“Non sono un ciclista. Non sono un atleta. Sono solo uno che un giorno si è alzato, ha preso una bici senza averla mai usata davvero, e ha deciso di andare da Milano a Barcellona”.
Chi parla è un ascolano classe 1997, Riccardo Rossi, che con il nome d’arte PelleOssa si è imposto nel mondo dell’arte: è un tatuatore. Ma non uno qualsiasi. Uno che ha tatuato in tutto il mondo: America, Europa, Asia, anche il Medio Oriente. Ha disegnato sulla pelle degli altri mentre provava a disegnare la propria vita, giorno per giorno, viaggio dopo viaggio. Eppure, non era iniziata così. Per 12 anni era stato un motociclista professionista (passione in comune con lo zio), anche con nomi molto importanti. Poi un grave incidente provoca la repentina fine della carriera.

Uscito dall’ospedale PelleOssa, durante la difficile convalescenza, comprende che la sua strada era un’altra. L’arte. E inizia a esplorarla praticamente da zero, nonostante il padre a sua volta artista. E poi “ho deciso quattro anni fa di non fermarmi mai. Ho girato ovunque, ho fatto eventi, ho lavorato con sponsor, ho tatuato persone di ogni posto. Ho scelto di non avere un luogo fisso”.
Poi, in questo vagare, è arrivata Milano: un amore, Claudia, la sua fidanzata, e una vita che sembrava chiamarlo a fermarsi almeno un po’. Ma quest’anno qualcosa si è rotto. O forse si è acceso. “È morta mia zia. Una donna di un grandissimo spirito, fortissima, legata a mio padre che per me è sempre stato un riferimento. Se n’è andata in tre mesi a marzo. È stato un colpo”. Il dolore, a volte, ci obbliga a guardarci dentro. E lui si è chiesto: “Quando è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa solo per me?”.



Così è nato il viaggio in bici da Milano a Barcellona. Suo nonno era un ciclista agonista, una vita con la bicicletta. Lui, invece, parte senza allenamento, senza preparazione, senza piani. “Avevo solo una bici e la voglia di farlo”. Barcellona non era una città qualunque. Era il luogo dove, dopo l’incidente, aveva iniziato davvero a tatuare. Dove suo padre aveva lavorato. Dove era nato il suo nuovo inizio. E Milano era il presente, la vita che cambia, che ti chiede di decidere chi sei. “Avevo pensato di fare la Costa Azzurra, ma alla fine ho scelto le montagne, tagliando da Genova. Perché io sono nato e cresciuto tra le colline vicino ad Ascoli Piceno. Era giusto faticare”.
Pedalare, racconta, è stato scoprire un ritmo diverso. “Ho sempre viaggiato per lavoro. Ho visto mezzo mondo, ma sempre di fretta, senza mai potermi fermare davvero a guardare”. Questa volta no. “In bici non puoi leggere. Vai piano con le valigie, a 17/20 orari. Guardi. Guardi e basta. Vedi le persone, i loro occhi, quello che mangiano, come vivono. E ti chiedi come vivi tu”.

C’è stata fatica, vera. Dolore alla schiena per colpa di quell’incidente, fame, cali di zuccheri da gestire. Perché farlo allora? “Per scoprire se dentro di me esistessero dei limiti. Per capire dove comincia la sofferenza, dove finisce la resistenza. Volevo spingermi al limite, ma anche – e forse soprattutto – dare spazio ai pensieri, lasciarli fluire lungo le strade, i campi, le montagne. Immergermi in un mondo nuovo. Più vicino alla natura, ai paesaggi. Più vicino a una terra che sentivo, in qualche modo, anche mia”. E poi le persone. “Ho visto gente che viaggiava a piedi. Persone che camminavano da mesi. Ho capito che c’è un mondo che non conosci finché non rallenti”.
Quando è arrivato a Barcellona non si è sentito un eroe. Si è sentito vivo. E diverso. “Non mi sembra un percorso così estremo, ora che ci penso. Ma emotivamente sì, è stato estremo. Perché se puoi pensarlo nella tua testa, allora puoi farlo”. Quello che ha scoperto è che il corpo non è solo un oggetto estetico. “Il corpo è una macchina complessa. Ti permette di pensare, creare, essere umano. Ti fa capire che puoi essere un artista, una persona importante, ma anche solo un uomo. E va bene così”.

Un momento necessario. Quando si è soli, si rallenta. Si vive davvero al proprio ritmo, senza dover fare compromessi. Ci si riconnette all’istante, al momento presente. “Dopo tanto lavoro e tante cose che mi sono dovuto imporre, ho voluto abbandonare tutto nella mia testa per un piccolo periodo. Ho staccato dai social, dalle notifiche, dalle distrazioni, dai pensieri per importanti decisioni lavorative. Volevo capire davvero cosa c’era dentro di me, senza il rumore di fuori, dopo tutto questo casino passato in questi anni”.
Se gli chiedi cosa consiglierebbe, la risposta è semplice: “Fate un viaggio del genere. Vi farà credere di nuovo nelle persone. Ma soprattutto, vi farà credere di nuovo in voi stessi”. La solitudine del viaggio arricchisce. È un grande spazio di libertà e di esplorazione interiore, che ci fa ricordare chi siamo e cosa desideriamo davvero. Perché il mondo è più grande. E anche noi lo siamo.


