Maria Borio, il dialogo con una delle voci più interessanti della poesia italiana

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La Libreria Prosperi (per chi non la conoscesse, legga QUI), di cui seguiamo spesso le attività culturali, prosegue i suoi aperitivi letterari anche d’estate, in collaborazione con La Birretta. Sabato 15 luglio alle ore 18,30 il prossimo appuntamento. In attesa della serata, ospitiamo di seguito un interessante dialogo/intervista fra i due protagonisti dell’evento: Maria Borio, poeta tra le più stimate degli ultimi anni, e il poeta Alessio Alessandrini che fungerà da moderatore.

La porta, l’arco, la finestra, la portafinestra, il bosco, la membrana, la pellicola sono tutti simboli di un limite, (ndr: L’altro limite si intitola un tuo precedente libro edito per la Gialla di Pordenonelegge del 2017, che contiene in sé diversi testi poi inseriti nel più corposo Trasparenza), tutte soglie, zone di passaggio tanto più evidenti, non solo da una realtà a un’irrealtà, ma anche da una spazialità a una spazialità altra, da una temporalità a una temporalità altra, come in mondi paralleli; appaiono come zone generative che danno forma al pensiero, al suono, all’immagine, e contengono l’informe, lo circoscrivono. E così mi risuonano le parole che hai messo a conclusione del tuo ultimo bellissimo lavoro che è Prisma (nella preziosa collana dei Manufatti di Zacinto edizioni, del 2022), le parole di C. Lispector: Una forma circoscrive il caos, una forma dà armatura alla sostanza amorfa […]: sarà di nuovo la vita umanizzata. Mi sembra che a conti fatti un po’ tutta la tua scrittura ambisce a questo folle tentativo di dar forma all’informe, (ma è forse –  tout court il senso della scrittura, di ogni scrittura): chi siamo, / cose di vento, / cose che chiamano …

“Penso che il tentativo di dare forma all’esperienza corrisponda a uno dei nostri bisogni elementari: trovare un senso per quello che facciamo, sentiamo, per la nostra identità. Non credo che la forma sia qualcosa di diverso dal modo in cui cerchiamo di comprendere l’esperienza. Anche la natura ha dei ritmi, che danno forma alle sue manifestazioni: i movimenti delle maree, i cicli lunari, quelli delle stagioni. In questo momento di trasformazioni globali e climatiche, assistiamo al riassetto di nuovi ritmi e, quindi, di nuove forme. Essere capaci di pensare alle cose in modo letterario significa riuscire a “sentire” e “vedere” delle forme, ed esprimerle. La letteratura può essere considerata un modo trasversale di leggere la realtà: interrogandola, si mettono delle idee in un corpo formale, che non è mai astratto. Questo corpo è un’entità intelligente, di cui capiamo di fare parte, tanto per la nostra capacità di provare molte emozioni quanto per la nostra capacità di chiederci il perché di quello che ci capita, che facciamo, che sentiamo. Ci siamo abituati a pensare all’intelligenza come a qualcosa di freddo, numerico, algoritmico, da molti punti di vista artificiale. Ma la letteratura ci dice che l’intelligenza è molto più naturale – a noi connaturata – di quanto la tecnica ci può aver abituato a credere”. 

Siamo in una dimensione liquida, (penso alla bellissima “Fondale”: Se restiamo in silenzio siamo conduzione: / parole, anelli allacciati, elettricità, persone / adesso su un fondale stranamente illuminato – versi che avrei voluto scrivere io), dove, proprio per questa fluidità, è difficoltoso l’ancoraggio; di fatti uno dei temi che mi pare ritornino in Trasparenza, (ma anche in altre tue raccolte), è sicuramente quello della ricerca dell’equilibrio: Equilibrio sulle acque è equilibrio? (recita un verso di “Dorsoduro”); c’è come il desiderio di colmare le distanze, di elidere quanto separa l’uno dal contrario; un gioco di contrappesi e contrasti che ben si evince in versi come questi:

