Le insufficienze di quest’anno? Sono colpa della Dad. La svogliatezza degli studenti? È colpa della Dad. I cattivi rapporti scuola-famiglia? Sono colpa della Dad. E poi ancora la depressione, la maleducazione, i disturbi alimentari, il consumo di droghe e i suicidi giovanili… La Didattica a distanza (Dad) è stata l’unica alternativa alla sparizione del sistema scolastico durante le fasi più acute della pandemia, l’unico modo per non lasciare soli gli studenti. Una novità che ha portato con sé inevitabili criticità ma che ha anche aperto nuove possibilità.
E allora perché si era arrivati a darne una visione così tragicomica, come in quest’articolo di aprile? “Omicidio Corso Vittorio Emanuele, il Prefetto Spena: ‘I ragazzi hanno bisogno di tornare a scuola’”. Cosa collega la Dad a un omicidio compiuto da un 23enne, del padre della propria fidanzata 18enne? Nulla, eppure sono le istituzioni ad averlo fatto, non la semplice fantasia di un giornalista.
Cos’è la scuola in presenza? Questa è la vera domanda, da troppi elusa mentre si sposta l’attenzione sui (spesso presunti) limiti della Didattica a distanza. Fra un docente che, seduto in cattedra e di fronte a una classe silente, ripete stancamente la stessa lezione che svolge ogni anno e un altro che dietro a uno schermo coinvolge gli studenti in un dibattito, dopo aver spiegato una mezz’oretta attraverso l’ausilio di slide, immagini, brevi video chi vi sembra più efficace?
Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha dichiarato più volte “che la scuola deve essere affettuosa, dobbiamo ricostruire un sapere, un imparare di affetti”. La scuola in presenza di questo sfortunato anno scolastico è stata tutt’altro che socializzazione. Questo maggio in presenza, da poco concluso, è sembrato a molti studenti molto diverso dall’auspicato ritorno all’”affetto” e alla socialità: ansia, stress, compiti e interrogazioni a ripetizione perché “bisogna recuperare un anno perso, in Dad non facevate nulla”. E spesso il sogno non tanto recondito dei docenti era: “Speriamo di riuscire a bocciare quest’anno”.
Interessare e appassionare, questo è il vero nocciolo della questione. Di quali docenti conserviamo memoria (positiva), in seguito? La stessa parola “insegnare” deriva dal latino “insignare” e significa lasciare il segno nella mente e nel cuore, lasciare un’impronta dentro lo studente, segnarlo dentro. “Che tu sei qui – che la vita esiste, e l’identità, Che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un verso. Quale sarà il tuo verso?” per citare il poeta Walt Whitman de “L’attimo fuggente”. Il docente deve essere colui che ci accompagna dentro di noi alla ricerca del nostro verso. Il prof che è stato capace di incantarci, aprirci nuovi orizzonti, credere in noi e darci fiducia. Quante le ore perse, invece, in interminabili lezioni in cui ci si sforza di rimanere attenti mentre la mente prova a vagare altrove?
“Se c’è la voglia, se c’è il desiderio, se c’è l’amore, allora si riesce anche a coinvolgere i più recalcitranti. E poco importa presenza o distanza. La vera questione è l’autorevolezza: un’autorevolezza che deriva dalla passione; una passione che deriva dall’amore; un amore che, a sua volta, deriva dalla cura. Prendersi cura di chi ha bisogno di noi stessi. Ricordandoci il motivo per il quale un giorno, decidemmo di diventare insegnanti”. Questo è l’invito della filosofa Michela Marzano.
