Dietro il delitto Moro: la logica della Guerra Fredda e il sogno infranto del compromesso storico

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Paese Alto di Grottammare. Un fresco pomeriggio domenicale della tarda primavera di quest’anno. Un raro giorno di sole, ma la sala è piena. E la ragione è semplice: un appuntamento eccezionale per la chiusura della rassegna “I Conti con la Storia”, un ciclo di incontri che prova a chiudere i conti – o almeno a farli – con le ombre lunghe del nostro passato recente. Al centro c’è il libro “Il caso Moro tra politica e storia”, firmato da Claudio Signorile, ex vicesegretario del Partito Socialista Italiano (PSI), e Simona Colarizi, una delle voci più autorevoli della storiografia italiana sul secondo Novecento. A moderare e tenere le fila dell’incontro, Giovanni Cerchia, docente e studioso del socialismo italiano e delle dinamiche della memoria pubblica.

Si parte con i saluti di rito: Costantino Di Sante, curatore della rassegna e poi Lorenzo Rossi, vicesindaco e assessore comunale alla Crescita culturale e accoglienza turistica, a rappresentare un’Amministrazione che, con grande sensibilità, promuove l’iniziativa nell’ambito della programmazione culturale del territorio firmata insieme all’Amat, con il supporto operativo dell’associazione Blow Up e della Libreria Nave Cervo.
Il professor Cerchia imposta il dialogo in tre sezioni, rispecchiando l’architettura del libro: la collocazione dell’Italia come “frontiera” della Guerra Fredda, la travagliata transizione politica degli anni Settanta, e infine – come punto di convergenza e detonazione – il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.

L’Italia come frontiera della Guerra Fredda
Il professor Cerchia imposta il dialogo in tre sezioni, rispecchiando l’architettura del libro: la collocazione dell’Italia come “frontiera” della Guerra Fredda, la travagliata transizione politica degli anni Settanta, e infine – come punto di convergenza e detonazione – il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro.

Inizia Colarizi, con uno straordinario garbo nei modi e nell’eloquio nel silenzio tombale dell’uditorio (che sarà rotto di tanto in tanto da commenti sulle questioni toccate), ed evidenzia come oggi “l’abbiamo capito con dolore, rispetto a quello che sta avvenendo: le potenze contano. E le potenze – com’è noto – si sono spartite il mondo alla fine della Seconda guerra mondiale, in quella strana alleanza tra le democrazie occidentali (cioè Stati Uniti e Gran Bretagna) e l’Unione Sovietica. Un’alleanza, teoricamente, del tutto impropria, tra due sistemi politici, tra due visioni del mondo totalmente diverse. Eppure, si sono alleate per combattere” il nazifascismo.

Viene stabilita “una frontiera geopolitica a Teheran, ribadita a Yalta, e poi ancora riaffermata con forza negli incontri successivi tra le potenze vincitrici. E l’Italia, nella spartizione tra le potenze, viene assegnata agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, le potenze che hanno materialmente occupato il Paese”. Ma c’è anche “una frontiera politica, perché in Italia si confrontano due grandi partiti politici che si dividono in pratica l’elettorato”.

Infatti, “nel 1975 – quindi tre anni prima del sequestro Moro – la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano (PCI) raccoglievano insieme il 75% dell’elettorato. Era, in pratica, una forma di bipartitismo, per quanto imperfetto. Ma era imperfetto perché il Partito comunista non era autorizzato a governare un paese democratico. Perché? Perché si temeva, ovviamente, un cambio di alleanze, e questo avrebbe destabilizzato l’equilibrio internazionale determinato dalla Guerra Fredda. E questo non era consentito nel pieno della Guerra Fredda”.

Al governo non era possibile che andasse “un partito nemico, cioè legato a una potenza ostile. Il PCI non aveva mai rotto quel legame con Mosca: lo aveva allentato, si era parzialmente distaccato dall’Unione Sovietica, aveva compiuto molti passi avanti in quella direzione, ma non lo aveva mai veramente reciso. Non a caso, il legame con l’Unione Sovietica si rompe solo con la caduta del Muro di Berlino”.