Li hai visti scambiarsi i suoni,
il mare che fa silenzio, i legni
degli scafi, frutti nell’ombra.
Il silenzio era nero e perfetto:
uno dal bordo sul mare si sporge,
l’altro lo trattiene a terra
(da Altre parti)
meccanica e carne invisibili lavorano
e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro
entrando uscendo dal grande vetro
come l’arte afona e oscura di Duchamp
taglia a sezioni.
(da Isola)

(…)

Tutto può riconoscerci in un solo tempo
come se coscienza e incoscienza
si toccassero?
(da Verde e Rosa VI)
Chi non ha vissuto per un po’ in equilibrio 
sopra figure di sabbia? Tra È vero e Devo, una ragazza 
ancora non sa guardare le cose che si avvicinano, 
diapason dentro bolle d’aria: 
nascondo o mostro, mi uniformo o ribello?
(da Ragazza di suono, in Prisma)

Altro equilibrio da accordare è poi quello tra l’io e il tu, che poi nel Dal deserto rosso si coniuga e concretizza nel prefisso greco sin, nell’insieme. Il fatto che in molti tuoi testi compaiono versi interrogativi, poi, è il concretizzarsi di questa quête, di questa ricerca? 

“Penso che la poesia debba suscitare la comprensione di una prospettiva pluridimensionale, come se attivasse dei centri di contatto. Ogni parola è un centro gravitazionale che attrae le altre. Il significato di una poesia si compone come una catena di riflessi, o di onde, da un centro gravitazionale all’altro. La poesia attiva la percezione di una dimensione diversa rispetto a quella in cui ci troviamo fisicamente o a quella che ci fanno percepire le nostre abitudini. Per me la poesia assomiglia al cinema o alla video-arte piuttosto che alle arti figurative tradizionali, alla matematica pura piuttosto che agli algoritmi e, ovviamente, alla tecnologia. Come le suggestioni video, che aprono spazi immaginativi dinamici, e le ipotesi matematiche, che possono rendere possibile l’impossibile, la poesia è un linguaggio che ci fa interrogare: non dà soluzioni definitive, non è un campo con dei limiti configurati. Per questo, può fare paura, o quanto meno destare sospetto: è mobile e scivolosa, sguscia tra le mani, ma al tempo stesso alimenta la curiosità, l’inventiva, la predisposizione al cambiamento e alla trasformazione. Un punto di domanda, in una poesia, non ha una vera e propria risposta, ma corrisponde al gesto del chiedere e del cercare. La domanda di una poesia è umile e unisce un atto di forza – il prendere parola – e di fragilità – la coscienza dei nostri limiti. Un punto di domanda è fragile e forte: questo paradosso lo salva dall’estinguersi nell’insignificante”.   

Un terzo e ultimo elemento che voglio evidenziare di Trasparenza è legato alla parola “fragile”, la fragilità mi sembra essere costitutiva dell’essere umano; ritorna in maniera quasi ossessiva in molti tuoi testi e in quasi tutte le raccolte. In Trasparenza poi si associa a un’altra parola che reputo fondamentale nella tua poetica ovvero quella di “esposti” (qui titola due testi con riferimento a una scultura di Jeaf Koons). Viviamo in una dimensione di nudità, come se fossimo in un crocicchio in balia dei venti, e anche se velati, la nostra copertura è leggerissima, trasparente, appunto, una pellicola facilmente rimuovibile, lacerabile. Questa dimensione la ritroviamo acutizzata in Dal deserto rosso. È forse sintomatica della weltanschauung contemporanea? È una dimensione privata o universale? 

