Perché tanti uomini hanno paura dei femminismi? Ce lo spiega il filosofo Lorenzo Gasparrini

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Gli uomini pelati sono affascinanti”. Sorride, Lorenzo Gasparrini, guardando verso di me fra il pubblico. Ma non siamo solo noi due ad esserlo. Fra i pochissimi uomini presenti negli splendidi locali del circolo Arci “Caciara” (di cui abbiamo parlato QUI), c’è una sovrarappresentazione di portatori di questo taglio di capelli. Perché il riferimento? Perché bisogna capire una volta per tutte che dei corpi altrui si parla con tatto; non conosciamo la storia di quella persona, non sappiamo quali corde si vadano a toccare. Non contano le intenzioni, in quanto ci si arroga il diritto di prendersi spazi senza alcuna trattativa. E in quegli spazi si può fare male. Anche quando facciamo un “complimento”.

Lorenzo Gasparrini è un filosofo, attivista, scrittore e formatore nell’ambito delle questioni di genere. Dopo la carriera accademica, si è occupato di divulgazione femminista in aziende, centri sociali, università, scuole, ordini professionali, gruppi autorganizzati e varie riviste. L’occasione è la presentazione, in collaborazione con la libreria Prosperi (di cui abbiamo scritto QUI) del suo ultimo libro: “Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia. Perché tanti uomini hanno paura dei femminismi”. A pubblicarlo D editore, interessante progetto editoriale con l’ambizione di creare una classe di lettori aperti al cambiamento. Gli strumenti sono i libri, la rivista D Zine, lo spazio Zona D a San Lorenzo a Roma in cui non mancano mai mostre, corsi, seminari e i temi vanno dai cultural studies, alla filosofia, l’arte, la sociologia e le storie.

La particolarità del suo racconto femminista sta nella scelta degli interlocutori: gli uomini. E lo si vede bene anche dai suoi precedenti titoli: “Diventare uomini” (Settenove, 2016), “Non sono sessista ma…” (Tlon, 2019), “No” (Effequ, 2019), “Perché il femminismo serve anche agli uomini” (Eris, 2020). Spiegare i femminismi a chi è la causa principale del maschilismo. Infatti, ancora troppi uomini, soprattutto bianchi etero e cisgender, non hanno la benché minima idea sensata sui femminismi e le questioni di genere, e di quanto questi argomenti potrebbero essergli utili nella loro vita personale e relazionale. E dove c’è ignoranza c’è chiusura, indifferenza ma anche reazione e violenza.

Il femminismo non è una moda passeggera, ma ha una storia di secoli. Eppure, continua a spaventare coloro che lo collegano a qualcosa di estremo e pensano si tratti del semplice desiderio di imporre la superiorità delle donne sugli uomini. Una sorta di maschilismo al contrario. Un uomo che voglia avvicinarsi al femminismo non deve pensare che questo significhi fare quello che fanno le donne – non avrebbe senso – ma deve ascoltare questi discorsi perché raccontano qualcosa di sé. Il nemico del femminismo non è l’uomo, ma il patriarcato ovvero quel sistema di potere in cui chiunque di noi, di qualunque genere sia, si trova a vivere. L’uomo diventa femminista perché coglie che nella storia delle donne, nelle loro lotte, nelle loro difficoltà ha un ruolo sociale. Attraverso l’ascolto coglie la violenza strutturale. E, al contempo, anche l’uomo è stato parte di una narrazione creata dal patriarcato, che ha voluto che si comportasse secondo alcune regole socialmente giuste e accettate. Gli stereotipi sono chiari: l’uomo veste in un certo modo, parla in un determinato modo, non può piangere perché è sempre forte (anche fisicamente, non è malato), non può essere disoccupato, anzi ci si aspetta che corra affannosamente verso il successo quantificato dal numero di soldi che fa, di donne che ha e di beni che possiede. Se uno viene allevato sentendosi continuamente dire: “Devi essere forte”, diventa semplicemente stronzo.