Però “c’erano due protagonisti della politica italiana, Moro e Berlinguer, che avevano imboccato la strada del compromesso storico, e che volevano governare insieme, almeno le emergenze. Si erano stretti in un’alleanza, convinti che qualcosa potesse cambiare.
Perché? Intanto, erano passati molti anni dalla fine della guerra. E poi c’era stato un accordo nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. C’erano stati gli incontri di Helsinki, e negli USA c’era Jimmy Carter come presidente. Tutti segnali che facevano pensare che forse qualcosa, nel sistema delle alleanze internazionali, poteva davvero cambiare”
.

La meccanica del potere e il controllo internazionale
Se Colarizi ha delineato il quadro ideologico e internazionale, Signorile entra nel vivo nei meccanismi: “Bisogna essere molto chiari: non si tratta solo di una geopolitica astratta, o della semplice riconduzione della realtà italiana entro equilibri internazionali autonomi. No. Quello in cui ci troviamo è l’applicazione concreta di un sistema di rapporti di potere. Una vera e propria spartizione del mondo, e noi ci trovavamo proprio in uno dei punti nevralgici di quella spartizione”.

Infatti, “non era solo la classe politica italiana a farsi carico, attraverso intese e mediazioni, del mantenimento degli equilibri di Yalta. C’era un sistema organizzato, strutturato, politico-militare, di intelligence, che accompagnava tutto questo. Un vero e proprio sistema organizzato di controllo, che ha operato dalla fine della guerra mondiale fino agli anni Settanta, controllando, verificando, e, in qualche modo, riservandosi la possibilità di intervenire. Interventi talvolta soft, talvolta duri, ma sempre mirati a garantire che l’equilibrio di Yalta non fosse messo in discussione.
Lo stesso Partito Comunista Italiano fa, a suo tempo, la scelta togliattiana della democrazia progressiva. La scelta del partito nazionale popolare. Era un sistema che si reggeva su garanzie reciproche. Pensiamo al caso di Pietro Secchia, dirigente importantissimo per le relazioni internazionali del PCI, figura di spicco per la sua presenza sul territorio e capacità organizzativa. Ebbene, proprio per certe sue posizioni troppo pericolose, fu emarginato, eliminato dal gruppo dirigente del partito. Quindi, un partito comunista che accetta limiti, che decide deliberatamente di non oltrepassare certe soglie nella propria organizzazione del consenso. Perché – e questo è importante – il PCI partecipava alla vita democratica del paese, sì, ma non in maniera vulcanica, non con il massimo della forza. Lo faceva indirettamente: attraverso gli enti locali, i sindacati, l’economia reale. Ma sempre senza mettere in discussione l’equilibrio complessivo”
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Tutto il Mediterraneo, in particolare “era affidato a una struttura di coordinamento militare e strategico. L’Europa del Sud, il Mediterraneo, dovevano restare nell’ambito della compatibilità atlantica”. E negli ultimi cinquant’anni, “abbiamo avuto una lettura della politica che si è sviluppata in superficie, nei giornali, nell’opinione pubblica, nelle elezioni, nel dibattito parlamentare. Ma dietro questa superficie c’era un altro livello, più complesso, difficile, pericoloso: un sistema di condizionamento politico. Da un lato definiva vincoli e limiti, e dall’altro manteneva lo stato di incertezza, di provvisorietà. Un sistema segnato da una serie di azioni eversive, regolari o irregolari: assassini, stragi, operazioni coperte, direttamente o indirettamente legate alle vicende politiche”. Occorre leggere quegli anni – tra la fine della guerra e la fine degli anni Settanta “come anni in cui la tensione era mantenuta sotto sorveglianza, ma anche costantemente agitata, in stato di instabilità.
Moro e Berlinguer sapevano bene dove stavano mettendo le mani. Avevano chiara la realtà politica nella quale si stavano muovendo”
. C’erano dei limiti ben precisi, che “miravano a una cosa sola: impedire che il Partito Comunista Italiano superasse una certa soglia di influenza. La sua crescita elettorale rappresentava una minaccia. E allora il sistema – il sistema di potere, il sistema internazionale, il sistema delle intese – doveva intervenire. Doveva farsi carico di contenere.
Ed è dentro questo scenario che va collocato il Caso Moro. Perché? Perché Aldo Moro incarnava un processo che stava diventando possibile. Che stava diventando credibile. Ma che, proprio per questo, non poteva essere tollerato da chi riteneva che l’equilibrio uscito dalla guerra non dovesse essere minimamente scalfito”
.

