfino etico-politica. Una trasformazione che ha preso forma già nel secondo dopoguerra, ma che si è accelerata con la fine della Guerra fredda.
I numeri parlano chiaro: secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program, i conflitti armati tra Stati sono crollati dell’80% tra gli anni ’80 e il 2023. Anche le guerre civili e le morti civili sono in drastico calo. Il Peace Research Institute di Oslo stima che le vittime annuali di guerra siano passate da 500.000 negli anni Ottanta a circa 100.000 oggi — nonostante la popolazione globale sia raddoppiata. In Africa, le vittime civili sono diminuite del 70% rispetto ai picchi degli anni ’90. E nell’85% del pianeta il personale militare è in calo da decenni, così come le spese militari rispetti al Pil (tranne che negli ultimi tre anni nei soli Paesi Nato).
Arlacchi propone qui una tesi controcorrente: “Forse, è la paura di un mondo multipolare – dove l’Europa e gli Usa non dettano più le regole – ad alimentare il mito tenace di un pianeta in fiamme. E a scoraggiare la speranza in un mondo più decente”.


A raccogliere e sviluppare questo filo critico è anche Emmanuel Todd, storico, demografo e antropologo francese, noto per aver previsto per primo — e con anni di anticipo — il crollo dell’Unione Sovietica e la crisi del 2008. Todd affida a una comparazione storica la sua chiave interpretativa: quella tra gli Stati Uniti contemporanei e due antichi imperi, Atene e Roma. Una doppia genealogia che serve a illuminare, per analogia, il destino possibile dell’egemone americano.
Chi ama gli Stati Uniti, ci dice Todd, tende a paragonarli ad Atene: potenza navale e culturale, espansione come leadership “democratica” all’interno della Lega di Delo. Un sistema d’alleanza volontario e di autodifesa contro la temuta Persia: una sorta di proto-NATO ante litteram.
Ma proprio come Atene, anche l’America ha conosciuto la corruzione di quel sistema. La Lega di Delo si trasforma in egemonia, poi in dominio imperiale. I contributi volontari diventano tributi, il tesoro comune viene usato per arricchire Atene stessa. La democrazia si svuota mentre il potere si centralizza. E qui, la parabola si fa inquietantemente attuale.
Dopo il 1989, senza più un nemico strutturale (la “Persia” sovietica), gli Stati Uniti entrano in una fase imperiale paradossale: un impero senza scopo, che simula lo scontro per legittimarsi, ma senza un avversario paritario. La macchina militare americana — costosissima, ma non più strategicamente efficace — sembra ripetere i rituali dell’egemonia più per inerzia che per necessità.
In questa fase, secondo Todd, gli USA somigliano sempre più non solo ad Atene ma a Roma: impero predatorio, dove le ricchezze vengono estratte dalla periferia per sostenere il centro. L’economia si sconnette dalla realtà produttiva e il benessere dipende sempre più da meccanismi di estrazione e redistribuzione clientelare. La plebe viene nutrita e distratta con fatica crescente, mentre le classi medie si assottigliano e la distanza tra una plutocrazia ricchissima e una massa proletarizzata si allarga. Droghe, malessere psichico, crollo della fiducia: la crisi americana di oggi è anche sociale e morale.
Dal punto di vista della salute pubblica, il declino è clamoroso: aspettativa di vita più bassa che in Europa, mortalità infantile in aumento, addirittura superiore a quella di Russia e Bielorussia. Sul piano produttivo, gli Stati Uniti non reggono più il mito di potenza industriale: mancano ingegneri, tecnici, operai. La loro forza lavoro è sbilanciata su settori astratti (finanza, diritto) e non sa più sostenere il protezionismo che ora si invoca. Il PIL stesso, afferma Todd, è sempre più una costruzione contabile, basata su valori fittizi e servizi intangibili. Non producono ciò che consumano, e sopravvivono solo finché il mondo accetta il dollaro come moneta di scambio globale.
In questo contesto, la guerra in Ucraina segna, secondo Todd, “la più grande umiliazione della storia americana”. Non è la Russia a vincere — è l’America a perdere se stessa. Le sanzioni non hanno abbattuto Mosca, che ha anzi rafforzato coesione interna e capacità di produzione. Gli Stati Uniti, al contrario, si mostrano incapaci di vincere sul piano militare, economico e politico.
Il paradosso finale è che, nel momento del massimo declino, l’America si fa più aggressiva. Minaccia, rivendica, prova a rilanciare piani di controllo su Canada, Groenlandia, Panama. Nulla di nuovo, se si guarda alla sostanza: queste aree sono già nella sua sfera. Ma è il tono che cambia: “una volontà di umiliazione degli alleati che rivela una crisi d’identità. È l’impero che, sentendosi morire, si agita, minaccia e colpisce”.
USA vs. CINA: una transizione egomonica?