“C’è una differenza tra l’essere ‘esposti’ e l’essere ‘nudi’. L’esposizione è una condizione contemporanea, non priva di inganni e falsità. I social network ci hanno – quasi – assuefatti ad essere esposti, e così molte dinamiche sociali. Per l’affermazione del nostro sé, essere esposti risulta perfino necessario: trovare il nostro posto nel mondo, sentirsi gratificati, ascoltati e capiti, non richiedono un processo di esposizione?  Esporci, spesso, rientra in un gioco di convenzioni e si manifesta secondo retoriche dell’apparire. Non è raro esporsi nella misura in cui sappiamo che gli altri ci vedranno solo per la nostra apparenza. Certo, l’atto di esporsi comporta una volontà, mentre l’essere esposti è anche una condizione passiva, non voluta, che ci accade e ci coglie come esseri fragili, inermi. Ma le dinamiche dell’apparire portano esperienze in cui non è sempre immediato distinguere se ci esponiamo consapevolmente o se ci troviamo esposti, in balia dell’influenza dei comportamenti. Paradossalmente, quando ci esponiamo, credendo di essere sicuri di ciò che stiamo facendo, siamo condizionati dai comportamenti diffusi, ci adeguiamo ad essi, non siamo autentici, e siamo più fragili di quando ci ritroviamo esposti, siamo presi alla sprovvista e siamo davvero noi stessi, nudi. Ecco, la poesia può cogliere, secondo me, questo aspetto della vita contemporanea: essere esposti, nudi, essere autentici, inevitabilmente fedeli a noi stessi e per questo più forti – perché non possiamo mentire e mentirci. La poesia rappresenta uno stato di fragilità e forza: le persone nella loro autenticità”.   

In Dal deserto rosso ci immergiamo nel tempo più prossimo quello del Covid19, quello pandemico, semplicemente deducibile da immagini e non apertamente dichiarato, il tempo del deserto rosso è quello del lattice nelle mani, del cotone sulla bocca; un tempo che ci interroga sulla nostra autenticità, su come poter salvare la specie umana, eppure in questa “primavera del millennio”, alla “creatura umana” poco si accenna e, semmai, sono gli esseri naturali – animali e vegetali – a gremire i tuoi versi, come elementi apparentemente salvifici – in questo, sì, che ci ritrovo un debito montaliano: il delfino, il merlo, la gazza, l’uccello che risponde al fischio piuttosto che l’ulivo secolare, il biancospino, le primule rosse, (le “fragili” primule rosse). Per il “restauro” del cielo, (e, dunque, della terra – sempre per il gioco degli opposti di cui sopra), c’è quindi questo richiamo, oserei dire quasi francescano, alla natura, alla pura e fragile esistenza dei suoi elementi. Eppure, la natura era anche la tortora che in Trasparenza IV ruba “i due frutti quasi maturi …”, che ci dici in tal senso?

“La mia idea di natura non ha niente di salvifico. La natura non è depositaria della purezza, di valori sacri, o del necessario, e perciò di quello che è giusto, rispetto alla corruzione della specie umana. Non vedo un dualismo tra natura e cultura, così come tra creatività e scienze. Potrà sembrare strano, ma Montale e San Francesco appartenevano a un tempo in cui la percezione dell’esistenza era dualistica: la vita terrestre e Dio dalla prospettiva cristiana, l’essenza e l’apparenza nella prospettiva laica del velo di Maia di cui parla Montale. Noi viviamo in un tempo diverso. Penso che la natura sia il ‘corpo esistente’: in essa tutto esiste, attraverso una sottile rete di equilibri tra l’organico e l’inorganico, noi e gli altri, l’io e il tu, l’interno e l’esterno. In questo senso, la natura è la condizione autentica di tutto ciò che ‘è’: l’’io sono’ diventa il ‘noi siamo’, che a sua volta diventa ciò che ‘è’. Per questo ho usato la parola ‘deserto’: rimanda a una radicalità delle cose, a uno svelamento laico come rimozione del falso, alla natura”.   

Una caratteristica dei tuoi testi è che spesso fanno riferimento a mondi lontani da quello letterario, penso ai testi che richiamano il mondo delle arti (cfr: le tele di Cranach, le sculture di Koons), alla fotografia, al cinema (penso al titolo di Dal deserto rosso), ma anche alle scienze, alla cimatica (il riferimento agli studi di Ernest Chladni in Prisma) persino. C’è poi una ricerca linguistica, ma anche tematica, legata al linguaggio del web e al rapporto uomo-macchina, mondo analogico vs mondo digitale. Mi sembra essere la caratteristica più innovativa di una poesia che pur non avendo nulla o poco dello sperimentalismo riesce a essere originale, sebbene guardi a una certa tradizione più anglosassone che italiana. Sbaglio? Puoi darci maggiori delucidazioni in tal senso, sul tuo modus operandi, sulle tue letture, sulle tue ricerche (sappiamo di Satura e Montale)?