La mascolinità tossica fa male a tutti. Anzitutto agli uomini. Si ammazzano di più, si suicidano di più, fanno i lavori più pericolosi e insicuri, l’aspettativa di vita non è solo più bassa ma peggiore in qualità. Il cameratismo maschile è la mentalità del branco, è la cultura degli spogliatoi. L’esatto opposto della sorellanza, ovvero la pratica di solidarietà femminile che sfida il patriarcato e riconosce l’altra, la vede e distrugge l’invisibilizzazione a cui sono sottoposte le donne e più in generale tutte le persone che non aderiscono al modello maschile egemone. Il cameratismo è un esercizio di mantenimento dello status quo. Non è importante vedere e riconoscere l’altro come individuo, ma è importante conformare le individualità a un preciso standard per poter imporre una mentalità comune, un agire di gruppo. Chiunque si ribelli è un traditore: tradisce il patriarcato, tradisce il maschile e non è un vero uomo. Fare ciò significa esporsi a diversi gradi di violenza e rinunciare al proprio privilegio.

Perché tutto questo cambi occorre che gli uomini inizino a parlare fra di loro. Anche se il vero uomo non parla del proprio privato, non si cura di sé dentro e fuori. Anche se mostrare le proprie fragilità, fallibilità, emotività è da “femminucce”. C’è bisogno di un capovolgimento sociale: i problemi psicologici individuali non sono altro, in questo caso, che problemi sociali. Insieme, col dialogo (come nei gruppi di autocoscienza), si può distruggere il modello maschile egemone e creare nuovi modelli, in cui le persone possano essere libere e non oppresse da un preciso spazio entro cui stare, agire, pensare. Possano, insomma, stare bene.

Si è accennato prima al privilegio, ma cos’è il privilegio? Per privilegio sociale si intendono le possibilità in più (oppure ostacoli in meno) rispetto a chi, pur avendo gli stessi nostri diritti, non può esercitarli, in parte o del tutto, non per via di qualcosa di acquisibile, ma per via di qualcosa che ci viene attribuito grazie a caratteristiche non “acquistabili” direttamente, ma socialmente valutate come migliori. Nascere uomo bianco e cisgender è oggi un privilegio: si hanno molte meno pressioni sociali sul proprio destino, sono concesse libertà nell’uso del proprio corpo che per altri generi sono causa di disprezzo o discriminazione, il pay gap è a proprio favore, si è meno giudicati e con più risorse alternative per il proprio aspetto, una gran parte degli oggetti e degli spazi in cui si vive sono progettati per corpi come il proprio, la maggioranza delle applicazioni tecniche e dei modelli di comportamento sociale e sanitario sono pensati per il proprio genere.

Anche girare per strada la sera senza doversi guardare le spalle è un privilegio. “Vi racconto questa. Ero a Roma, tornavo a casa e incrocio una donna. Eravamo in una strada vuota. Lei cambia strada e va dall’altro lato. Avrei voluto urlarle che non sono quel tipo di uomo… che non aveva nulla da temere. Ma non credo sarebbe stato molto utile. Anzi. Ecco, questo è il patriarcato”.

Come diceva Rosa Luxemburg, il primo gesto rivoluzionario consiste nel “chiamare le cose col loro nome”. Il linguaggio ha dunque un ruolo importante in tutto questo. Non ci rendiamo conto di quanti condizionamenti riguardo la nostra identità di genere abbiamo subito e trasmettiamo con il linguaggio, rendendoli “normali”. Ma non lo sono, sono sessisti. Quante volte abbiamo detto, pensando di fare un complimento a una donna, che “ha le palle”? Quante volte pensiamo che sia una bella cosa da dire che “le donne non si toccano nemmeno con un fiore”? Quante volte non ci rendiamo conto che la stragrande maggioranza degli insulti e dei proverbi della nostra lingua colpiscono il corpo delle donne, le loro abitudini, quello che si pensa essere la cultura delle donne? Gli esempi sono sterminati. Ma anche sugli uomini, quante volte di un padre che condivide realmente il lavoro di genitore viene definito “mammo”? Quante volte un uomo che condivide i lavori domestici viene definito uno “che dà una mano in casa”?

“Tanti mi criticano, come filosofo femminista, perché sarebbe una posa dettata dal ‘guadagnarci’. Non è così, e la migliore dimostrazione è che non c’è proprio la fila di uomini che si definiscono tali”.

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