Franco Arminio, il poeta paesologo e l’utopia necessaria

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Seguo Franco Arminio, che mercoledì 22 settembre aprirà questa edizione 2021 di FuturoMemoriaFestival con le sue Riflessioni sulla nuova geografia della bellezza, della cultura, dell’umanità, da quando alcune prose brevi apparvero, mi pare nei primi anni Novanta, nell’antologia curata da Gianni Celati, Narratori delle riserve (1992), dove le “riserve” erano intese come spazialità alternative rispetto al mainstream editoriale e alle pubblicazioni provenienti dai grandi centri.

Più tardi il suo nome è stato associato con crescente frequenza all’inedito concetto di paesologia, se non ricordo male a partire dai libri Vento forte tra Lacedonia e Candela pubblicato nella collana Contromano di Laterza, e Viaggio nel cratere edito da Sironi. Se nel corso del Novecento modernista la flânerie ovvero l’esperienza del particolare e dell’irregolare riguardava i contesti urbani e metropolitani, con la paesologia ci si spostava in aree periferiche per sondarne i caratteri di sopravvivenza di forme di vita peculiari, l’eventuale abbandono e desolazione, l’omologazione a modelli culturali in precedenza estranei.

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Aree interne. Paesi e poesia è il titolo-argomento della giornata d’apertura del festival, nella quale Arminio dedicherà attenzione alle piccole comunità delle aree interne e alle opportunità di rigenerazione a patto che, come suggerisce il titolo di un suo libro recente, La cura dello sguardo, si riesca a cambiare prospettiva di vita, rovesciare quella sindrome di “autismo corale” che sviluppiamo rinchiusi dietro i nostri piccoli schermi, e riscoprire priorità vitali.

Per certi versi oltre che lettore dei testi di Arminio l’ho sempre percepito, almeno in parte, quale compagno di strada rispetto al mio lavoro con Slow Food, sia nella riscoperta e valorizzazione di risorse e energie nelle aree minori sia nella scrittura, specialmente con la collana Itinerari Slow, di guide alla scoperta di territori marginali o, nel caso di aree più battute, a partire da una prospettiva meno scontata.

La cifra peculiare di Franco, come scrive Giulio Iacoli dell’Università di Parma, sta “nell’ascolto approfondito dei luoghi minori, mediante l’insistenza su di una posizione centrifuga, porta alla luce la disarmonia della condizione dell’intellettuale rispetto al suo tempo, la valorizzazione della poesia del residuale (un tempo perduto che si sedimenta e tramuta nello spazio, marginale e all’apparenza uniforme, monotono, difficile a cogliersi nella sua specificità), le contraddizioni patenti dell’Italia contemporanea”.

Oltre questi aspetti e anche oltre l’innegabile fascino della produzione poetica, vorrei qui ricordare due aspetti della militanza di Arminio che mi sembrano preziosi e urgenti nel presente, ovvero la decostruzione di luoghi comuni e l’individuazione di strategie possibili per aree fragili come le nostre appenniniche.

Rispetto a queste ultime in numerose occasioni (una tra le tante, che ora ricordo, è il volume L’Italia profonda) Franco ha ricordato come la parola paesaggio derivi da paese, e dunque non possa esserci separazione tra socialità e natura, azione umana e ambiente naturale, sicché il modo più consapevole di guardare ai problemi dello spopolamento appenninico e di cercare forme adeguate a ridimensionarne la desolata decadenza dovrebbe essere quello di non limitarsi alla contemplazione nostalgica bensì di arricchirne la fisionomia attraverso lo sviluppo di  economie locali e di scambi con la città che ne sostengano la demografia. È quanto sostengono anche architetti come Stefano Boeri, e su cui riflettono studiosi di vari ambiti tanto più dopo l’esperienza ancora calda, più che recente, della pandemia e dei suoi lockdown.

Quanto all’Arminio salutare provocatore culturale voglio ricordare alcuni recenti interventi che vanno nella direzione dell’ecologia dello sguardo e, quanto mai benemeriti, del linguaggio. Si pensi ad esempio a quanto scrive attorno all’oscurità programmatica di certi linguaggi, compresi quelli poetici, di come “certe poesie abbiano un’aria ostile, come se la cordialità fosse un segno di banalità. (…) Il lettore non è interessato alla nostra sapienza ma a un testo che gli consente di vedere meglio parti di sé e del mondo.(…). Ognuno può scrivere quello che vuole ma non si può pretendere che i testi disertati dai lettori siano i migliori per via di principio, come se il lettore fosse sempre colpevole e il poeta fosse sempre innocente”.

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Non meno stimolante un testo sulla necessità di riscrivere l’alfabeto sentimentale, contenuto ne L’infinito senza farci caso, e intitolato Manifesto delle intimità provvisorie:
Io non so cosa sia l’amore. So cosa sono le intimità provvisorie. Non pensate a godimenti fuggitivi, non pensate alle divagazioni non matrimoniali. Credo che solo una visione vecchia di noi stessi e degli altri ci possa ancora far pensare all’amore come a una cosa che prima non c’era e poi compare e poi finisce. A me sembra che ci sono parti di noi che in un certo senso sono sempre in amore e altre che sono sempre in fuga e sepolte e irreperibili. L’amore si svolge dentro i confini di una cultura e di una religione che temono il giacimento mitico e poetico a cui ci fa attingere ogni incontro bello”.

Infine, il ribaltamento dello stereotipo sulla provincia, basato sulla constatazione di quanto sia diventato provinciale, in realtà, il mondo globalizzato. Un mondo caratterizzato in questo tempo da miseria spirituale e dall’incapacità delle grandi città di fornire modelli culturali di un certo respiro. La tecnologia – dice Franco – ha accelerato il tempo e fermato il mondo, e noi ci troviamo in una danza furiosa e immobile con le città in cui si fanno le stesse cose che si fanno ovunque, solo con passo più accelerato.

Il mondo è provinciale perché ha perso il rapporto con il suo passato e ogni tensione al futuro (…) , perché ovunque c’è una sfrenata dedizione alla furbizia, (….) e quella che chiamiamo globalizzazione è in realtà una neo-ruralizzazione. L’impero della finanza è più vicino di quanto si creda alle cittadine piccolo-borghesi dove da sempre ha un ruolo centrale il portafoglio”.

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