“La ricerca non sta solo nel lavoro sulla forma, sullo stile, sulla lingua, ma anche nella capacità di costruire un immaginario. Credo che l’innovazione più profonda che un testo possa raggiungere sia quella di aprire un immaginario diverso: farci ‘vedere’ e ‘sentire’ dentro la vita ordinaria una dimensione creativa che la intensifica. Può capitare di scrivere testi in cui lo stile e la lingua siano estremamente sperimentali, ma in cui resta una specie di retrogusto superficiale, di fatti scontati. Non è facile trovare la giusta combinazione tra forma e immaginario. Forse, sono più vicina alla tradizione occidentale della poesia, in senso ampio, rispetto alla tradizione italiana, soprattutto quella orientata allo sperimentalismo. La poesia anglosassone ci mette davanti a una buona dose di verità delle cose: mi piace. Per me è fondamentale una ricerca sulle immagini e sul ritmo, che va oltre la distinzione tra verso e prosa, e si lega a un’idea di scrittura come spazio o ambiente, non a una re-codificazione di modi letterari. Il letterario in sé non basta: cerco una risonanza fluida tra campi diversi – arti visive, suono, dati tecnologici – che possano essere rielaborati attraverso una dimensione formale trans-prospettica. Le immagini e i movimenti ritmici devono essere percepiti con intensità, come se possano stamparsi sulla retina e sulla membrana dei timpani, diventare parte di chi legge o ascolta. L’intensità non significa sentimentalismo o forti emozioni: è una ricerca di lucidità, un’esperienza piena, nel male e nel bene. La poesia – almeno questa… – non dovrebbe eludere, lasciarci in sospeso, disimpegnati. Penso che Montale con Satura usi un’ironia integrale, che non svanisce e affonda il coltello nelle cose che contano”. 

Avrei molte altre cose da chiederti, tante le suggestioni che i tuoi testi suscitano: il motivo della scrittura come graffio, quella del silenzio, il significato che ha la parola “insieme”, il balletto anche grafico tra l’io e il tu, insomma occorrerebbe più di un’apericena per sviscerare la tua poesia, se mai questa cosa qua, dello sviscerare dico, si possa mai davvero fare. Dunque concludo con la più canonica delle domande quella che spesso ho rivolto ad altri scrittori che ho avuto il piacere e l’onore di presentare (a cui puoi ovviamente non rispondere appellandoti al diritto): alcuni sostengono che la poesia sia una malata cronica, altri che goda di un’ottima salute, per te quale è la ‘temperatura’ della poesia italiana oggi e qual è, anche in prospettiva, la condizione della poesia italiana contemporanea? A chi dovremmo guardare con attenzione? 

“Affermare che la poesia sia in cattiva salute o in buona salute, che abbia un senso o che non serva a nulla, spesso riguarda un’idea di letteratura legata a un’industria culturale che funziona bene o male, a una scuola che è sentita come positiva o meno, a un’informazione giornalistica da cui ci si aspettano certi atteggiamenti oppure no. Ma chiediamo qualcosa alla poesia o alle realtà sociologiche in cui essa viene trattata? Ovviamente, vanno di pari passo. Però, nell’esprimere giudizi spesso siamo influenzati più da aspetti estrinseci all’’oggetto in sé’. D’altra parte, questo accade nella maggior parte delle attività, dei lavori, delle relazioni, dei modi di essere. Come misuriamo il valore delle cose? Personalmente, sto iniziando a imparare molto dalle scritture di chi è più giovane di me: riescono a far sì che metta in dubbio me stessa, come posso esprimermi, e la realtà che ho davanti. Mi fanno interrogare”. 

BIOGRAFIA

Maria Borio, nata nel 1985, si è laureata in Lettere ed è dottore di ricerca in letteratura italiana. Poeta e saggista ha scritto le raccolte di poesia Vite unite (in XII Quaderno di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-LietoColle, 2017), Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea, 2019) e Dal deserto rosso (Stampa2009, 2021). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra 2013), Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio 2018) e l’antologia poetica Per tutte noi. La parola poetica delle donne (Le Lettere, 2023). Cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”.

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