E invece qual è stato l’argomento più dibattuto di questi mesi in didattica a distanza? Il problema della “copiatura”. Secondo un sondaggio riportato da “La Stampa”, quasi 1 alunno su 2 si è almeno una volta imbattuto in un insegnante che ha adottato un sistema definito “fantasioso” se non proprio “assurdo” per evitarla. Alzarsi in piedi e restarci per tutto il tempo dell’interrogazione; mettere le mani in alto o dietro la testa; tenere in braccio libri e quaderni chiusi; muoversi in continuazione per la stanza, distanziarsi dal tavolo, utilizzare un’altra videocamera per inquadrare la stanza, condividere lo schermo del Pc, tenere lo sguardo fisso sulla webcam. Oppure ancora prendere uno specchio e posizionarlo alle proprie spalle, assicurarsi dell’illuminazione dell’ambiente o di un adeguato segnale wi-fi, trasferirsi in un’altra stanza della casa portando con sé solo il dispositivo. Fino ai casi dibattuti sulla stampa, come mettere una benda sugli occhi; coprirsi il viso con le mani o semplicemente tenere gli occhi chiusi; chiedendo di girare la sedia e di dare le spalle allo schermo, di fissare la parete laterale, di guardare il soffitto. Oppure, perché no, mettere la faccia su un cuscino.
“Chi apre la porta di una scuola chiude una prigione”. Lo diceva Victor Hugo. E sembra più che mai d’attualità se la concezione di scuola continua ad essere quella fondata sul principio d’autorità, sul sorvegliare e punire, dove i voti sono le clave per tenere a bada e a cuccia gli studenti intesi come “vasi da riempire”. Secondo un rapporto Ocse del 2019, gli studenti delle superiori in Italia sono più ansiosi e stressati rispetto ai coetanei europei, temono compiti e interrogazioni e sono particolarmente attaccati ai voti.
E, invece, commenta lo psicanalista Massimo Recalcati in “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento”: “È la cifra fondamentale del nostro tempo: nell’epoca dell’indebolimento generalizzato di ogni autorità simbolica è ancora possibile una parola degna di rispetto? Cosa può restare della parola di un insegnante o di un padre nel tempo della loro evaporazione? La pratica dell’insegnamento può accontentarsi di essere ridotta alla trasmissione di informazioni – o, come si preferisce dire, di competenze – o deve mantenere vivo il rapporto erotico del soggetto con il sapere?”.
Non c’è niente di più vecchio, eppure niente di così innovativo, di quell’insegnamento che già Socrate e poi Platone hanno rivelato, per poi essere ribadito in seguito da tanti, in particolare il grande pedagogista brasiliano Paul Freire: “Attraverso il dialogo si verifica il superamento da cui emerge un dato nuovo: non più educatore dell’educando, non più educando dell’educatore; ma educatore/educando con educando/educatore. In tal modo l’educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo con l’educando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa. Ambedue così diventano soggetti del processo in cui crescono insieme e in cui gli ‘argomenti di autorità’ non hanno più valore. A questo punto nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in comunione, attraverso la mediazione del mondo”.
Nel dibattito pubblico si continua a confondere la didattica con la distanza e ad attribuire alla Dad i mali di quest’anno scolastico. No, non stiamo crescendo generazioni di “sconfitti dalla Dad”, anche se è vero che ci siano degli “sconfitti”: questi, però, lo sono per un insieme di cause (le scuole non operano nel vuoto) e, in alcuni casi, per una distanza e una vicinanza gestite molto male. Ma si tralascino pure i motivi sociali, economici e culturali della “sconfitta” per concentrarsi sul piano didattico. Se la didattica a distanza e quella in presenza vengono gestite male è anche perché si continua a dare per scontato che: 1) basti stare a casa per parlare di didattica a distanza e che 2) basti stare in aula per parlare di didattica in presenza.
La didattica prevede una riflessione sistematica sui fini e sui mezzi dell’insegnamento e scelte conseguenti. Le scelte sono così tante che parlare di didattica al singolare è una semplificazione del tutto fuorviante. Quale didattica, in presenza o a distanza, svolgiamo? Attiva, cooperativa, direttiva, ecc.? La didattica non è quello che qualche giornalista e (purtroppo) troppi docenti incompetenti credono che sia. Addossare alla distanza i problemi della scuola italiana è uno dei migliori modi per fare sì che nulla cambi.
[…] la Dad diventata il bersaglio polemico preferito da demolire a ogni costo (ne abbiamo già parlato qui). Ogni anno, comunque, vagonate di articoli su quanto la scuola italiana faccia letteralmente […]