Ho sempre pensato che deve esserci un timbro – e un tocco – un po’ orientale nel rapporto che Tullio Pericoli ha con il paesaggio, non tanto nel segno o nel gesto pittorico in senso stretto quanto nella concezione filosofica, per almeno due ragioni che provo a riassumere.
La prima riguarda il carattere relazionale tra noi e la natura, l’imprescindibile osmosi tra natura e cultura che, storicamente, è molto più presente nel sentire orientale che nella nostra tradizione occidentale, a lungo dominata da un senso di distacco antropocentrico e assoggettamento della natura stessa.
Non a caso per indicare quello che noi chiamiamo paesaggio i cinesi usano un ideogramma composto da due parole (o immagini), corrispondenti al fiume e alla montagna. L’immobilità dunque, ma anche il continuo mutamento, la fluidità che in qualche misura modifica, trasforma e impedisce la stasi.
E qui vengo al secondo elemento che mi pare caratterizzi l’arte di Pericoli – e che mi pare di ritrovare nelle sue riflessioni raccolte in questo libro da poco pubblicato da Adelphi, Arte a Parte -, vale a dire la necessità di uno sguardo che cerchi sempre di cogliere le stratificazioni presenti nei paesaggi. I diversi livelli di trasformazioni, permanenze, convivenze che il tempo e i nostri interventi producono.
Entrambe le questioni, peraltro, mi sembrano “all’ordine del giorno” nel senso che sono o dovrebbero essere abbastanza al centro delle scelte che ora ci riguardano poiché chiamano in causa il nostro rapporto con la natura, l’ambiente, gli altri animali se vogliamo, ma anche la manutenzione e l’educazione del nostro sguardo, diciamo un’ecologia della percezione contro le cadenze e le continue distrazioni di quella che Adorno opportunamente chiamava la cattiva immediatezza.
Per noi che viviamo da queste parti sembrerà scontato, ma per chi arriva nella provincia di Ascoli e voglia conoscerne le bellezze ambientali e culturali, non c’è dubbio che una chiave di lettura utile per capire qualcosa della sua storia e forse persino del carattere dei suoi abitanti, sia l’osservazione dei tratti del paesaggio segnato dal lavoro umano. Tra i più singolari, ad esempio, quelli che si apprezzano partendo da Ascoli e ripercorrendo per vie interne il territorio piceno attraverso località quali Castignano, Ripaberarda, Offida, Colli del Tronto: lo scenario che ha per fondale il monte dell’Ascensione e vede come in rilievo le colline coltivate a vigneti e uliveti in alternanza coi calanchi, ricorderà inevitabilmente i paesaggi di Tullio Pericoli, che è nato proprio a Colli del Tronto e che da questi luoghi ha saputo trarre una cifra intima e al tempo stesso universale attraverso la lettura dei segni dell’antropizzazione, del rapporto tra natura e cultura, dei cambiamenti nel lavoro umano visibile nelle sistemazioni a rittocchino dei terreni declivi e nelle rughe dei colli.
Un rapporto così stretto che in ogni paesaggio di Pericoli la presenza umana è implicita anche quando invisibile, così come gli incredibili e giustamente celebri ritratti – pensiamo a Beckett e al suo volto solcato da rughe – sembrano a loro volta paesaggi cadenzati dal tempo. Qualche anno fa, in un’ampia esposizione dedicata a Pericoli all’interno della Galleria d’arte contemporanea di Ascoli, credo di ricordare che l’evocazione delle colline picene e dei Sibillini scandiva un percorso artistico che dallo Studio per la città in fiamme del 1966 arrivava a Senza Cielo del 2008 e al dittico Sedendo e mirando, titolo leopardiano che era lo stesso della mostra. Lo scorso anno poi (un anno che non si sa se definire particolarmente lungo o imprevedibilmente corto, a seconda della percezione di ciascuno) Pericoli, chiamato nel frattempo e non a caso da Italia Nostra ad accompagnare con la sua opera la campagna nazionale per la tutela del patrimonio paesaggistico nazionale denominata Paesaggi Sensibili, è tornato ad Ascoli, stavolta a Palazzo dei Capitani, con l’esposizione Forme del Paesaggio, aperta nel marzo 2019 e chiusa a marzo ’20 anziché a maggio come previsto per via delle restrizioni causate dalle note vicende sanitarie.
Tornando al libro Arte a parte, che Tullio Pericoli presenterà domenica 25 luglio al Circolo nautico di San Benedetto del Tronto, ore 21,30 all’interno della rassegna Incontri con l’autore, mi pare di poter dire che sia ricco di riflessioni e spunti e che componga una sorta di autobiografia artistica ma anche umana, a partire da alcune parole-chiave e immagini ricorrenti o, al contrario, inconsuete. E’ il caso del capitolo – e del termine – Adornos, stimolante riflessione sulla pittura come scrittura o, comunque, linguaggio con una sua autonomia e indefintezza riconducibile al “non so che” di cui parla Jankelevich, oppure la parte in cui descrive il gesto di Picasso filmato da George Clouzot in quello che resta probabilmente il più bel documentario non solo o non tanto sulla biografia di una artista ma proprio sul suo “fare arte”. La dimensione materica, insomma, il ruolo decisivo del corpo oltre l’intelletto.
E ho trovato conferma, nel libro, della vitalità relazionale che si sviluppa con il paesaggio, in particolare nell’ultimo capitolo intitolato appunto Paesaggio, nel quale Tullio descrive la terra come “un grande paesaggio di cui una piccola parte, con minore o maggiore fortuna, è destinata dalla nascita a molti di noi. La prima volta che lo vediamo ha la luce degli occhi di nostra madre, ed è in quella luce che continueremo a vederlo”. Questa sensazione di avvolgimento e pienezza, questa aura di paesaggio continuerà a contenerci e in qualche modo proteggerci, ma col tempo ne perderemo coscienza, scrive Pericoli, e per tornare a vederla dovremo cercare di guardarla con occhi diversi, con gli occhi di chi si è allontanato e può guardare con occhi stranieri. Il paesaggio, ma forse vale anche per altre cose, tornerà a manifestarsi e saprà parlare più intimamente proprio a chi se ne è allontanato, rispetto a chi non ha mai sperimentato la distanza.