Non è natura, è capitalismo: perché l’antispecismo è (anche) lotta di classe al Senza Tregua Fest

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Strage. Una parola netta, di cui diventare consapevoli. Una parola che non si riferisce a un passato lontano o a un conflitto armato, ma a un presente sistemico, ripetuto, istituzionalizzato. Ogni anno, 180 miliardi di animali vengono uccisi nel mondo. Una cifra che travalica l’immaginazione, eppure resta ai margini del discorso pubblico. Perché la sofferenza animale non fa notizia. Anzi, che viene dissimulata, mascherata da normalità, romanticizzata sotto forma di pubblicità di fattorie felici, mentre in realtà si tratta quasi sempre di allevamenti intensivi.
Nel secondo anno del Senza Tregua Fest, organizzato dal Fronte della Gioventù Comunista ad Ascoli Piceno, ha deciso di fare luce proprio su questo rimosso culturale. Lo ha fatto nel giardino di via Betuzio Barro, piccolo spazio verde e (per questa tre gioni) militante, accogliendo tra gli altri Dario Manni, attivista del Gruppo Antispecismo Politico (GAP), collettivo ecosocialista -molto attivo anche sui social- che da anni lavora per una giustizia animale e sociale integrata (noi scrivemmo lo scorso anno del filosofo Marco Maurizi a San Benedetto del Tronto).

Non parliamo di animalismo, che è una categoria tipicamente italiana. Parliamo di liberazione animale,” ha detto Manni. Ed è questa l’idea forte che attraversa tutto l’intervento del GAP: non si può pensare a una vera giustizia sociale se non si include anche la questione animale. Non come appendice, non come dettaglio. Ma come nodo strutturale di un sistema di sfruttamento capitalistico che, nella sua forma attuale, produce contemporaneamente sofferenza animale, devastazione ambientale e disuguaglianze umane.

Un po’ di numeri. “Una recente ricerca – ricorda Manni – stima in circa 600 euro pro capite il costo sanitario e ambientale annuale del consumo di carne e derivati. Parliamo di 36,6 miliardi di euro. E le emissioni climalteranti della zootecnia (in particolare, ricordiamo il pericoloso metano) superano persino quelle dell’intero settore dei trasporti”.

A partire da Peter Singer, uno dei primi a denunciare la continuità tra le discriminazioni – razziale, sessuale, di specie – la riflessione antispecista si è affinata. E oggi si intreccia in modo sempre più evidente con la critica anticapitalista. Non è un caso che Kohei Saito, tra i più attenti studiosi del Marx ecologista, abbia ricostruito come lo stesso Marx fosse inorridito dall’allevamento in stalla, dalla mercificazione dell’animale nella modernità industriale. Un elemento venduto all’epoca come progresso, tanto che i mattatoi di fine Ottocento si visitavano in famiglia, come simboli dell’efficienza urbana. E fu proprio Henry Ford, osservandone il funzionamento, a ideare la catena di montaggio.

Ma oggi i mattatoi non si vedono. Sono chiusi, nascosti, esclusi dallo spazio pubblico. Come se il sistema sapesse che, a determinate condizioni materiali, superare il confine di specie non è affatto impossibile. Basta mostrare. Basta pensare. Basta spostare lo sguardo. Ma per farlo serve lavoro culturale, consapevolezza, organizzazione politica. È qui che il GAP insiste: non bastano le scelte individuali, non basta il consumo critico. Anche il plant-based, se sussunto nella logica capitalistica, può perpetuare modelli insostenibili. Non è la carne in sé, ma la produzione per profitto il problema.

Da qui, il nodo teorico della fallacia naturalistica. Molto spesso, chi difende il consumo di prodotti animali lo fa invocando la natura: “è naturale”, “l’uomo ha sempre mangiato carne”, “è nella catena alimentare”. Ma questa è una fallacia logica, già evidenziata da David Hume: non si può dedurre un “dover essere” da un “essere”. Che una cosa accada in natura non significa che sia moralmente giusta. Il ricorso alla natura come giustificazione etica è un trucco retorico, potente ma infondato. La natura è piena anche di violenza, dominio, sopraffazione. Ma non è certo a questi valori che vogliamo ispirarci per costruire una società giusta.

E allora che fare? “Coscientizzazione, organizzazione, lotta per una società socialista”, risponde Manni. Una società dove la produzione non sia orientata al profitto, ma ai bisogni; dove il lavoro non sia alienato, ma condiviso; dove l’essere umano possa superare l’egemonia culturale dell’antropocentrismo. Perché solo il “nuovo uomo” di cui parla Marx, liberato dal feticismo della merce e dalla concorrenza perenne, può spingere l’altruismo oltre i confini di specie.

Anche laddove il confine è più sottile, più difficile da percepire. Pensiamo al caso dei cosiddetti frutti di mare o degli insetti. Singer, inizialmente, riteneva che potessero essere consumati, in quanto privi di sensibilità. Ma più avanti cambia idea, e introduce il principio di precauzione: “se anche solo esiste la possibilità che provino dolore, può essere giusto astenersi, se le condizioni materiali lo permettono”.

A fine incontro, dopo le domande, restano in molti a discutere con Dario Manni. Le sedie – spaiate, raccolte un po’ ovunque – raccontano più di una regia, un’intenzione: quella di una politica che si fa dal basso. C’è la pesca di autofinanziamento nell’angolo, a cui si affollano alcuni, e una partecipazione che colpisce: tanti giovani, ma anche qualche volto meno giovane, venuto ad ascoltare o forse a confermare un’intuizione.

Un’aria diversa, l’aria di una politicizzazione in atto, con tutte le sue sfide. Perché, come ha ricordato Manni, non basta definirsi antispecisti: serve precisare. L’antispecismo politico è altro rispetto all’antispecismo generico. È un’etica materialista, non moralistica. Non si accontenta di boicottare, ma punta a trasformare. Non pensa solo agli animali, ma all’intero sistema che li sfrutta. E vuole cambiare anche quello.

Una differenza che non sempre viene capita, e che talvolta incontra anche resistenze interne. Questa lotta non è di nicchia, ma di necessità.

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