A parlare ora è Marco Veronese Passarella. Si alza in piedi, apre le sue colorate slide piene di immagini, grafici, curve e numeri. “Sono abituato così con i miei studenti. Niente microfono”. Il suo stile è inconfondibile: capelli lunghi, barba, tatuaggi, maglietta verde, jeans a zampa e scarpa di cuoio: “Volevo una maglietta da fricchettone, ma mia moglie me l’ha impedito”. Ce l’aveva detto prima di iniziare: “La bellezza di aver raggiunto una certa posizione accademica, ora si può essere liberi”.
Prima o poi, quando una potenza egemone (e nella storia ce ne sono state varie) entra in crisi, l’ordine mondiale inizia a cambiare.
L’ultima grande crisi epocale, l’avevamo avuta tra le due guerre mondiali. Lì entra in crisi l’Impero britannico, che aveva dominato dalla metà del ‘700 — forse anche dai primi decenni del ‘700 — fino alla prima metà del ‘900. “E tra le due guerre, se ci pensate, succede letteralmente di tutto: non solo due conflitti mondiali, ma anche la rivoluzione russa, la radicalizzazione dei partiti socialisti, la fondazione del Partito Comunista in Italia, la crisi del ’29 e la Grande Depressione, l’ascesa del fascismo e del nazismo, la crisi del sistema monetario internazionale fondato sull’oro e sulla sterlina — il cosiddetto ‘gold standard’ — che salta in aria”. Insomma, “tra le due guerre sembra che tutte le profezie di Marx si stiano avverando, tutte insieme. E ciò coincide con la crisi dell’ultima grande potenza egemone prima dell’epoca americana”.
Eppure, “non basta che una potenza egemone entri in crisi perché vi sia una transizione imperiale: bisogna anche che emergano nuove potenze. Tornando a quegli anni, l’altra potenza che si affacciava sulla scena era la Germania, che ci provò due volte a diventare egemone. Non sto dicendo che non vi fossero responsabilità anche di Francia o Regno Unito — anzi, forse le principali responsabilità sono proprio britanniche. Ma certamente la Germania, assieme agli Stati Uniti, aspirava a rovesciare, o almeno ridimensionare, l’egemonia britannica”.

Gli Stati Uniti da allora hanno dominato. “Hanno dominato almeno fino agli anni 2000, forse anche fino all’inizio degli anni 2010. Ancora in quel decennio, nessun’altra potenza era davvero in grado di mettere in discussione la loro egemonia. Tuttavia, da alcuni anni assistiamo a segnali che possono essere interpretati come scricchiolii. E assistiamo anche all’emergere di altre potenze che, magari non subito, ma in futuro, potrebbero sostituirli”.

