Rossini Opera, un festival di grande valore

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Riesce difficile in agosto, Lucifero o non Lucifero, rinunciare a un’opera o a un concerto (almeno uno) del Rossini Opera Festival pesarese, uno dei tre o quattro eventi culturali italiani valutati al massimo livello nel mondo. Tanti e bei ricordi si incrociano dalle edizioni passate, come quando per la prima volta assistetti al Viaggio a Reims e scoprii un autore di incredibile modernità, che nel primo Ottocento aveva immaginato un’opera praticamente priva di trama – qualcosa di paragonabile a Otto e mezzo di Fellini o a un film corale di Altman – in cui una serie di personaggi restano bloccati in un albergo termale in attesa dei cavalli che possano condurli a Parigi per il ritorno del re da Reims.  Quest’anno non ho trovato i biglietti per Il viaggio e la mia scelta è caduta sulle poco frequentate Sonate a quattro, nel pomeriggio del 12 agosto.

Composte da un precoce dodicenne nel 1804 furono però pubblicate da Ricordi e trovarono circolazione molti anni dopo, quasi poco prima del ritiro del compositore pesarese.

E’ ben nota la stanchezza, il vero e proprio esaurimento nervoso che condizionarono Rossini a partire dagli anni ’30, ma non sembra azzardato leggere nel silenzio, nella vita al riparo dai riflettori-come si direbbe oggi-anche un desiderio di rallentare e sottrarsi alla logica di dover continuamente adeguarsi ai nuovi gusti. Musicalmente, del resto, aveva segnato con indiscutibile originalità un’epoca, e con la Piccola Messa Solenne anticiperà certe soluzioni timbriche novecentesche, trovandosi solo in parte in sintonia con lo spirito romantico. Per Rossini la leggendaria (e relativa, visto che compose oltre ai Peccati di vecchiaia lo Stabat mater e un vero capolavoro, la Piccola Messa Solenne, appunto) inoperosità durata quarant’anni, dal 1829 all’anno della sua morte, il 1868, inizia, in realtà, dopo un periodo di formidabile produttività e creatività, diciannove anni di carriera folgorante che lo avevano portato ai vertici della reputazione in Europa. C’è come un senso di inattualità nella sua inoperosità, un progressivo distacco, ben percepibile da certe sue lettere, non tanto dalla musica quanto da quell’attività compositiva che in precedenza era stata febbrile, e la decisione di godersi una vita rilassata a Bologna (dove la famiglia si era trasferita da Pesaro quando Gioacchino aveva sette anni), città della sua infanzia, dell’adolescenza e delle prime composizioni.

Anche la sua ben nota passione gastronomica, di cui si è abusato oltre misura con l’attribuzione al compositore di ricette che in massima parte erano omaggi, va forse interpretata in chiave, per così dire, di ironico distacco. Come quando, avendo ricevuto in dono dal barone Rothschild una confezione di pregiata uva, rispose: “la vostra uva è eccellente, vi ringrazio, ma poco mi piace il vino in pillole” . O come quando, invitato a trascorrere un periodo negli Stati Uniti, sembra che accarezzasse per qualche attimo l’idea, ma solo a condizione di essere accompagnato dal celebre cuoco Carème, suo amico. Decise poi di soprassedere e, come lo scrivano Bartleby di Melville,  rispose qualcosa come “Grazie, preferirei di no”.

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