Il compromesso storico e l’assassinio politico
“Il compromesso storico – così come lo intendevano Moro e Berlinguer – non era una semplice alleanza parlamentare. Era una dichiarazione di intenti, un atto profondo, che mirava a definire un quadro di valori non antagonisti, dentro cui tutte le forze politiche potessero esprimersi pienamente. Un modo per dire: ‘questo è un paese che può costruire una progettualità comune’, un sistema valoriale condiviso, capace di dare respiro e credibilità alle forze che lo compongono. Questo è il senso profondo del compromesso storico: non era l’unione dei contrari, era la costruzione di un campo comune, dove maggioranza e opposizione potessero riconoscersi.
La grande maggioranza delle riforme di quegli anni veniva approvata con l’appoggio del PCI, o almeno senza il suo ostacolo. E lo dico con orgoglio: il ruolo dei socialisti in questa fase è stato fondamentale. Perché la costruzione della progettualità concreta, la possibilità di tradurre in leggi le aspirazioni comuni, è passata anche e soprattutto attraverso il nostro lavoro. Un lavoro di mediazione, di sintesi, di cucitura. E i risultati si sono visti: crescita economica, pacificazione sociale, stabilità. Ma poi c’è stato un passaggio successivo.
Moro – e qui lo dico anche per la mia conoscenza personale, il mio rapporto diretto con lui – era convinto che si potesse aprire una stagione nuova. Una stagione in cui l’alternanza fosse possibile. Non necessaria, non scontata, ma possibile. Questa era l’idea: superare finalmente la conventio ad excludendum, cioè l’esclusione del PCI dal governo per principio. E passare a una fase in cui la governabilità non dipendesse più da chi stava fuori, ma si aprisse davvero a tutte le forze democratiche del paese. Questa era l’idea che Moro coltivava. E attenzione: non era solo teoria. Perché l’accordo – e lo dico con chiarezza – era già stato raggiunto. Un giorno prima della sua scomparsa, c’era un’intesa per l’ingresso del PCI nel governo di solidarietà nazionale. Non parliamo ancora di ministeri chiave come la Difesa o gli Interni, no. Parliamo di ministeri importanti ma non strategici: la Sanità, il Lavoro, la Previdenza. Ma comunque, era l’ingresso nel governo, era la rottura di un tabù. E questa cosa, credetemi, era stata capita da tutti. Così bene che, dopo la morte di Moro, l’unità nazionale prosegue per un altro anno.
Ora, immaginatevi cosa significava questo per chi aveva il compito di garantire gli equilibri di Yalta. Per chi non voleva che il più grande partito comunista dell’Occidente entrasse nel governo del paese più importante del Mediterraneo, paese chiave dell’Alleanza Atlantica.
Capite ora perché il Caso Moro è un caso politico, un vero assassinio politico. Perché Moro stava rendendo possibile ciò che non doveva essere possibile. E qualcuno, evidentemente, ha deciso che doveva finire lì”
.

La Francia e l’eurocomunismo: un confronto impossibile?
Cerchia pone ora a Signorile una domanda che riguarda la Francia nel 1981, con l’elezione di Mitterrand e l’ingresso del Partito Comunista nel governo. E lui risponde con una battuta: “La Francia? Beh… ma c’ha la bomba!”. E Colarizi lo completa subito: “E non sta nella NATO [era uscita dal comando integrato, ndr]! Il discorso francese è un altro: hanno un sistema presidenziale, e soprattutto hanno vinto la guerra. Sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU… e questo, insomma, conta parecchio!”. Colarizi prosegue poi sul tema dell’esperienza francese: “Quando nel 1973 comincia il programma comune tra il Partito Comunista Francese e i socialisti di Mitterrand, il PS era al 5%. Il PCF al 20. Ma nel 1981 Mitterrand vince, e il PCF a poco a poco si dissolve. Questo è fondamentale per capire perché l’eurocomunismo – il tentativo di Berlinguer di proporre un modello autonomo e democratico di comunismo in Europa – scatenò la reazione sovietica. Tutti gli studiosi del comunismo internazionale lo riconoscono: l’eurocomunismo fu la prima causa dell’irrigidimento di Mosca nei confronti di Berlinguer”.