Ora, per capire se le cose stiano davvero così, dobbiamo guardare ai “cinque pilastri su cui storicamente le potenze imperiali hanno costruito la propria egemonia”. E quali sono questi cinque pilastri?
- Il pilastro economico: la potenza egemone è di solito anche la potenza economica dominante. Gli Stati Uniti lo sono stati a lungo. Ma oggi? In termini nominali (Pil in dollari), gli USA sono ancora in testa. Ma se correggiamo il dato per la parità di potere d’acquisto (cioè il diverso costo della vita nei vari paesi), vediamo che la Cina ha già superato gli Stati Uniti. È anche la prima potenza manifatturiera, la prima nella produzione di acciaio, e ha tassi di crescita economica ben superiori. In sintesi: sul piano economico, la Cina è già da qualche anno la prima potenza mondiale.
- Il pilastro culturale e politico: qui gli Stati Uniti hanno dominato grazie a Hollywood, alla musica, al soft power. Ma oggi? Il declino è evidente, “ve lo mostro con un’immagine”. Da una parte l’assalto a Capitol Hill, dall’altra il compostissimo congresso del partito comunista cinese. “E ve lo dice uno che è il sottoprodotto di quella cultura. Questo ragazzo [quello con copricapo ormai iconico, ndr] è esattamente più o meno come me. Io volevo venire conciato così. E poi ci sono altri segnali, come l’abuso di oppiacei (50 volte più morti per overdose rispetto all’Italia) e le infrastrutture: “Gli Stati Uniti hanno quattro ferrovie scassate, con i treni che deragliano. Notate solo l’alta velocità in Cina: tra il 2008 e il 2020 hanno costruito linee che viaggiano a 400 km/h. Poi ci sono i treni a levitazione magnetica che viaggiano nel sottosuolo. Negli Stati Uniti, invece, hanno ancora i treni quelli assaltati, come carovane del Far West, quelle robe lì. New York è bellissima per andare a vedere i luoghi dei telefilm anni ’80, ma se volete la post–modernità, dovete andare in Cina”.
- Il pilastro tecnologico e scientifico: la Cina ha ormai superato gli USA per numero di articoli pubblicati in ambito scientifico, in particolare si pensi alla fisica, robotica, intelligenza artificiale. Ha anche la quota maggiore di laureati in discipline STEM. Inoltre, è diventata il primo esportatore mondiale di prodotti ad alto contenuto tecnologico, “altro che magliette!”. E l’Europa? “Se gli Usa sono dietro alla Cina, noi non siamo proprio pervenuti”.
- Il pilastro militare: gli Stati Uniti restano la prima potenza mondiale per spesa militare e basi sparse per il mondo. “Ma… quando è stata l’ultima guerra vinta davvero? Per soffocare il colpo di Stato sull’isola di Grenada nel 1983… un po’ poco”. In Vietnam e Afghanistan sono fuggiti. In Siria hanno dato fastidio ai russi, ma senza aver vinto, con un controllo del territorio ormai frammentato. Anche qui, dunque, c’è una potenza nominale che fatica a tradursi in dominio effettivo.
- Il pilastro monetario: qui il dollaro è ancora dominante. È la valuta principale nelle riserve delle banche centrali, nei mercati valutari e per gli scambi internazionali (es. petrolio). Ma anche qui ci sono scricchiolii. “In particolare, quello che trovo un gigantesco errore dal punto di vista del loro stesso interesse, c’è il fatto di aver iniziato a usare il dollaro come arma”: con le sanzioni, le esclusioni dal sistema di pagamento internazionale SWIFT, con il congelamento o confisca delle riserve valutarie russe: “Mostrano pure che gli espropri si possono fare, quando si vuole!”. Questo mina la fiducia internazionale. E, infatti, Cina e Russia stanno sperimentando alternative (come le criptovalute, scambi in monete nazionali).

In questo quadro si inserisce Donald Trump. Trump propone una nuova (o vecchia) strategia: un ritorno all’isolazionismo, al protezionismo. Mostra tabelle con squilibri commerciali e propone dazi proporzionati. Secondo la sua logica, se un paese esporta più di quanto importa dagli USA, significa che sta imponendo un dazio implicito, e quindi gli USA devono rispondere con un dazio equivalente. È una logica semplicistica, ma efficace nella retorica.
Anche Biden, paradossalmente, ha confermato e in certi casi ampliato le misure protezionistiche del primo mandato di Trump, giustificandole con motivazioni valoriali (diritti, ambiente, sicurezza). Ma la sostanza non cambia: la politica commerciale USA si sta orientando da tempo verso il protezionismo.
Le conseguenze? I paesi più colpiti sono quelli legati alle esportazioni: Germania (auto e macchinari), Olanda (porti e logistica), Italia (manifatturiero senza politica industriale). L’Unione europea, già assente nei settori tecnologici chiave, subisce il colpo senza avere un piano. È il prezzo di un modello economico basato sull’export, agganciato alla domanda altrui, mentre gli Stati Uniti tornano a fare ciò che sanno fare: proteggere i propri interessi, anche a costo di spaccare il sistema globale.
In conclusione: Trump rappresenta una fase nuova, ma anche antica, del capitalismo americano. È il ritorno al “prodotto core” — come un’azienda che smette di diversificare per tornare al proprio prodotto storico. La mia sensazione è che Trump voglia tornare a una logica di zone d’influenza. La Cina si prende il Pacifico, la Russia si prende l’Est Europa, l’Ucraina compresa, e gli Stati Uniti consolidano il loro controllo nell’emisfero occidentale. È una ritirata strategica: ognuno torna a casa propria, si rafforza nel proprio spazio e si prepara alla prossima sfida. Una logica più simile a quella della Guerra fredda.
Questa ritirata strategica non è necessariamente una sconfitta: è un riassetto in vista di una futura competizione multipolare. Ma l’egemonia americana, per come l’abbiamo conosciuta, sembra davvero al tramonto.
Il tempo è finito, sono quasi le sei di pomeriggio, la sale deve essere preparata per un altro evento. Riusciamo a far rispondere a qualche domanda.

I Brics possono essere una speranza per il futuro? “Il punto è capire se riescano davvero a costruire un sistema coerente, perché al loro interno ci sono profonde divergenze (pensiamo recentemente a India e Pakistan). Perché la Cina possa guidare questo blocco di Paesi, e quindi ci sia un passaggio di egemonia, ci vorrà del tempo. La Cina, infatti, ragiona su orizzonti di lungo periodo”. Come ci ricorda la celebre frase attribuita a Zhou Enlai “La rivoluzione francese? Troppo presto per formulare un giudizio!”. La strategia cinese non punta all’imposizione militare, ma alla costruzione progressiva di relazioni economiche e commerciali.

Sulla guerra in Ucraina? “Io ho un’opinione abbastanza netta, e parto da un presupposto: se metti basi militari sotto casa di una grande potenza, quella reagisce”. È successo con Cuba nel ’62, ed era perfettamente logico. Allo stesso modo, la Russia ha percepito l’avvicinamento dell’Ucraina alla NATO come una minaccia esistenziale. La guerra in Ucraina era prevedibile. Questo non giustifica nulla, ma lo rende comprensibile. Già nel 2014, studiosi come John Mearsheimer, il massimo studioso di geopolitica di scuola realista, l’avevano preannunciato. Zelensky, inizialmente con una posizione di mediazione, ha ereditato una Costituzione che mirava all’adesione alla NATO.
Una possibile soluzione? Neutralità ucraina, autonomia per le regioni separatiste e cessione della Crimea alla Russia, storicamente legata a Mosca. Gli accordi di Minsk del 2014-2015, ispirati al modello sudtirolese come ha detto Angela Merkel, potrebbero essere ripresi. Ma l’Occidente deve accettare che l’Ucraina non sarà mai un avamposto NATO.
E le sanzioni? Aggirate: l’India compra petrolio russo, l’Europa esporta in Kirghizistan per poi riesportare in Russia. La guerra arricchisce le industrie belliche, ma logora tutti. L’unica via è negoziare, prima che un incidente diplomatico scateni l’impensabile.
”Ultima cosa: dobbiamo smettere di pensare in termini morali. Non è questione di chi ha ragione o torto. È una questione di potere, di interessi, di rapporti di forza. Se continuiamo a guardare la geopolitica con le lenti dell’etica, finiamo per non capirci nulla”.

E quale speranza per il futuro? “Il problema è che in società guidate dal profitto, le proposte passano solo se sono profittevoli per i gruppi dominanti. Il cambiamento radicale richiede rapporti di forza politici che oggi non esistono. Possiamo proporre misure come standard globali sulla qualità del lavoro, ma senza sostegno politico, restano utopie”.
La speranza? Viene da fuori: l’Africa si emancipa dal colonialismo, la Cina riduce le disuguaglianze e le emissioni. Ma in Europa e negli Stati Uniti, dominano logiche regressive. L’unica nota positiva è che niente è eterno: ciò che secoli fa non esisteva, un giorno potrebbe crollare. Ma oggi mancano le condizioni. “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, diceva qualcuno”. Ma non tutto è perduto: shock globali potrebbero alterare gli equilibri. Intanto, possiamo lottare per valori come l’uguaglianza, sapendo che i risultati dipendono dai rapporti di forza.

E, ora, spazio a un aperitivo in piazza e poi cena di autofinanziamento. Tanta partecipazione, tanta voglia di esserci e continuare a dire la propria da parte delle persone. Ci lasciamo a tarda sera con un: “Ascoli è bellissima, torneremo con piacere”; salutiamo Marco Veronese Passarella, con sua moglie Marica Grego e la figlia Alice. E noi di Ithaca siamo pronti per nuovi eventi per dare un segno diverso alla città, come il Festival dell’antifascismo.