Cerchia rilancia: “Nel libro voi parlate anche dell’attentato a Berlinguer in Bulgaria…”.
Colarizi annuisce: “Sì, c’è uno strano attentato a Berlinguer nel 1973, a Sofia. Sta tornando da un incontro col Partito Comunista Bulgaro, e un camion militare investe la sua auto. Muore l’interprete, Berlinguer si salva per miracolo. Lui lo tiene nascosto, lo racconterà Macaluso nel 1991, in una famosa intervista. Ma è chiaro a tutti che fu un tentativo di eliminazione fisica del segretario del PCI. È un messaggio: l’Unione Sovietica non tollerava l’inserimento del PCI nel sistema occidentale”.

Gli anni Settanta: tra riforme e terrorismo
A questo punto, Cerchia allarga lo sguardo, ponendo la questione del decennio ’70 come tempo di transizione profonda, attraversato da riforme democratiche e allo stesso tempo da violenze, tensioni, terrorismo.
Colarizi raccoglie la sollecitazione: “Sta cambiando tutto negli anni Settanta. È il momento della grande democratizzazione, è un paese che si muove, spinto dai movimenti, ma anche dalle riforme. Il codice di famiglia Rocco era ancora in vigore! Solo nel 1975 arrivano le prime grandi riforme sociali, il nuovo diritto di famiglia. Ci sono residui fascisti profondissimi, specie nella legislazione. In meno di quindici anni, l’Italia si libera finalmente di questi retaggi”.

Ma, avverte Colarizi, ogni avanzata ha un prezzo: “Questo non può non generare scompensi, malesseri, resistenze al cambiamento. E qui entra in gioco anche il terrorismo. Non dimentichiamolo: non è solo terrorismo italiano. È terrorismo internazionale. Comincia con le Olimpiadi di Monaco, con l’attacco ai ragazzi israeliani. E da lì… Medio Oriente, addestramenti, reti nere e rosse”.

Signorile concorda e aggiunge: “Terrorismo nero e rosso, e magari qualcosa dietro entrambi. Servizi. La NATO, certo. Ma anche il KGB. Il Mossad. È un mondo che cambia. Le potenze – USA e URSS – sembrano quasi aggrapparsi a un mondo che gli sfugge, cercando di fermare il corso della storia. C’è l’Afghanistan, la Polonia, gli ostaggi in Iran, la rivoluzione islamica… È la seconda Guerra Fredda. Ed è dentro questo quadro che avviene il caso Moro”.

Colarizi riprende il filo: “Negli anni Settanta crolla il paradigma fordista. Finisce la grande industrializzazione su cui si basava tutto: politica, economia, società. Con essa, finisce anche la stagione delle certezze. Il mondo keynesiano, il compromesso socialdemocratico… tutto viene travolto dallo shock petrolifero del 1973, dalla stagflazione, dalla crisi. E chi sono i primi a pagarne le conseguenze? I giovani laureati che per la prima volta non hanno più la certezza del lavoro. La prima generazione senza ascensore sociale. E allora sì, cresce il disagio. Ma cresce anche l’azione riformista. Lo ripeto: senza i partiti che legiferano, i movimenti non avrebbero trasformato nulla. E i partiti, pur bloccati, fanno moltissimo”.

Colarizi conclude con un passaggio chiave: “Il sistema italiano, però, è bloccato. Non ha un meccanismo di alternanza. La Democrazia Cristiana governa da trent’anni. Il Partito Comunista ha consenso, ma non può governare. È una democrazia senza alternanza, e questo è un problema strutturale. Da qui nasce l’idea di compromesso storico: portare alla luce del sole quella collaborazione consociativa sotterranea che già esisteva, e farne la base per una nuova governabilità”.

La riflessione finale: un assassinio politico
Signorile chiude l’incontro con una riflessione amara: “Il terrorismo, le stragi, le provocazioni, le reticenze… tutto ciò va letto come strumento per impedire che la transizione si compisse. Il delitto Moro non è solo un atto di violenza. È un assassinio politico, compiuto per fermare un processo. Un processo che, se portato a termine, avrebbe cambiato davvero il volto della Repubblica”.

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